mercoledì 15 agosto 2007

Liberazione 15.8.07
Corsera, Bonanni, Bonino contro il Prc
Lavoro, dignità diritti... Esiste un'altra sinistra?
di Rina Gagliardi

Siamo arrivati al dunque: la precarietà
E' l'idea di società in perenne competizione

La "campagna di Ferragosto" del Corriere della Sera sta arrivando al suo culmine - ieri, il maggior quotidiano italiano stanziava il giuslavorista Ichino, il segretario della Cisl Bonanni, nonché la petulante ministra Bonino, tutti insieme contro Rifondazione Comunista e le misurate dichiarazioni di Franco Giordano. Tutti insieme a magnificare la legge 30 e i suoi mirabolanti effetti, nientemeno che sulla riduzione della precarietà. Tutti insieme, ancora, a spiegare che comunque, però, la precarietà è un bene e che è l'ora di smetterla con la "fissazione", tipica della sinistra, del "posto fisso". Basterebbe questa flagrante, flagrantissima contraddizione, a svelare le intenzioni reali della campagna e a renderne evidente la natura ideologica e politica. Giacchè delle due l'una: o la legislazione italiana degli ultimi dieci anni sul così chiamato "mercato del lavoro", quella che va dall'abolizione del collocamento al job and call , ha davvero ridotto la precarietà dell'occupazione giovanile ed esteso il lavoro a tempo indeterminato - e sfido chiunque a sostenere questa tesi, di qualunque cifra sia armato e di qualsiasi statistica si faccia imbonitore - oppure, all'opposto, ha contribuito ad ampliarla, a legalizzarla, a renderla, perfino, senso comune. Come si può agevolmente constatare solo guardandosi intorno, se si vive in questo Paese e non in un altro. Come sa chiunque abbia figli, nipoti, figli di amici e conoscenti, laureati o diplomati o reduci da una (pessima) scuola di formazione professionale, che si arrabattano generalmente a vivere tra un call center e una borsa di studio, tra uno stage in un giornale e un part time a termine in un supermercato rionale - e mille altri così detti "nuovi lavori" e piccole consulenze, che prolungano (così dicono i sociologi) l'adolescenza fino alle soglie dei quarant'anni.
Ora, si può sostenere che tutto questo sia un progresso - non che non ci sia. Né si può affermare che il protocollo del 23 luglio abbia segnato una tappa significativa in quel contrasto alla precarietà, che è un impegno solennemente sottoscritto dall'Unione, nel suo programma elettorale, e da tutti, almeno a parole, condiviso. Allora, qual è il problema? Che siamo arrivati, scusate la ridondanza, al cuore del problema: la condizione del lavoro nel capitalismo contemporaneo. I suoi diritti, la sua dignità. Il suo rapporto con la vita delle persone. Un problema gigantesco, sia dal punto di vista sociale e politico, che culturale.

***
Perché il capitalismo, o la sua parte trainante, sceglie oggi la precarietà? Se volessimo rispondere in termini forse un po' scolastici, ma in fondo (ci pare) abbastanza rigorosi, diremmo, marxianamente, che questa scelta nasce dall'enorme "esercito industriale di riserva" che la globalizzazione offre agli imprenditori: per la prima volta (o forse non è affatto la prima volta, accadde anche alla fine dell'Ottocento), c'è una forzalavoro mondiale, diffusa cioè sul pianeta, a disposizione dello "sviluppo". Dunque, se la tendenza "naturale" del sistema diventa (ridiventa) quella di inseguire questa merce speciale (la forzalavoro) al suo prezzo più basso, al suo costo minore, per forza essa ha da essere flessibile: cioè da usare solo e soprattutto quando serve, quando è (relativamente) compatibile con il profitto. Ovvero, da non usare, tout court , nelle fasi basse del ciclo, nei periodi di crisi, e così via. Questa, per altro, è la natura di fondo del capitalismo e della sua forma attuale, il neoliberismo: un "elefante amorale", come l'ha definito uno studioso, che non conosce né il Bene né il Male, ma solo la propria logica espansiva, la cieca crescita quantitativa - l'orrore economico di cui parlava Vivien Forrester. Quasi duecento anni di lotte hanno avuto un solo filo rosso comune: di qua, il movimento operaio e le sue organizzazioni, che cercavano di ridurre, con fatiche sovrumane ma anche risultati importanti, gli effetti sociali di tale "voracità", e ottenevano diritti, e mettevano in campo la politica; di là, il sistema economico, che opponeva, appunto, la sua logica, i suoi interessi, le sue alleanze - e li presentava come la forma "perfetta" dell'interesse generale.
In Europa, nel secolo breve, questa dialettica ha prodotto un "patto", un compromesso politico e sociale tra due "bisogni", tra due punti di vista altrimenti inconciliabili - ma questo ciclo si è esaurito, anche sotto le macerie dell'89. E oggi, nella fase della competizione globale, il capitalismo europeo (cioè i capitalismi d'Europa) si ritrova stretto tra i due "modelli" dominanti: quello nordamericano, che usufruisce della strapotenza politica e militare degli Usa, e quello asiatico, che applica livelli tali di sfruttamento della forzalavoro da diventare concorrenziale per chiunque. La sua risposta è l'offensiva politico-culturale che vedete dispiegata, quasi ogni giorno, dai suoi più o meno consapevoli apologeti: riduzione, fino allo smantellamento, dei contratti collettivi, delle tutele sociali, dei sistemi di garanzia e protezione. E precarizzazione massima, strutturale del lavoro. Non è una distorsione, è un'idea di società: la società della competizione permanente, che seleziona spietatamente i "migliori" e abbandona la grande massa a una vita mediocre, o peggio che mediocre, e assicura ai poveri un po' d'assistenza - siamo pur sempre in una zona ricca del pianeta. La società senza sicurezze e senza diritti collettivi, codificati, esigibili, garantiti. La società in cui il lavoro, come tale, come la persona, non ha più né valore né dignità - anche se resta la base imprescindibile della ricchezza della società.

Liberazione 15.8.07
Il caso Sanremo, l'orrore, la Giustizia e alcune proposte
La galera non aiuta la sicurezza
Ci vuole un nuovo codice penale
di Giuliano Pisapia

Il magistrato, che ha dimostrato alta sensibilità morale e giuridica, ha dichiarato di aver applicato la legge e non vi è motivo, sulla base di quanto emerso, per dubitarne. Suo compito era quello di decidere se richiedere, o meno, un'ordinanza di custodia cautelare valutando gli elementi esistenti (non quanto avvenuto successivamente). L'attuale legge sulla custodia cautelare, del resto - e va detto con forza - è la migliore possibile, in quanto concilia la doverosa tutela della collettività e dei singoli, con il dovere giuridico di evitare, per quanto possibile, l'arresto di innocenti. E', in breve, ciò che distingue uno Stato di diritto da uno Stato di polizia. Ecco perché, per un provvedimento restrittivo della libertà personale, sono necessari quei "gravi indizi di colpevolezza" (l'indizio è molto meno della prova necessaria per una sentenza di condanna) che, nel caso specifico, il Pm e gli investigatori che con lui collaboravano, hanno ritenuto insussistenti. Una norma, quella prevista dal codice, per nulla "indulgente" o "lassista": lo conferma il fatto che sono di gran lunga più numerosi i casi di arrestati risultati innocenti di quelli di colpevoli nei cui confronti non sia stata accolta una richiesta di custodia cautelare (e ciò malgrado il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza). La limitazione delle garanzie va a scapito, infatti, non dei colpevoli ma degli innocenti e ogni innocente condannato significa un colpevole rimasto in libertà e che continua a commettere reati. Troppo spesso si dimentica che, fino a qualche anno fa, la carcerazione preventiva - definita anche la "lebbra del processo penale" - poteva durare 12-14 anni anche in presenza di indizi labili ed era immenso il numero di imputati incarcerati ingiustamente.
I genitori di Maria Antonia, la donna uccisa a Genova, provati da un dolore senza fine, hanno il diritto di esprimere in ogni modo le loro critiche e le loro "accuse". Chi ha ruoli di responsabilità, invece, deve essere più lucido ed evitare di proporre modifiche che accentuerebbero i rischi sia di errori che di delitti tanto orrendi. Non è con l'emergenza o rimpiangendo un passato che si sperava definitivamente superato, che si migliora la giustizia e si garantisce la sicurezza dei cittadini.
E veniamo al secondo punto: abbiamo, in Italia, un codice penale di stampo autoritario che risale al 1930 e che quindi, in più punti, contrasta con i principi costituzionali. Basti pensare ai casi di responsabilità oggettiva, ai numerosi reati anacronistici e al fatto che le uniche pene previste siano il carcere e la multa, spesso non adeguate alla condotta illecita che si intende punire (un esempio: fino a sei mesi di carcere per "rappresentazione abusiva di spettacolo teatrale o cinematografico"). Sono invece completamente ignorati comportamenti delittuosi nuovi e diffusi, quale quello di cui era già vittima Maria Antonia: le molestie e le minacce persistenti (il cosiddetto stalking, dall'inglese "perseguitare", di cui sono quotidianamente vittime tante donne). Se quel comportamento fosse già stato reato, il magistrato avrebbe potuto prendere tutti i provvedimenti necessari per impedire quell'omicidio. Non con un carcere preventivo basato su sospetti labili che, se generalizzato, rischierebbe di colpire tanti innocenti, ma con una norma "preventiva", specifica e mirata.
Ecco perché è necessario e urgente un nuovo codice penale, accompagnato da una ampia depenalizzazione (che non equivale affatto a impunità ma significa immediata ed efficace sanzione amministrativa). Un nuovo codice per cancellare le tante fattispecie ormai polverose e, soprattutto, per introdurre un diverso sistema sanzionatorio che preveda, oltre alla pena detentiva e a quella pecuniaria, anche pene interdittive e prescittive (come i lavori socialmente utili e le attività riparatorie) in molti casi più efficaci, con una minore recidiva e un maggiore reinserimento sociale. La giustizia non può, e non deve, essere né vendetta nè ricerca di capri espiatori, ma accertamento delle responsabilità e commissione di sanzioni eque, proporzionate quindi all'effettiva colpevolezza.
Questa mattina, al bar, un gruppo di persone, commentando i fatti di questi giorni, invocavano a gran voce la pena di morte. Avrei voluto rispondere che chi è pronto a sacrificare le libertà fondamentali per briciole di temporanea (e apparente) sicurezza, finisce col perdere la libertà senza ottenere la sicurezza. Ho invece pensato che, proprio perché non si può e non si deve sottovalutare il comprensibile allarme suscitato da fatti così gravi, non ci si può limitare a contrastare chi cavalca strumentalmente il dolore e la paura, ma è indispensabile ricreare, anche a sinistra, una cultura realmente garantista e operare, quotidianamente, per una giustizia degna di questo nome.

il manifesto 15.8.07
Radicali e destra in piazza per difendere la legge Biagi
di Alessandro Braga

Roma. Nel giorno in cui Cesare Damiano prova ad abbassare un po' i toni dello scontro sul welfare, con timide aperture alla sinistra alternativa, ci pensano il centrodestra e i radicali a mantenere calda la situazione, annunciando la loro adesione alla contromanifestazione del 20 ottobre in difesa della legge Biagi.
«E' venuto il momento di contrapporre i fatti all'ideologia, di ragionare e non di inveire: il 20 ottobre organizzeremo una manifestazione anche noi, per non consentire che in quella giornata parlino solo i propagandisti dei luoghi comuni». Così due giorni fa l'economista Giuliano Cazzola aveva lanciato l'idea che il 20 ottobre, nel giorno in cui la sinistra alternativa scenderà in piazza per chiedere il rispetto del programma dell'Unione, tutti i sostenitori della legge 30 facessero lo stesso.
Un'idea che ha visto l'adesione convinta di buona parte del centrodestra e, nella maggioranza, dei radicali. «Mi sembra un'iniziativa meritoria», ha subito commentato Emma Bonino. E non poteva fare altrimenti, visto che il giorno prima aveva minacciato una «grave crisi politica» se in autunno il presidente del consiglio Romano Prodi avesse ceduto ai «ricatti» della sinistra e cambiato il protocollo sul welfare. Anche se lei non ci sarà, in quanto membro dell'esecutivo, il suo partito vi aderirà convinto e compatto: «Noi radicali della Rosa nel pugno ci saremo sicuramente e i socialisti molto probabilmente», ha assicurato Marco Pannella.
E il centrodestra si accoda quasi unanime all'invito, anche per cercare di dimostrare di essere ancora unito. E' Pierferdinando Casini il primo a far sapere che ci sarà, «per difendere una legge giusta che fece il governo Berlusconi». Di più, «una delle migliori». Poche parole, ma che bastano a far dire a Forza Italia che «la casa delle libertà torna unita in piazza». Che sarebbe anche vero, se si tenesse conto solo delle parole degli alleati leghisti, che hanno fatto sapere che il Carroccio sarà in piazza, perché «è un imperativo morale». Peccato per loro che Alleanza nazionale, ad eccezione di Gianni Alemanno, abbia dato forfait. «Il comportamento di Casini? Mi sembra un po' schizofrenico». Ignazio La Russa liquida così l'adesione dell'Udc alla manifestazione, visto che proprio pochi giorni prima l'ex presidente della camera aveva detto no all'iniziativa sulla sicurezza organizzata per il 13 ottobre dai nazional-alleati.
Un po' imbarazzati, tra la voglia di scendere in piazza e l'impossibilità di farlo, i riformisti dell'Unione. Tiziano Treu promette che la legge 30 sarà «difesa in parlamento. Sulla stessa lughezza d'onda l'Italia dei valori, che non manifesterà. Mentre non cambia di una virgola la sua posizione Lamberto Dini, che continua a minacciare l' uscita dalla maggioranza se si dovesse cambiare il protocollo sul welfare: «Sto semplicemente ribadendo la posizione del presidente del consiglio - dice Dini - che aveva dichiarato inemendabile il protocollo».
Ma proprio ieri il ministro del lavoro Cesare Damiano ha provato una debole apertura nei confronti del Prc: «Al di là di quello che si dice, noi la legge Biagi la stiamo cambiando. Procederemo all'abrogazione delle forme di contratto particolarmente precarizzanti in maniera graduale». Parole caute, ma valutate positivamente dal capogruppo al senato di Rifondazione comunista Giovanni Russo Spena: «Mi fa piacere che il ministro Damiano riconosca, sia pure con una formula un pò obliqua, la necessità di rimettere le mani nel protocollo sul welfare per chiarire gli equivoci sui contratti a termine». Anche se il ministro ha continuato a rimarcare la bontà del documento, e a considerare «in modo negativo l'eventuale presenza di ministri in piazza».

l’Unità 15.7.07
Vi spiego la protesta a sinistra
di Nicola Tranfaglia

Sostituire il governo Prodi con governi di larghe intese sarebbe un grave errore
Ma questo non può voler dire attuare solo la parte del programma che piace alle imprese

Escono in questi giorni sonnacchiosi di mezza estate e sembrano fatte apposta per dare il via nell’ormai prossimo settembre a una nuova disputa sul programma e sull’agenda del governo Prodi. L’intervista di Franco Giordano al «Corriere della Sera» fa seguito a quella uscita ieri del ministro del Lavoro Cesare Damiano. Sono state precedute da alcune, sconsiderate dichiarazioni dell’ex leader dei no-global Francesco Caruso.
Il quale ha definito «assassini» il senatore Tiziano Treu della Margherita e il professor Marco Biagi assassinato dalle Brigate Rosse. Una dichiarazione quest’ultima che non dovrebbe avere posto nel linguaggio e nelle idee di un parlamentare che ha libertà di critica ma non può scambiare le differenze ideali all’interno dell’una o dell’altra coalizione (qui si tratta, dovrebbe ricordare Caruso, della medesima, quella di maggioranza) come discriminanti tra il bene e il male, le vittime e i carnefici.
Nel caso specifico, Caruso dimentica anche che la cosiddetta legge Biagi non è stata espressione diretta del lavoro del giuslavorista modenese ma un adattamento politico di alcune idee discutibili ma non certo criminali compiuto dalla coalizione berlusconiana.
Tutti i partiti, occorrerebbe ricordarlo ai giornali che fingono di dimenticarlo, della sinistra hanno condannato quelle parole e il giudizio in esse contenuto a dimostrazione di una cultura e mentalità diverse da quella di Caruso. Ma per i quotidiani che si rifanno al forte desiderio di far cadere l’attuale governo di centro-sinistra prima ancora che termini la quindicesima legislatura, si tratta di un ottimo pretesto per preparare un autunno caldo almeno a livello mediatico, se non reale.
In realtà le cose stanno diversamente e basta leggere le risposte di Giordano alla cronista del quotidiano più diffuso del paese per rendersene conto.
Che i sindacati, in particolare la Cgil, non siano soddisfatti del protocollo sulle pensioni e il Welfare è un fatto difficile da negare. Lo stesso Epifani, segretario generale del maggior sindacato nazionale, ha parlato di una firma con riserva, di fronte a un governo che ha cambiato le carte in tavola all’ultimo momento e con la minaccia di far cadere il governo. Quanto al gabinetto Prodi, quattro ministri si sono dissociati dal testo siglato e hanno affermato che nei mesi successivi, attraverso il lavoro parlamentare, cercheranno di modificare l'accordo per ora raggiunto.
Da questo punto di vista non ci si può meravigliare che i leader legati al progetto di unificazione della sinistra decisa a non confluire nel partito democratico, pur continuando a far parte della coalizione di centro-sinistra e del governo, useranno gli strumenti parlamentari (mozioni, emendamenti, interpellanze e interrogazioni) per modificare parzialmente quella scelta e correggerla in alcuni punti essenziali.
La piattaforma, a differenza di quel che sostiene il ministro Damiano, sta nel programma Prodi e non in improvvise velleità pseudo-rivoluzionarie.
In quel programma si dà un giudizio assai negativo della cosiddetta legge Biagi e ci si impegna a sostenere l’urgenza e la necessità di modifiche di fondo. Si può dire che il protocollo di luglio vada chiaramente in quella direzione? A me pare assai difficile rispondere in maniera positiva.
Non si è distinto il piano della spesa pensionistica da quella previdenziale come pure molti hanno auspicato.
Non si è data, attraverso il nuovo meccanismo contributivo, così come è stato organizzato, la speranza ai lavoratori spogli della protezione del contratto a tempo indeterminato di costruire una pensione finale corrispondente al sessanta per cento dell'ultimo salario, essendo questa una mera possibilità assai difficile da conquistare attraverso i calcoli oggi possibili.
E a questi aspetti altri si aggiungono che disegnano un panorama che non è quello della legge Biagi ma non è neppure quello di una legislazione del lavoro che tuteli la maggior parte degli attuali precari, dei lavoratori a progetto, a tempo determinato, interinali e così via dicendo.
Di fronte a una scelta politico-economica di questo genere, c’è da stupirsi che le forze politiche che hanno al centro del loro programma la questione del lavoro e dello sviluppo economico per le masse popolari protestino e si preparino a lavorare in Parlamento per modificare i termini dell’accordo di luglio? In una situazione nella quale la popolarità del governo Prodi è bassa e si distanzia per più di dieci punti dalle aspettative di voto dell’opposizione di centro-destra, pur con l’improbabilità dei sondaggi a lungo termine?
Chi può aspettarsi che l’approvazione dell’accordo da parte della Confidustria e dell’opinione pubblica moderata rappresentata dai giornali degli imprenditori possano annullare il forte disagio economico e di vita di milioni di giovani, di pensionati, di persone che continuano a non arrivare alla fine del mese?
Non si tratta, per queste forze politiche, di sostituire il governo Prodi con governi di larghe intese o gabinetti istituzionali, magari aperti a pezzi della destra? Sarebbe un errore inaccettabile.
Ma questo non può significare attuare solo quella parte del programma elettorale che piace alle imprese e al mondo finanziario di questo Paese e metter da parte la parte che può migliorare la vita delle masse popolari, dare speranze ai giovani, render più difficile il conflitto di interessi, allargare le libertà e l’eguaglianza degli uomini e delle donne, introdurre un effettivo pluralismo nell’orizzonte radiotelevisivo come in quello giornalistico ed editoriale.
Altrimenti che senso avrebbe porsi di fronte al centro-destra come competitori capaci di contrastarne la vittoria nelle prossime elezioni?

La Stampa 15.8.07
La Chiesa nemica di se stessa
di Antonio Scurati
(l'articolo che segue risponde ad un'intervista a Messori pubblicata da La Stampa l'11.8 che riproduciamo di seguito ad esso)

L'estate dei preti pedofili. Pedofili e santi. Forse così sarà ricordata l'estate del 2007. Corriamo il rischio che, di qui a cent'anni, quando gli storici si volteranno indietro a studiare la stagione che stiamo vivendo, vi individueranno l'origine di una trasformazione sconvolgente in seno alla Chiesa cattolica, il momento in cui la perversione sessuale cominciò a essere rivendicata quale privilegio ecclesiastico, l'abuso sull'infanzia e ogni altra manifestazione di sessualità patologica cominciarono a essere ritenute il normale contraltare della vocazione religiosa e la Chiesa tutta cominciò a essere percepita da gran parte della popolazione come un luogo separato dalla società, sottratto alle leggi e alle norme che governano la normale convivenza civile, un luogo al tempo stesso superiore e inferiore ad essa.

La Chiesa come arca di vizi demoniaci e angeliche virtù, che prende il largo in un mare sacro, per una navigazione terribile ma forse salvifica, su rotte comunque remote rispetto alla terra sottoposta alla legge degli uomini, quegli uomini che affannosamente la calcano, giorno dopo giorno, portando il loro fardello di piccole speranze e piccoli peccati. L'estate 2007 verrà forse ricordata come l'inizio di una regressione verso un passato arcano, al tempo stesso splendido e oscuro, verso un medioevo di grandi peccatori e grandi cattedrali.

Probabilmente questa rimarrà soltanto una fantasia ferragostana, suggerita dalla canicola e dai pasti abbondanti, ma è suggerita anche dai fatti delle ultime settimane e, soprattutto, da alcuni autorevoli commenti che li hanno accompagnati. Sabato scorso, sulle colonne di questo giornale, Vittorio Messori, uno dei più colti e stimati intellettuali cattolici, coautore di ben due papi (ha scritto libri a quattro mani sia con Benedetto XVI sia con Giovanni Paolo II), in una sconcertante intervista, ha dichiarato di non trovare nulla di scandaloso in un uomo di Chiesa che ogni tanto «tocchi qualche ragazzo» se poi «ne salva a migliaia». Dopo aver ricordato che molti santi e beati della Chiesa erano psicopatici vittime di gravi turbe della sessualità, Messori si è spinto fino a dichiarare che la pedofilia - forse il più odioso tra tutti i crimini, stando al senso comune - sarebbe, secondo un certo «realismo della Chiesa», nient'altro che «un'ipocrita invenzione». Poiché la linea di demarcazione tra l'adulto e il bambino sarebbe sempre in qualche misura convenzionale, non ci sarebbe nessuna sostanziale differenza tra un rapporto omosessuale consensuale tra due adulti e gli abusi di un adulto su di un bambino.

L'aberrante argomentazione di Messori - che io sinceramente mi auguro di aver frainteso - mira a scagionare preventivamente un prete come don Gelmini dalle accuse di molestie sessuali. Non con il dichiararlo innocente, ma con il ritenerlo esente dalla legge penale e morale, anche se colpevole. La sua presunta «santità» lo collocherebbe in uno stato d'eccezione sottratto alla giurisdizione umana. Sebbene sconcertante, questa proposta da Messori è una concezione molto radicata nella tradizione cristiano-cattolica e, più in generale, nell'antropologia del sacro: il prete, in quanto ministro del culto di Dio, proprio perché più vicino degli altri uomini al principio divino, sarebbe più prossimo anche a quello diabolico. Il sacerdote, in quanto iniziato alle pratiche sacre, sarebbe una sorta di maneggiatore di potenti veleni, capaci di portentose guarigioni ma anche di micidiali tentazioni. In ogni caso, l'esperienza religiosa, in quanto strettamente legata all'ordine soprannaturale, si separerebbe da quello naturale (sacro, etimologicamente, significa «separato»). L'uomo di Chiesa, nella misura in cui prende a modello il santo, non sarebbe più un uomo in mezzo ad altri uomini, che si distingue da essi per una superiore moralità, ma un uomo che, aspirando alla santità, si ritiene al di sopra di ogni moralità. E, talora, perfino della legalità.

Si tratta, insomma, di una concezione che potremmo definire «cattolicesimo magico», prepotentemente tornata alla ribalta della storia negli ultimi anni, da quando l'onda della cosiddetta secolarizzazione e il disincanto del mondo, dopo aver sommerso la società occidentale, hanno cominciato il loro movimento di risacca. Lasciano sulla riva una recrudescenza di ferventi culti mariani, di attese miracolistiche, di antichi riti pagani, di devozioni totali a guaritori presto canonizzati in santi cristiani, di estasi collettive e accensioni mistiche. Fa parte di quest'onda di riflusso anche la delega in bianco della cura delle tossicodipendenze, una delle più gravi patologie sociali del nostro tempo, a istituzioni religiose da parte dello Stato laico. Nelle «stanze del silenzio» in cui giovani disperati aprono il loro cuore a curatori (nel senso letterale del prendersi cura) quali don Gelmini, la guarigione la si attende non dall'applicazione di un protocollo medico-scientifico ma dalla benedizione di un dono religioso. In quelle stanze, intanto, c'è comunque un uomo in totale potere di un altro uomo.

Si ritorna così a un clima da Santa Inquisizione, nel quale però i processi per stregoneria vengono celebrati sui media e a parti invertite: per una sorta di nemesi storica, oggi sono i preti a essere accusati di quei commerci carnali con il Maligno di cui nei secoli accusarono presunte streghe e stregoni. Anche il sospetto che gli indemoniati sottraggano gli infanti alle loro famiglie per sacrificarli sull'altare del Male riecheggia quegli antichi e deliranti capi d'accusa.

Ma, lungo questa china scivolosa, è la Chiesa, non un fantomatico e inesistente anticlericalismo, la peggior nemica di se stessa. Anche noi laici, forse soprattutto noi, ci auguriamo che la Chiesa rimanga fedele a se stessa, alla sua più alta ispirazione e custodisca - come vuole ad esempio un conservatore illuminato, monsignor Biffi - la castità dei suoi preti, quel grande dono che gli uomini di Dio fanno ad altri uomini, garantendo ai loro figli e alle loro figlie uno spazio preservato dalla furia travolgente della libido sessuale. Ci auguriamo che la Chiesa custodisca questo dono prezioso fin dove possibile e, quando anche la castità fosse un traguardo impossibile, salvi almeno la temperanza, antica virtù cristiana. Sarà allora una Chiesa con meno aspiranti santi e con più uomini probi. Una Chiesa ancora capace di scandalizzarsi perché memore dello «scandalo» su cui si fonda: Gesù Cristo, il Dio che si abbassa fino a incarnarsi nell'uomo, non l'uomo che pretende di innalzarsi fino a farsi Dio.

La Stampa 11.8.07
Messori: "Il problema? Troppi gay in seminario"
intervista di Giacomo Galeazzi

«La santità è assolutamente compatibile con una vita sessualmente disordinata»
«Su quali basi si santifica l’omosessualità e poi si demonizza la pedofilia?»
«I preti antidroga? I vescovi non li controllano e diventano superstar»

ROMA. Vittorio Messori, lei è coautore di Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger: qual è, da ascoltato frequentatore dei Sacri Palazzi, la sua idea sugli scandali sessuali nella Chiesa dopo gli ultimi casi giudiziari di don Gelmini e dei sacerdoti ricattati a Torino?
«Un uomo di Chiesa fa del bene e talvolta cade in tentazione? E allora? Se fosse così per don Pierino Gelmini, se ogni tanto avesse toccato qualche ragazzo ma di questi ragazzi ne avesse salvati migliaia, e allora? La Chiesa ha beatificato un prete denunciato a ripetizione perché ai giardini pubblici si mostrava nudo alle mamme. Queste storie sono il riconoscimento della debolezza umana che fa parte della grandezza del Vangelo. Gesù dice di non essere venuto per i sani, ma per i peccatori. E’ il realismo della Chiesa: c’è chi non si sa fermare davanti agli spaghetti all’amatriciana, chi non sa esimersi dal fare il puttaniere e chi, senza averlo cercato, ha pulsioni omosessuali. E poi su quali basi la giustizia umana santifica l’omosessualità e demonizza la pedofilia? Chi stabilisce la norma e la soglia d’età?»

La Chiesa non controlla più i sacerdoti?
«Nessuno osa più comandare, si pretende dalla Chiesa il dialogo invece della disciplina. Ci si scandalizza del sacerdote molestatore, poi però il vescovo diventa un odioso despota se nega l’ingresso in seminario ad un gay. Ci si indigna dei peccati dei sacerdoti ma se l’autorità ecclesiastica cerca di imporre le regole scoppia il finimondo e si grida alla repressione, all’autoritarismo, alla discriminazione. Casi come quelli esplosi in questi giorni, la Chiesa li ha sempre ricondotti sotto il proprio controllo. Ma oggi il “vietato vietare” le proibisce di esigere disciplina al suo interno. La Chiesa ha sempre saputo che seminari e monasteri attirano omosessuali. Prima era molto attenta a porre barriere all’ingresso e a sorvegliare la formazione. Chi dimostrava tendenze gay veniva messo fuori. Poi il no alla discriminazione ha permesso l’ingresso in forze degli omosessuali e ora la Chiesa paga quell’imprudenza».

I suoi sostenitori definiscono don Gelmini un «santo»
«Non entro nel caso giudiziario, però è indubbio che nella storia della Chiesa una sessualità disordinata ha potuto convivere agevolmente con la santità. Sono legato al segreto richiesto dai Postulatori, ma potrei fare nomi celebri. Il fondatore di molte istituzioni caritative in Europa è stato proclamato Beato nonostante le turbe sessuali che per un istinto incoercibile lo spingevano a compiere atti osceni in luogo pubblico. Non mi scandalizzo, penso ai drammi umani che ci sono dietro. San Giovanni Calabria era un benefattore dell’umanità, ma è stato sottoposto a sette elettroshock: da psicopatico grave, da manicomio».

Perché scoppiano adesso questi scandali?
«In America è stata assolta la maggior parte delle diocesi che invece di patteggiare hanno tenuto duro e sono arrivate in giudizio. Però è innegabile che oggi nella Chiesa la castità fa problema. Sul piano umano è disumana. Si resta casti solo se si ha fede salda, fiducia nella vita eterna. Il deficit non organizzativo, ma di fede. E non si risolve abolendo il celibato ecclesiastico perché l’80% sono casi gay. Deviazioni sessuali di preti che mettono le mani addosso agli uomini e ai ragazzini. La caduta della fede e la rivoluzione sessuale accrescono il problema. Chi è causa del suo mal pianga se stesso: sono stati eliminati i controlli per ammettere in seminario pure gli effeminati il cui sogno era stare in mezzo agli uomini».

Le comunità antidroga sono terra di nessuno?
«La Chiesa deve tappare i buchi della società laica. I preti antidroga nessuno li controlla, sfuggono alla sorveglianza dei vescovi e dei superiori perché diventano superstar, con i rispettivi supporter politici. E così c’è lo schieramento dei buoni samaritani di destra e di quelli di sinistra, don Ciotti contro don Gelmini. I preti di Torino sono finiti nella rete dell’estorsione perché si è inventato il concetto ipocrita di pedofilia. Così un ricattatore senza arte né parte campa con la minaccia di far esplodere uno scandalo. Una volta ricattavano i notai con l’amante, oggi la categoria più esposta è il prete gay».

Un business, come dice Bertone?
«Sì. Negli Usa gli avvocati mettono cartelli per strada: “Vuoi diventare milionario? Manda tuo figlio un anno in seminario e poi passa da noi”. Le diocesi sono facilmente ricattabili, preferiscono pagare anche se innocenti. Temono un danno d’immagine. E l’inquinamento riguarda anche noi. Il politicamente corretto sta prendendo campo anche nel cattolicesimo italiano. E i risultati si vedono, purtroppo».

martedì 14 agosto 2007

Repubblica 14.8.07
Con l’eroina la vita è nulla
Oggi parlare di morte , secondo Baudrillard, fa ridere di un riso forzato e osceno, è pornografia
di Umberto Galimberti

Dovevamo aspettare Irvine Welsh, l´autore del romanzo Trainspotting, per apprendere che l´eroina, considerata una droga "sporca", anestetizza tutti i dolori, e che una delle cause della sua diffusione è dovuta al fatto che l´informazione, mentre terrorizza i giovani illustrando le drammatiche conseguenze connesse all´assunzione della sostanza, trascura di dire che l´eroina procura anche uno sconfinato piacere. E così si confina il problema della droga nel recinto ristretto del piacere-dispiacere come si fa con il tabacco e con l´alcol, sottintendendo che, se la questione è tutta lì, per uscirne basta la forza di volontà. Ma la questione non è tutta lì, anzi non è proprio lì.
Alla base dell´assunzione di eroina, ma forse di tutte le droghe, anche del tabacco e dell´alcol, c´è da considerare se la vita offre un margine di senso sufficiente per giustificare tutta la fatica che si fa per vivere. Se questo senso non si dà, se non c´è neppure la prospettiva di poterlo reperire, se i giorni si succedono solo per distribuire insensatezza e dosi massicce di insignificanza, allora si va alla ricerca di qualche anestetico capace di renderci insensibili alla vita.
A differenza del piacere sessuale che è intenso, attivo e produttivo, il piacere dell´eroina è "anestetico". Chi lo cerca non vuol sentire di più, ma sentire di meno, non vuole partecipare più intensamente alla vita, ma prendervi parte il meno possibile.
Come i martiri, come gli eremiti che dicono no al mondo perché nel mondo non scorgono alcun senso e alcuna traccia di salvezza, così gli eroinomani si sottraggono alla vita quotidiana perché la successione dei giorni diffonde solo quella noia senza speranza che ispessisce l´aria che si respira fino al soffocamento. Di qui la ricerca spasmodica per tutto ciò che può anestetizzare.
L´anestesia concessa da "quella belva dispotica e indomabile", come vuole l´immagine di Platone, spinge ad aggrapparsi ad essa senza poter più tendere ad altro. E allora torna qui in mente la dialettica hegeliana servo-signore, nonché la metafora heideggeriana del pendio, in tedesco Hang, da cui hangen, essere appeso, e anhangen, dipendere. Torna il concetto lacaniano di manque, la mancanza come molla del desiderio, e la teoria freudiana del piacere narcotico come piacere affascinante perché doppiamente negativo: fa cessare il dolore fisico e fa da sedativo al male di vivere.
Sulla traccia dell´etica aristotelica, Freud ipotizza che il nostro cervello sia fatto per godere dell´inerzia e della noncuranza, assecondando le quali, non ci si cura di nient´altro se non di quell´oggetto che pensiamo possa dispensarci da ogni cura. Tale è l´oggetto tossico, nevrotico, onirico, in presenza del quale la pulsione si fa insistente, implacabile e coatta, dove il desiderio, come vuole il nichilismo denunciato da Platone e da Aristotele, è sempre vivo perché insoddisfatto, e insoddisfatto perché il piacere che cerca è negativo, è l´uscire dalla pena dell´insaziabilità del desiderio.
Per questo la droga che anestetizza ha un successo da far invidia al sistema moderno delle merci, dal momento che nessun bene di consumo può competere con essa in termini di soddisfazione e di piacere anestetizzante. Qui filosofia e psicoanalisi convengono nel dirci che quando la voluttà tende all´anestesia (e tutte le droghe, anche quelle euforizzanti che i nostri giovani consumano ogni sabato sera nelle discoteche, sono paradossalmente anestetiche perché anestetizzano dal prendersi cura degli altri e del mondo), l´appetito si fa divorante, ma il prodotto con cui si tenta di placarlo si rivela di volta in volta sempre più insoddisfacente.
Per questo, il piacere dell´anestesia è il più sottile dei piaceri, forse il più insidioso, senz´altro il più diffuso. Lo incontriamo ogni volta che accendiamo una sigaretta per attutire noia o stress, piccoli indizi della fatica di vivere, ogni volta che ci affidiamo all´alcol per liberare quanto siamo costretti abitualmente a reprimere. Tutto ciò avviene quando si è detto sì alla vita e ci si vuol solo sostenere per mantenere la promessa.
Quando invece alla vita si è detto no, senza neppure bisogno di dirlo, perché è la vita stessa a non essere mai sorta come una passione, allora si cerca un piacere anestetico più forte, che vuol dire cercare un modo qualsiasi per non esserci.
I recettori che l´eroina impregna fanno già da sé il lavoro anestetico, ma se questo non basta, perché la vita nella sua insensatezza oltrepassa i limiti di sopportazione previsti dalla nostra fisiologia, non resta che aiutare i nostri recettori a renderci più insensibili a tutto ciò che non si ha più voglia di sentire, né di vedere, né di sopportare.
E questo perché? Perché, spiega Freud, accanto alla "pulsione di vita", c´è in noi anche una "pulsione di morte" che sempre la fiancheggia, come sua ombra. Non solo nel caso dei tossicomani ma, come possiamo constatare se appena prestiamo un minimo di attenzione alla nostra esistenza, in ciascuno di noi. E´ questo un pensiero difficile da pensare, soprattutto nella nostra cultura dove, come scrive Jean Baudrillard: «Parlare di morte fa ridere di un riso forzato e osceno. Parlare di sesso non provoca più nemmeno questa reazione: il sesso è legale, solo la morte è pornografica».
Esorcizzata, messa fuori dal circuito dei nostri pensieri e delle nostre conversazioni, la "pulsione di morte" finisce con l´essere attestata ed evidenziata proprio dai tossicomani che la praticano come esercizio quotidiano. Infatti, come scrive Giovanni Jervis nel suo Manuale critico di psichiatria (Feltrinelli): «Nel comportamento dei tossicomani è possibile constatare con particolare chiarezza l´esistenza di un problema psicologico che costituisce uno degli enigmi fondamentali della psichiatria: la tendenza a tornare a ripetere molte volte schemi di comportamento chiaramente fallimentari. In termini un po´ tecnici, si può sostenere l´ipotesi che i tossicomani, come altri, abbiano la tendenza a meta-storicizzare una situazione di scacco, e di crisi, ritualizzandola attraverso la ripetizione. Ma in molti casi, soprattutto di alcolisti e di eroinomani, la tossicomania diventa, da un certo punto in poi, volontà di morte: cioè in pratica un progressivo suicidio». A questo punto il problema non è quello di far sapere ai giovani che, per evitare terribili conseguenze, bisogna saper rinunciare al piacere che l´eroina indubbiamente offre, perché chi prende a bucarsi, non ha in vista quel piacere, ma proprio quelle terribili conseguenze a cui desidera arrivare anestetizzato. Il no alla vita non è ciò che si trova alla fine di un percorso intrapreso per la ricerca del piacere, ma è ciò che si trova all´inizio del percorso, ciò che da subito ci si propone di raggiungere nel modo più anestetizzato possibile.
Questa è la ragione per cui quanti si fanno ripulire i recettori dai farmaci si trovano, a lavaggio avvenuto, davanti alla stessa insensata biografia del cui peso avevano cercato di liberarsi con l´anestetico. Ma questa è anche la ragione per cui quando la comunità terapeutica ha disintossicato il drogato con il calore della comunicazione non può che riconsegnarlo al mondo esterno, dove quel calore si raggela e il bisogno dell´anestesia ritorna più urgente, soprattutto quando, in assenza di qualsiasi progetto, la propria vita non si configura come "storia", ma come pura successione di "momenti", scanditi dalla sofferenza dell´astinenza che, spasmodica, chiede di essere placata con la periodicità delle assunzioni.
La disintossicazione farmaceutica e la disintossicazione comunitaria, l´una con la chimica l´altra con il calore della comunità, alla fine restituiscono l´individuo alla sua esistenza nuda e cruda, da cui un giorno quell´individuo si era allontanato perché la vita non aveva "fatto presa". E dove la vita non fa presa non c´è chimica né comunità che tenga, c´è solo la voglia di non vivere come puro quantitativo biologico. E se la biologia segue la sua legge o costringe a vivere quella vita in terza persona scandita dai ritmi dell´organismo, allora non resta che il piacere dell´anestesia, quel sì alla vita, purché in nostra assenza, che è il sì di ogni esistenza traghettata dalla droga.
I lettori di Trainspotting, e quanti sono accorsi a vederne la versione cinematografica, non si lascino ingannare. Sia il libro sia il film dicono che la droga è anche piacere, e chiunque è libero di cercare il piacer suo e di preferire una vita breve ma piacevole a una lunga ma insignificante.
Non è vero! Il piacere della droga non è la scelta di una maggiore intensità della vita al prezzo della sua brevità, è la scelta dell´astinenza dalla vita, perché questa, una volta apparsa in tutta la sua insignificanza, prosegua pure il tracciato della sua insensatezza, ma risparmiando almeno il dolore. A questo tende il piacere dell´eroina, ossia il piacere dell´anestesia, a null´altro.

(2-continua)

Repubblica 14.8.07
Il sesso dei libertini
Le perversioni morali dell'aristocrazia
di Benedetta Craveri

Come Montesquieu e Rousseau di cui era discepolo fedele anche Laclos adottò il romanzo epistolare e fece proprie le idee rivoluzionarie degli illuministi

Torna in una nuova traduzione "Le relazioni pericolose" di Choderlos de Laclos un classico settecentesco, una corrosiva critica sociale

La nobiltà, diceva lo scrittore, era troppo corrotta per potersi rigenerare da sola
I protagonisti formano una coppia unita dallo stesso nichilismo implacabile e feroce
Valmont e la Merteuil sono vittime di un delirio di onnipotenza che li distruggerà

Apparse nel 1782. Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos possono essere lette, assieme alle Massime, caratteri aneddoti, di Chamfort, come la desolante conclusione della grande inchiesta sulla società francese avviata sessanta anni prima da Montesquieu con le Lettere persiane. Nel suo capolavoro giovanile, l´autore dello Spirito delle Leggi aveva tracciato l´identikit di una società frivola, galante, imprudente, teatrale, eppure «capace di coraggio, di generosità, di franchezza, di un certo senso dell´onore». Una società sostanzialmente libera, vitale e aperta al futuro. Ma già a partire dagli anni 1760, ancora in pieno trionfo dei Lumi, quest´arte aristocratica del vivere assieme, che aveva fatto di Parigi la capitale d´Europa, trovava in Rousseau un censore implacabile. Discepolo fedele di Jean-Jacques, Laclos ne riprendeva, un ventennio dopo, le imputazioni, giungendo a conclusioni ancora più radicali. Nel denunciare, nella Nouvelle Héloïse, l´artificio, l´impostura e la volontà di dominio del bel mondo parigino, Jean-Jacques proponeva come contro-modello l´utopia salvifica di Clarins, una comunità basata sulla virtù e la trasparenza dei cuori. Per Laclos, invece, l´élite nobiliare francese appariva troppo irrimediabilmente corrotta per potersi rigenerare dal suo interno: aveva bisogno di una riforma morale imposta dall´esterno, di una «rivoluzione» che doveva presto diventare realtà e di cui lo scrittore, con il sopraggiungere del 1789, non avrebbe esitato a farsi parte attiva.
Preoccupazione centrale dell´Età dei Lumi, la riflessione sulla società e sulla natura dei rapporti che ne costituivano il criterio di valore, trovava in effetti nei tre grandi romanzi di Montesquieu, di Rosseau e di Laclos la sua espressione più suggestiva. Né era casuale che la formula narrativa adottata dai tre scrittori fosse quella del romanzo epistolare «polifonico». Essa permetteva, lettera dopo lettera, di illustrare con immediatezza la varietà dei caratteri e la diversità dei punti di vista dei diversi corrispondenti e, al tempo stesso, di servirsene per ricostruire un contesto sociale più ampio. E consentiva ugualmente di inscrivere la riflessione morale, politica, filosofica dell´autore all´interno stesso della logica narrativa, facendone parte integrante dello scambio epistolare.
Laclos per primo sembra invitarci a una lettura in chiave sociologica del suo capolavoro, definendolo una «raccolta di lettere di una intera società». E non stupisce che una specialista di Baudelaire come Cinzia Bigliosi Franck abbia privilegiato questa prospettiva critica nel presentare la nuova edizione de Le relazioni pericolose da lei curata per la casa editrice Feltrinelli (pagg. 373, euro 9,00). Negli appunti preparatori di un saggio che intendeva scrivere sul romanzo di Laclos, il poeta dei Fiori del male, non faceva forse sua l´indicazione dell´autore e non vedeva in questa storia che «brucia come il ghiaccio», «un libro di vita di società», un «libro essenzialmente francese», un libro «terribile ma sotto la frivolezza e le convenienze»?
Proviamo dunque, partendo dalle osservazioni dalla Bigliosi e della sua nuova traduzione italiana, piacevolmente scorrevole malgrado la sua estrema aderenza al testo francese, a riprendere in mano questo romanzo spietatamente lucido e al tempo stesso sommamente ambiguo.
Il grande tema del libro è il libertinaggio, un male mortifero che avanza mascherato e mina dal suo interno una società quella del «bel mondo» aristocratico così «calcificata» da essere incapace di riconoscerne la presenza, rendendo pericolose anche le relazioni apparentemente più innocenti.
Eppure non era sempre stato così. Per tutto il Seicento «libertinaggio» era stato sinonimo di libero pensiero e anche quando nei primi decenni del Settecento, il termine aveva perso la sua connotazione filosofica, per indicare semplicemente coloro che perseguivano senza remore morali il piacere dei sensi, non aveva per questo assunto un significato necessariamente negativo. Nei romanzi di Crebillon, ambientati al tempo della Reggenza, il libertinaggio appariva già come lo sport preferito di una società oziosa e narcisistica, ma segnava anche una vittoria della «filosofia moderna» sugli ipocriti formalismi di un´ideologia dell´amore diventata obsoleta.
Sotto il segno dell´"amour-goût", uomini e donne stabilivano un nuovo patto di complicità ludica che consentiva loro di conciliare desiderio e rispetto delle forme e di riconoscere la legittimità del piacere sessuale in armonia con il pensiero naturalistico settecentesco. E´ quanto avrebbe, d´altronde, teorizzato qualche decennio dopo Diderot nel Sogno di d´Alembert. E non si può non riconoscere che, al di là della monotonia e della ripetitività delle tematiche e delle situazioni, una stessa esigenza di libertà, una stessa sfida ai divieti della chiesa e dello stato assoluto sembra accomunare la maggior parte della produzione letteraria erotico - libertino - pornografica del tempo, facendone una alleata preziosa dei Lumi nella lotta ad oltranza contro ogni principio d´autorità imposta dall´alto.
Ne Le relazioni pericolose, invece, il libertinaggio descritto da Laclos non obbedisce più a un´esigenza libertaria, non promuove più una moderna morale del piacere volta ad esaltare l´autonomia dell´individuo, è dichiaratamente al servizio di un progetto dispotico. Per Valmont come per la marchesa di Merteuil la posta in gioco non è tanto il godimento sessuale quanto l´esercizio incondizionato di una perversa volontà di dominio.
Ricordiamo brevemente la trama. Per vendicarsi del conte di Gercourt, un bellimbusto alla moda che l´ha tradita, la marchesa di Merteuil chiede aiuto al cavaliere di Valmont con cui intrattiene, dopo esserne stata l´amante, una amicizia complice. Valmont dovrà fare di Gercourt «lo zimbello di Parigi», seducendone la giovane fidanzata, l´ingenua e inesperta Cécile, ed educarla o, per meglio dire, depravarla sessualmente, mandandola all´altare già gravida. Il cavaliere si cimenterà, oltre che in questo, nella ben più difficile conquista della angelica presidentessa di Tourvel con l´impegno di sacrificarla alla marchesa dopo averne ottenuto la capitolazione. A rendere questo progetto possibile non è solo la diabolica astuzia dei due libertini ma la loro perfetta padronanza di un codice di comportamento mondano che consente loro di ordire impunemente i loro intrighi criminali sotto gli occhi di una società fatua, dimentica dei suoi valori e attenta soltanto alle forme. Se la verità finirà per emergere è esclusivamente perché la Merteuil e Valmont, rotto il patto che li univa, sono passati a farsi una guerra all´ultimo sangue, perdendo così il controllo del gioco. La lezione che ne ricaveranno quanti se ne erano lasciati ingannare non lascia adito alla benché minima speranza di rigenerazione. «La nostra ragione» si limiterà a dichiarare l´improvvida madre di Cécile, «già così insufficiente a prevenire le nostre sventure, lo è ancora di più a consolarcene».
Il primo grande colpo di genio di Laclos è quello di rinnovare lo schema abituale della narrativa libertina mettendo in scena, al posto di un solo protagonista, una coppia. Un uomo e una donna, uniti dallo stesso nichilismo feroce, che incarnano la personificazione maschile e femminile del libertinaggio e mostrano come non ci sia pacificazione possibile ma solo accordi provvisori nella guerra tradizionale tra i sessi. Inutile chiedersi chi dei due risulti il più forte: credendosi entrambi padroni del proprio destino e accecati da questa illusione, ambedue finiranno per essere vittime di un delirio di onnipotenza che li porterà all´autodistruzione.
Vi è certamente la tendenza a vedere in Valmont una vittima della Merteuil. Succube della marchesa il cavaliere le sacrificherebbe la passione che ha saputo ispirargli Madame de Tourvel, provocando così la follia e la morte della donna amata e precludendo a se stesso la possibilità di essere felice nella pienezza della vita affettiva.
Questa interpretazione, tuttavia, come ha mostrato Pierre Hartmann in uno studio importante (Le contrat et la séduction. Essai sur la subjectivitè amoureuse dans le roman des Lumières, París. Champion, 1998) fa torto alla lucidità di Valmont e inficia la coerenza di un personaggio che Laclos ha eretto a simbolo di quell´ordine sociale obsoleto e corrotto di cui i Lumi non erano ancora riusciti ad avere ragione. Il cavaliere è una figura del passato, un eroe decaduto di Corneille, un superuomo narcisista che si possiede saldamente e basta a se stesso. In accordo con la morale della sua casta egli cerca «la gloria» non più, come ai tempi d´oro della nobiltà, sui campi di battaglia ma nel libertinaggio. E poiché la gloria è direttamente proporzionale alla difficoltà dell´ostacolo con cui misurarsi, la conquista di Madame de Tourvel gli appare doppiamente meritoria. Essa, infatti, deve fare i conti con un ostacolo esterno, la virtù della vittima prescelta, e uno interno, il sentimento inatteso che ha messo radice nel suo cuore. Perché Valmont avverte chiaramente che l´amore che prova per la Tourvel, l´amore autentico di cui fa per la prima volta esperienza è una relazione tra persone, un´apertura all´altro incompatibile con l´ideologia libertina di cui egli si vuole l´interprete supremo. Per salvare l´integrità del suo io minacciato, il cavaliere mette a punto una strategia implacabile di cui è pronto a pagare il prezzo. Dopo aver trionfato sui «pregiudizi» della sua vittima e averla indotta a darsi liberamente a lui per amore, le spezzerà il cuore con un congedo umiliante. Come lui stesso lucidamente dichiara «degradata dalla sua caduta, ella ritornerà così ad essere per lui una donna qualunque», consentendogli di trionfare definitivamente su se stesso. Un trionfo irreparabile di cui il cavaliere non sarà in grado controllare le tragiche conseguenze.
E´ precisamente per evitare la sorte in cui è incorsa madame de Tourvel, per non soggiacere alla iniqua condizione di sudditanza imposta alle donne dalla società patriarcale, che Madame de Merteuil ha imparato fin da giovanissima l´arte della dissimulazione. E´ per essere libera e «vendicare il suo sesso» che ella ha optato per il libertinaggio e ne ha fatto la sua scelta di vita.
L´attenzione che Laclos ha dimostrato in vari suoi scritti per i problemi legati alla condizione femminile potrebbero indurre a credere come propongono i women's studies - che a differenza di quella del tutto sterile di Valmont, la sfida libertina della Merteuil guardi al futuro. Ma è davvero così? La depravazione morale della marchesa, la sua stessa spietatezza non dipendono anche dal fatto che la sua è una rivolta solitaria e pur sempre servile? Solitaria perché lo sforzo di volontà che ella ha compiuto su se stessa per forgiare la sua corazza impenetrabile ignora la pietà e si basa sull´inganno. Servile perché per dominare gli uomini ella ha scelto di imitarne il comportamento, adottando in tutto e per tutto il modello del libertinaggio maschile, trovandosi così ad agire in una posizione di netto svantaggio. Se il libertino è un personaggio sociale perfettamente integrato nella vita di società e le sue conquiste sono fonte di prestigio mondano, la libertina, al contrario, è oggetto generale di biasimo: una donna perduta davanti a cui si chiudono tutte le porte.
In realtà è un sentimento tipicamente femminile, la gelosia per un´altra donna, a perdere Madame de Merteuil inducendola a vendicarsi di Valmont, ma lo smascheramento finale della sua impostura non farà che confermare la ragione della sua rivolta. Saranno solo le sue lettere, e non quelle di Valmont, a venire divulgate, sarà solo lei, resa ancora più criminale per essersi ribellata alle leggi del suo sesso, a fungere da capro espiatorio di una società ipocrita che non sa di avere le ore contate.

l'Unità 14.8.07
Inchiesta/1
Anni ’70, quando la politica non colse il cambiamento
Una cappa sulla politica
di Gianfranco Pasquino

Dei quattro decenni dal 1970 ad oggi, certamente il primo, che si conclude nel 1980, è il più tormentato e complesso, ricco di avvenimenti, di contraddizioni, di drammi, di conseguenze, di potenzialità, sciupate. I terrorismi, nero e rosso, stando ad una possibile interpretazione che condivido, sono sia il prodotto di progetti politici di sovversione, che poco o nulla hanno a che fare con il disagio giovanile e/o sociale, sia la conseguenza perversa della percezione di un blocco del sistema politico italiano che nella sua evoluzione ha raggiunto, alla metà degli anni settanta, con la quasi inclusione del Pci, il massimo che poteva dare.

COME ERAVAMO Il compromesso storico è stato l’anticipazione dell’Ulivo? Sarebbe stato una cappa di piombo su una società che, come ha mostrato il referendum sul divorzio e le lotte sui diritti civili, chiedeva più libertà. Davanti alla sfida i due maggiori partiti, Pci e Dc, non hanno saputo che ripiegarsi su se stessi
Quando neanche un Partito Comunista arrivato al 34,4 per cento dei voti, il livello più elevato mai raggiunto dai comunisti in libere elezioni nel mondo occidentale, e che si colloca al governo di tutte le maggiori città italiane, riesce a ottenere una svolta nel governo nazionale, non può esservi più nessun dubbio che le aspettative di cambiamento non saranno soddisfatte. D'altro canto, quello stesso Partito Comunista non appare perseguire nessun cambiamento profondo, nessuna svolta, nessuna alternativa. Fin da subito, la politica del compromesso storico venne variamente e diffusamente interpretata come dichiarazione di disponibilità a svolgere un ruolo parzialmente subalterno alla Democrazia cristiana per un periodo di tempo molto lungo. Quella disponibilità fu certamente una buona notizia per Aldo Moro che, consapevole, come dichiarò esplicitamente, che il futuro non era più nelle mani della Democrazia cristiana, colse l'occasione per puntellarne il potere anche grazie al sostegno dato dai comunisti ai due governi monocolore guidati da Andreotti (1976-1979).
Con il senno di poi, non soltanto è possibile, ma è doveroso chiedersi se il compromesso storico, qualora fosse stato spinto più avanti, non avrebbe potuto costituire, da un lato, l'anticipazione di un fenomeno come quello dell'Ulivo; dall'altro, la soluzione di una crisi del funzionamento, dell'evoluzione, della qualità della democrazia italiana. Tutti coloro che pensavano allora e ritengono oggi che l'alternanza al governo costituisce lo strumento più efficace per obbligare la classe politica ad essere attenta ai bisogni e alle preferenze dei cittadini e a comportarsi in maniera responsabile, debbono rispondere che il compromesso storico avrebbe portato l'Italia fuori dal solco delle democrazie europee, vecchie e nuove. Governi effettivamente di compromesso storico non avrebbero garantito innovazione; avrebbero imposto una cappa, di piombo, su una società che sembrava attraversare una fase di liberazione; non avrebbero permesso ricambio in classi politiche già invecchiate. Nel frattempo, anche grazie alla spinta possente dei radicali, il ricorso al referendum, a cominciare da quello sul divorzio, rivelò che esistevano due mondi separati non soltanto dalla velocità di cambiamento, ma dalla cultura. Il mondo della politica rifletteva, con poche eccezioni, una società provinciale e tradizionale che non esisteva più, tranne in poche zone periferiche e meridionali. Dal canto suo, la società italiana era pervenuta ad una sostanziale liberazione attraverso processi di istruzione, di mobilità sul territorio, di piena occupazione che la rendevano già alquanto insofferente di quei "lacci e laccioli" la cui persistenza negativa venne autorevolmente denunciata da Guido Carli con riferimento all'economia italiana.
Sarebbe, naturalmente, non del tutto corrispondente alla realtà sostenere che il gruppo dirigente socialista avesse acquisito piena consapevolezza degli avvenimenti, delle potenzialità, delle trasformazioni da incoraggiare, da facilitare, da guidare. Tuttavia, in parte per cultura in parte per la natura del partito, che era un'organizzazione debole e abbastanza permeabile, meno esigente in termini di disciplina nei confronti dei suoi iscritti, più accessibile agli intellettuali, il Psi ebbe alcune delle intuizioni giuste. Certo, la sua struttura non era neppure sufficientemente diffusa da attrarre tutte le energie che vennero sprigionate dal movimento studentesco, dal movimento sindacale, dalle associazioni femministe. Ma la sua cultura era ricettiva, moderna, europea come le pagine di "Mondoperaio" di quegli anni sono in grado di testimoniare convincentemente. E la soluzione europea, come sembrò argomentare il segretario del Psi Francesco De Martino, non poteva che essere quella dell'alternativa socialista. Overdose di wishful thinking per un Partito socialista di ridotte dimensioni, l'alternativa socialista suonava anche come severa critica al compromesso storico e come presa di distanza dalla Democrazia Cristiana, in special modo da quella di Moro, portato per temperamento e per cultura alla mediazione e all'assorbimento delle sfide, non alla competizione e alla decisione.
La divaricazione di strategie dei tre maggiori partiti italiani è il prodotto di differenze culturali profonde, probabilmente inconciliabili, ma il potere politico dei socialisti di imporre la loro strategia o la loro visione era semplicemente inesistente. Appena eletto, Bettino Craxi decise di procedere in due modi, entrambi importanti e controversi, ma, a determinate condizioni, complementari. Da un lato, sfidò il "bipolarismo" che, nel gergo politico degli anni settanta, era molto visibilmente costituito dallo strapotere di Dc e Pci i quali, congiuntamente, nelle elezioni del 1976 avevano ottenuto il 72 per cento dei voti (vale a dire che tre italiani su quattro avevano votato o per la DC o per il PCI). Dall'altro, Craxi giunse alla convinzione che, con tutta probabilità, a ragione, il sistema istituzionale italiano come delineato nella Costituzione e come fatto funzionare nella pratica, era diventato un ostacolo alle trasformazioni politiche, sociali e economiche di cui il paese aveva bisogno.
Da queste riflessioni nacque il lancio, con grande scandalo dei conservatori costituzionali che erano una cospicua maggioranza sia dentro la Dc che dentro il Pci, della Grande Riforma. Doveva essere il grimaldello istituzionale in grado di rompere il bipolarismo politico e di aprire la strada anzitutto ad un ruolo del Psi maggiormente corrispondente alle sue aspirazioni di rappresentanza dei ceti liberati dalla modernizzazione del paese e di maggiore decisionalità al servizio di una ancora più intensa e più veloce modernizzazione. A prescindere dalle debolezze intrinseche e forse anche strutturali della strategia di Craxi, è mia opinione che l'assassinio di Moro, che rappresentò la svolta degli anni settanta, bloccando una serie di evoluzioni possibili, sia verso l'alternativa sia verso il compimento del compromesso storico, e conducendo infine ad una vera e propria, lunga e triste fase di, regressione: il pentapartito.
Poiché è improponibile gettare la colpa del riflusso su una società che chiedeva spazi e li otteneva, mobilitandosi, quando i referendum gliene offrivano la possibilità, appare evidente che i veri responsabili furono, da un lato, l'inadeguatezza della classe politica comunista, troppo convinta della sua superiorità intellettuale, dall'altro, il riflesso di conservatorismo della DC che, senza la spinta ideale e la capacità progettuale di Aldo Moro, preferì ripiegarsi sulla difesa, di stampo totalmente doroteo, dell'ingente potere fino ad allora accumulato, un tesoretto che sarebbe poi comunque andato disperso, ma lentamente. Infine, la spinta non si tradusse in cambiamento anche a causa della comprensibile preoccupazione di Craxi che, in assenza di una affidabile e credibile sponda comunista, il Partito socialista non poteva svenarsi, ma doveva ottenere quel tanto di potere anche governativo che gli consentisse di tenere viva la speranza dell'alternativa.
Furono tutte occasioni perdute oppure fu soprattutto una incomprensione dei processi profondi per la quale le culture politiche democristiana e comunista non possedevano gli strumenti, poiché né il cattolicesimo democratico né il marxismo, pure vivificato dal pensiero di Gramsci, potevano arrivare all'altezza di sfide che, altrove in Europa, vennero affrontate con gli strumenti delle scienze sociali e del keynesismo? Poiché anche oggi discutiamo di che cosa possa essere una nuova cultura della sinistra senza preoccuparci di che cosa sia effettivamente, nella pratica dei processi politici e di governo, la cultura socialdemocratica europea, la risposta è facile. Posti di fronte a importanti sfide politiche e istituzionali, i due grandi partiti italiani dimostrarono di non avere la cultura adeguata per affrontarle. Dotato di una cultura potenzialmente superiore, il Psi non disponeva del potere politico per tentarne l'applicazione. Presto avrebbe scelto di rafforzare il suo potere anche a scapito (dei suoi intellettuali e) della modernità e dei dettami della sua cultura.
Poteva un incontro fra democristiani e comunisti fare abbastanza strada senza l'apporto di una moderna cultura laica e socialista? Questo interrogativo mantiene tutta la sua pregnanza e validità.

domenica 12 agosto 2007

Il Sole - 24 Ore Domenica 12.8.07
José Pablo Feinmann
Maledetto Martin
Nel suo nuovo romanzo lo scrittore sudamericano racconta l'angoscia di Dieter Müller, allievo di Heidegger, che osserva imbarazzato l'adesione del maestro al nazismo
di Bruno Arpaia


Prima Lukàcs, Adorno e Löwith. Poi Habermas e Schneeberger. Infine, con sempre meno remore, più indignazione e più documenti alla mano, Hugo Ott, Victor Farìas ed Emmanuel Faye. A poco a poco, nel corso degli anni, le compromissioni con il nazismo di Martin Heidegger, uno tra i più grandi filosofi del Novecento, sono venute chiaramente alla luce. Nel marzo del 1933, infatti, l'autore di Essere e tempo venne nominato dalle autorità naziste Rettore dell'Università di Friburgo. Nel suo discorso inaugurale, Heidegger espresse l'adesione dell'Università al movimento hitleriano e assicurò la propria fedeltà totale al Führerprinzip, glorificando il «destino del popolo tedesco» e della sua lingua, l'unica, insieme a quella greca, in cui fosse possibile filosofare. Ma Heidegger non si limitò a queste affermazioni imbevute di superbia etnica: riorganizzò gli studi secondo la dottrina nazista, eliminando professori dai ruoli accademici e pensatori scomodi dai programmi d'esame. E tuttavia, sebbene il Terzo Reich, si attendesse un futuro millenario, undici mesi dopo Heidegger si dimise. In quel breve tempo, comprese che non sarebbe mai diventato il Führer culturale e filosofico del regime, che per lui non c'era spazio di fronte al potere totale di Hitler.
Come scrisse Ernst Jünger, invece di ammettere il proprio errore, Heidegger pensò sempre che Hitler avrebbe dovuto chiedergli scusa per essersi allontanato dalle sue idee. Nemmeno dopo la guerra il Maestro, sentendosi innocente, volle modificare o attenuare i passaggi della propria opera più compromettenti e più in sintonia con il nazismo, accrescendo così l'imbarazzo dei filosofi e rendendo sempre più cogente la domanda etica derivante dal suo comportamento: come è possibile che una mente così privilegiata e profonda abbia sostenuto il totalitarismo più tragico e inumano del XX secolo?
Da questa domanda prende le mosse l'intenso romanzo dell'argentino José Pablo Feinmann, che sceglie la strada della narrativa, della finzione letteraria, per affrontare il caso Heidegger e i problemi che ne derivano. Come scrivono Antonio Gnoli e Franco Volpi nella bella postfazione al volume, qui sono in gioco «i rapporti della saggezza con la tirannide, del pensiero con la politica, della teoria con la prassi, degli intellettuali con il potere». Problemi affrontati con rigore e lucidità da tanta saggistica, ma la prospettiva più obliqua e sottile della letteratura, la forza evidente delle cose e dei sentimenti, la partecipazione emozionale alle vicende dei personaggi letterari riescono forse meglio a proiettarci dentro gli eventi, a farceli valutare nella loro complessità.
Per questo Feinmann mette in scena, nell'Argentina del 1948, il personaggio di Dieter Müller, un professore di filosofia allievo del Maestro che, in una lunga e drammatica lettera al figlio, racconta gli anni dell'ascesa al potere del nazismo, le discussioni tra i giovani intellettuali tedeschi all'Università di Friburgo, la sconvolgenete lettura di Essere e tempo, e la fede nella missione storica della Germania. Dopo la guerra, esiliato in Argentina, Müller continua a pensare che le notizie sull'olocausto e sui campi di concentramento siano versioni della storia fornite dai vincitori, finché, davanti a una foto di un ebreo sul punto di entrare in una camera a gas, capisce che lui, Heidegger e tanti altri sono stati complici di un orrore infinito.
Così, dopo aver scritto la lettera, con la stessa Luger con la quale, durante la Prima guerra mondiale, aveva ucciso il suo tenente colpevole di disfattismo, Müller si uccide. Anni dopo quella stessa pistola riappare sulla scrivania della baita di Heidegger a Todtnauberg: ce l'ha portata Martin, il figlio di Dieter Müller. Ossessionato dall'influenza dal Maestro su suo padre, Martin cercherà di strappargli una risposta sul suo comportamento. Invano.
Romanzo filosofico in cui i due termini dell'espressione sono perfettamente bilanciati, L'ombra di Heidegger parla al lettore di pensieri profondi e di problemi inquietanti con una scrittura di grande fascino ed efficacia, che a volte sfiora perfino atmosfere da thriller. Nella storia di Dieter Müller, nella sua voce trasparente e appassionata, Feinmann mette allo scoperto l'ambiguità delle verità assolute, la razionalità dell'orrore, gli inganni dell'intelligenza. Per lui, come per il suo protagonista, vale la tesi Lukàcs e di Adorno: «Il nazionalsocialismo» scrive Dieter a Martin, «non è l'avventura sanguinaria di una manica di rozzi tedeschi brutali e svitati. La sua ideologia non riposa sulla lettura ben poco scrupolosa che Alfred Rosenberg ha fatto di Nietzsche. Non riposa sui grugniti paranoici, razzisti, disarticolati del Mein Kampf. E', figlio mio, nel più grande libro di filosofia tedesca che l'anima tedesca abbia scritto dai tempi della Fenomenologia dello Spirito». Una tesi discussa e discutibile, ma è innegabile che l'approccio di Feinmann la rende plausibile, svelando come, sotto alcune frasi di Essere e tempo, possa battere il genocidio. E come l'ombra di Heidegger, provocando una lacerazione tra filosofia e politica, si stenda ancora su di noi e sul nostro tormentatissimo tempo.

José Pablo Feinmann, L'ombra di Heidegger, traduzione di Lucio Sessa, Neri Pozza editore, Vicenza, pagg. 184, € 15

Liberazione 12.8.07
Destra e sinistra al duello decisivo: difendere o smantellare la precarietà
di Piero Sansonetti

L'offensiva dei conservatori (di entrambi gli schieramenti) sul caso-Caruso, ha un obiettivo molto semplice: difendere il nuovo modello di società
costruito dal liberismo (non solo in Italia). E cioè il precariato (non solo sul lavoro) come mediazione tra lo schiavismo e l'orgia dei diritti degli anni '70

Tutti - come noi - si sono indignati per le offese rivolte da Francesco Caruso a Marco Biagi e Tiziano Treu. Alla fine, e per fortuna, si è indignato persino lo stesso Caruso che le ha ritrattate, le ha definite uno «sfogo incontrollato» e ha anche chiesto scusa alla famiglia di Marco Biagi. Meno male.
Una parte consistente del mondo politico, e anche della stampa (quasi tutta la stampa), prosegue però - ed era prevedibile - una campagna molto massiccia a favore del precariato. Cioè usa la condanna verso le frasi insensate di un deputato, per erigere un muro a difesa delle leggi e dei costumi che stanno stravolgendo, a una velocità impressionante, l'intero impianto del lavoro e della sua regolazione. Negli ultimi quindici-vent'anni, in Italia, e in tutta Europa, si è invertito il trend che nei decenni precedenti aveva portato a una parziale riduzione dello sfruttamento e a un aumento delle garanzie per i lavoratori dipendenti. E' aumentato, in questi anni, il tasso di sfruttamento, sono diminuiti i diritti e i salari. La parte più forte del mondo politico-giornalistico italiano guarda con soddisfazione a questa inversione, vuole spingerla più avanti, ritiene che sia la sola garanzia di modernità e di crescita e il solo modello oggi possibile in Occidente.
Se vogliamo parlare seriamente di politica, dobbiamo partire da qui. Avere consapevolezza della ragione vera dello scontro politico che è aperto, in Italia, nella maggioranza e fuori di essa. E' uno scontro reso confuso dal gigantesco impianto ideologico che lo circonda - costruito dalla destra, dalle pressioni confindustriali, da un sistema molto compatto e assai ben governato dei media - ma che invece è semplicissimo, cristallino.
La destra classica ritiene necessaria la restaurazione del vecchio potere capitalistico, nelle sue forme più tradizionali e arretrate che portano al prevalere assoluto del profitto sul salario e al dominio dell'imprenditore sui lavoratori subalterni. Sollecita la cancellazione delle conquiste sociali che hanno caratterizzato il trentennio 1950-1980, e che ancora segnano soprattutto le nazioni più politicizzate e sindacalizzate (come l'Italia, la Germania e in parte la Francia), e avverte che un sacrificio di questo genere, da parte dei lavoratori, è indispensabile alla modernizzazione, alla competizione internazionale, e alla tenuta dell'Occidente e dei suoi livelli di benessere.
La sinistra crede, al contrario, che una inversione nel cammino dei diritti collettivi e individuali non solo sia un sacrificio inaccettabile, ma che conduca inevitabilmente verso la barbarie, l'inferocirsi dello scontro di classe, nuove forme di schiavismo e di totalitarismo, prima sociale - che già in gran parte è in atto - e poi politico. E quindi pensa che occorra fare barriera e ostacolare in ogni modo il disegno di Confindustria.
La destra - che appunto è guidata oggi da Confindustria - immagina che lo strumento "concreto" per la restaurazione, sia il "precariato", e che il precariato debba diventare il modello moderno di relazione sindacale. Lo giudica un equilibrato punto di mediazione tra lo schiavismo di una volta e l'eccesso - l'orgia - dei diritti sindacali e individuali che travolse l'Occidente negli anni '70. Di più: lo considera un modello estendibile a molti altri aspetti della civiltà: le relazioni personali, l'uso dell'ambiente, la cultura, l'informazione, la struttura e la fruibilità delle città, l'amore, gli affetti, i rapporti tra i sessi... Ha l'idea che la precarietà, e gli squilibri che comporta, siano la condizione di sopravvivenza per una società che si basa sulla competizione e non sulla collaborazione, sull'individualismo e non sulla collettività. Cioè la società della concorrenza, la società capitalista.
La sinistra ritiene che il "precariato" sia lo strumento per minare alla base le relazioni civili e umane tra le persone, le classi, i ceti, tra il popolo e il potere, e che alla fine diventi un "virus" che porta alla degenerazione e alla disgregazione dell'impianto fondamentale della nostra società.
Naturalmente nel definire i due schieramenti - destra e sinistra - si tiene conto delle idee e dei riferimenti sociali e di potere, non della collocazione politica. Perché quella che abbiamo definito destra controlla saldamente, in Parlamento, l'intero schieramento conservatore (dalla Lega all'Udc) ma anche - seppure con meno sicurezza - una parte, forse non minoritaria, del centrosinistra. La vera anomalia italiana è questa: esistono due destre, che si sovrappongono perfettamente per le proprie posizioni politico-economiche (e spesso anche culturali) ma non si amano e non coincidono nel ceto politico e quindi sono presenti nei due diversi schieramenti. Il problema è se questa sovrapposizione finirà per costituire un ostacolo o, viceversa, un punto di forza per le destre.
E la cosa in gran parte dipende da come saprà muoversi la sinistra. In modo speciale, da come saprà muoversi nella lotta al precariato, cioè nella battaglia per far saltare il "progetto" di Confindustria per gli anni 10, 20 e 30. Se sarà unita - saggia, determinata - anche se attualmente è minoritaria, può farcela. Soprattutto se saprà giocarsi tutto in questa battaglia, senza calcoli, con generosità, mettendo tutta la propria anima e anche il cervello. Per questo noi abbiamo lanciato l'idea della manifestazione ad ottobre. Si può discutere quanto si vuole sulla piattaforma di quella manifestazione. Una cosa però è molto chiara: l'idea che ci proponiamo di battere è quella del modello precario (in tutti gli aspetti della nostra vita). E naturalmente di ottenere dal governo che sostituisca la legge Treu e la legge Maroni (legge 30), che sono organiche a quel modello.

Liberazione 12.8.07
Risposta a Folena sul Pd e il rischio di sottovalutarne il leader
Sinistra, attenta a Veltroni è un conservatore (e oligarca)
di Massimiliano Smeriglio*

Il Pd, Veltroni e la fine del Laboratorio romano
La sfida del leader in pectore del Pd è chiara: cambiare la politica,
per un'alternanza neoliberista, nel nome di stabilità e governabilità

In questi giorni si susseguono le analisi e i ragionamenti intorno al Pd che verrà e al profilo che Veltroni saprà imprimere alla nuova organizzazione politica. Da ultimo un articolo colto e intelligente di Pietro Folena, su Liberazione un pezzo denso di emozioni e stile, categorie politiche alte perché intrecciano la politica con le emozioni. Ma proprio Folena, del tutto inconsapevolmente, suggerisce il primo difficile tornante che noi di sinistra dovremo affrontare: la sindrome dell'album di famiglia. La storia di un uomo, in questo caso Walter Veltroni, dice molto, ma spesso non dice tutto e soprattutto dalla storia non si deduce interamente la geografia.
Per capire cosa sarà il Pd di Veltroni o il Veltroni del Pd serve solo la lente della contemporaneità; la storia, le memorie condivise, i percorsi collettivi che noi narriamo non serviranno ad esorcizzare gli esiti moderati inscritti in quel processo. La prima deduzione logica che ne dovremmo ricavare è che dovremmo strappare gli album di famiglia, e smettere di pensare che la militanza comune nel grande Pci sia garanzia di tenuta e riconoscimento reciproco. Per noi, che curiamo la memoria, ha senso tenere a mente le fila di un cammino comune, o la perimetrazione di un campo di valori condivisi e condivisibili; ma per chi vive nella politica del just in time , nel culto ossessivo dell'immagine che fagocita l'immaginario, la sinistra, il Pci, il movimento operaio sono il giurassico, pacchi ingombranti messi in soffitta da tempo. Prima ce ne convinciamo e meglio è per tutti noi. Siamo alle soglie di un grande smottamento della politica italiana e non ci verranno in aiuto categorie e traiettorie concluse nel secolo breve.
La sfida del leader in pectore del Pd è chiara: cambiare la politica, fondare il campo democratico e spostare il paese nel campo dell'alternanza neoliberista, una bolla politicista dove la conflittualità viene anestetizzata e la partecipazione messa a valore, funzionale al bene più importante per i poteri globali, stabilità e governabilità.
Veltroni è ambizioso, spera di avere un successo almeno simile a quello che Berlusconi ha realizzato prima nel centro destra e poi nel Paese. In questo schema la sinistra non esiste, in questo schema noi non ci siamo, il Pd veltroniano ha una vocazione onnivora, proverà a definirsi come tutto e non come parte di una alleanza più grande e articolata. Certo ci sarà spazio per qualche Jesse Jackson all'amatriciana, certo tratteranno con la vertenzialità diffusa in termini lobbystici o concertativi, ma tutto nel campo delle compatibilità predefinite. Nessun altro mondo è possibile, se non quello dato. Per la cura dell'anima basterà qualche campagna sulla fame nel mondo o sulla povera Africa, introiettando la presunzione, tutta eurocentrica, di voler essere parte astratta della soluzione senza mai sentirsi minimamente parte del problema.
Le cose appena scritte non sono solo il prossimo futuro, sono già il presente, basta indagare con più attenzione quanto sta accadendo a Roma, la terra promessa su cui il Pd ha costruito il suo prototipo e Veltroni la sua chance democratica.
Tra il 2001 e il 2006 nella capitale si è sviluppato un modello di governance contraddittorio e proprio per questo aperto a diverse opzioni strategiche. Da un lato quello che noi chiamavamo il Laboratorio Roma, la possibilità di mettere al governo della città i movimenti, i conflitti, i senza casa, la società civile, i comitati di quartiere, la comunità glbtq e la intellettualità diffusa. Il tutto basato sulla pratica della partecipazione, sulla pianificazione urbanistica e la valorizzazione della comunità locale. Punto di riferimento aperto e dialogante di questa soggettività moltitudinaria il sindaco Veltroni.
Dall'altro lato il modello Roma, un progetto spregiudicato di rifunzionalizzazione, sotto una nuova guida e la regia del senatore Bettini, del vecchio potentissimo blocco di potere romano: costruttori, proprietari di giornali controllori delle cronache locali, proprietari dei crediti della sanità privata, Camera di commercio e Vaticano; sembrano molti, in realtà parliamo di una strettissima oligarchia che fa tutte quelle cose insieme, in barba al mercato, alla tanto osannata concorrenza e alle conferenze alla moda sul capitalismo molecolare. Punto di riferimento di questo blocco di potere, che va da Caltagirone a Ciarrapico, il sindaco Veltroni.
Questi due mondi, distinti e conflittuali, erano tenuti insieme dalla garanzia che lo spazio pubblico, il Comune, avrebbe definito il campo democratico in cui far svolgere la partita. Insomma Veltroni e il Consiglio comunale, come arbitri e regolatori di interessi contrapposti che si misuravamo sul terreno dell'accentramento o della redistribuzione delle ricchezze accumulate dall'azienda Roma. In questo quadro ci è capitato di perdere, spesso, ma anche di portare a casa risultati importanti per la nostra gente o di provare, non solo a governare la città eterna, ma anche a trasformarla incidendo sulla composizione sociale, le periferie e strappando diritti ed opportunità per quelli che non ne hanno mai avuti.
Nel 2006 la storia è cambiata, Veltroni ha accelerato, ha allargato a dismisura la sua coalizione, ha consolidato intorno a se il vecchio blocco di potere romano, insomma ha smesso di fare l'arbitro ed è sceso in campo con la maglia del modello Roma scegliendo di rompere la dialettica con l'altra città. Veltroni ha fatto la sua scelta: moderata sul piano dei diritti civili (nessun registro delle unioni civili, nessuna iniziativa per il voto amministrativo ai migranti, niente decentramento), fortemente ancorata alle oligarchie capitoline sul terreno degli interessi materiali, incapace di mettere in campo processo reali di redistribuzione del reddito, diretto o indiretto, per aver appaltato il welfare community a settori del cattolicesimo caritatevole. In tutto questo non c'è traccia di innovazione tecnologica, di "classe creativa", di responsabilità sociale d'impresa e di produzioni immateriali per stare al lessico del sindaco. In fondo l'attuale assetto di governo concreto della città, nonostante i nostri sforzi e quelli dell'intera sinistra, assomiglia molto ad un patto di sindacato tra soggetti da sempre molto forti a Roma e che, da sempre, fanno accordi con chi momentaneamente la amministra.
Qui muore il laboratorio Roma, il sindaco ha deliberamene messo in crisi gli assetti costruiti nel quinquennio precedente, promuovendo una idea di città in cui stentiamo a ritrovarci. Il patto per la legalità, i mega campi per i Rom persino di seconda e terza generazione, gli spericolati sdoganamenti di ex post e neo fascisti, la riduzione dei poteri effettivi del Consiglio comunale, l'utilizzo continuo di forza lavoro precaria nell'amministrazione comunale e, in fondo, un certo fastidio per i partiti e tutti i corpi intermedi che hanno l'ambizione di non ridursi a fare da cinghia di trasmissione del super sindaco.
Lo schema che Veltroni ci propone è molto semplice: giocare con la sua squadra, inscrivendoci di fatto nel Pd, o fare da spettatori nella partita che sta giocando, ai quali è concesso persino il lusso di fischiare o tifare. Noi scegliamo un'altra strada, saltati gli spazi della mediazione politica (tra partiti) e istituzionale (il Consiglio comunale), ci accingiamo a fare delle belle invasioni di campo, praticando il conflitto e provando ad utilizzare il palcoscenico veltroniano per dare visibilità alla città di sotto. E non lo faremo per negoziare ma per dire che così non va, e che un centro sinistra così distante dalle fatiche quotidiane di chi vive di stipendi e pensioni comincia a farci paura. Da queste sane invasioni di campo potrà rinvigorire il sentiero della Sinistra, una sinistra in movimento che ritrovi il coraggio e la passione civile di squarciare il velo dello spettacolo e di calcare le scene della rappresentazione veltroniana. Le occasioni non mancheranno, chissà magari a partire dalla notte bianca e dalla festa del cinema potremmo farci carico di rappresentare al meglio un pò di neorealismo in salsa contemporanea. Prima che i telefoni bianchi prendano il sopravvento.

*deputato Prc-Se e segretario della federazione romana

Repubblica 12.8.07
L’ombra del ‘29 sui nostri risparmi
di Eugenio Scalfari

Ci sono state molte altre crisi finanziarie negli ultimi vent´anni del Novecento, dovute all´improvviso sgonfiarsi di bolle speculative. La crisi del rublo, quella dell´insolvenza messicana, quella dei «bonds» argentini, quella (e fu la più violenta e diffusa) che travolse i super-investimenti nell´industria informatica. E naturalmente le crisi petrolifere che portarono alle stelle i prezzi del greggio con ripercussioni non solo sulla finanza ma sull´economia reale. E tutte, ovunque fosse il loro epicentro iniziale, coinvolsero il centro finanziario del mondo: Wall Street, le grandi banche d´affari americane, l´immenso ventaglio dei loro clienti internazionali e multinazionali, chiamando in causa inevitabilmente anche la Federal Reserve, la Banca centrale americana, supremo regolatore del sistema monetario e finanziario del pianeta.
Ma nessuna di queste «fibrillazioni» somiglia a quella di questi giorni. Forse proprio perché nel caso attuale l´epicentro è nel sistema bancario americano, nei mutui immobiliari facili, nel loro piazzamento in titoli «derivati» e nella loro diffusione in molte istituzioni finanziarie internazionali.
La finanza Usa e la Fed questa volta non giocano di rimessa, ma giocano in proprio. Il sisma nasce lì, a Manhattan, nel cuore della Grande Mela e ciò aumenta la sua potenza diffusiva e le sue devastanti capacità.
C´è però un precedente cui la crisi attuale può esser confrontata ed è il terremoto finanziario del 1929. Lo si nomina poco in questi giorni, anche gli analisti che inclinano piuttosto al pessimismo fingono di dimenticarsene, forse per scaramanzia. Ma, pur nelle grandi differenze di contesto rispetto a ciò che accadde ottant´anni fa, le analogie sono impressionanti. Consiglio ai lettori di procurarsi e di leggere un libro diventato fin dal suo primo apparire un classico in materia: «Il grande crollo» di Kenneth Galbraith. E´ una lettura paurosamente affascinante.
Intanto la crisi di oggi e quella del ´29 cominciano allo stesso modo: una gigantesca bolla immobiliare, mutui facili, esposizione di istituti bancari specializzati in questo settore, fame di case concentrata soprattutto in California e in Florida, emissione di azioni da parte di società-fantasma, cieca fiducia dei risparmiatori, rifinanziamenti a breve da parte del sistema bancario, interventi (inutili) della Banca centrale e delle principali istituzioni finanziarie, in particolare le banche d´affari che facevano allora capo ai Rockefeller, ai Morgan, ai Rothschild.
Nel ´29 vigeva il sistema aureo, non esisteva alcuna disciplina sul mercato dei cambi, New York, Londra, Berlino, Parigi erano in accesa competizione tra loro. Ciò aggravò e moltiplicò gli effetti del sisma che da una crisi di Borsa si estese al dollaro, dalla moneta americana alla sterlina e al marco tedesco e a tutto il sistema aureo, cioè a tutte le monete del mondo.
Per fortuna il sistema monetario mondiale è oggi completamente diverso, l´amplificazione dei fenomeni si verifica agevolmente ma è entro certi limiti governabile.
Siamo più attrezzati di allora. Ma le analogie restano e i rischi sono tutt´altro che lievi.
* * *
Non starò ora a ripercorrere le tecniche dei mutui immobiliari, della loro cartolarizzazione in titoli, dei tassi di interesse prossimi allo zero per invogliare la clientela, dell´assenza di valide garanzie e infine nella diffusione anche fuori dal mercato Usa dei titoli - spazzatura e dei relativi rischi. Nei giorni scorsi tutto questo perverso meccanismo è stato ampiamente descritto e quindi lo do per noto.
Ricordo soltanto ai lettori che il mercato immobiliare e il suo enorme indotto coprono almeno un quarto dell´economia Usa. A loro volta i consumi privati rappresentano i due terzi della domanda interna di quel paese e gran parte di essi, specie tutta la fascia dei beni durevoli, è strettamente connessa alla costruzione di nuove abitazioni. Stiamo insomma discutendo di uno dei gangli vitali del sistema America e del «business» ad esso collegato.
Questo sensibilissimo settore è entrato in crisi di insolvenza. I clienti che hanno contratto mutui sono insolventi, non hanno soldi per pagare le rate; di conseguenza i loro creditori diventano man mano insolventi anch´essi; i risparmiatori che hanno affidato i loro risparmi a fondi d´investimento che hanno in portafoglio anche titoli immobiliari, ritirano i loro capitali; i fondi più deboli e più presi di mira cominciano a congelare le quote della clientela e creano in questo modo altri punti d´insolvenza. Purtroppo tra i fondi coinvolti ci sono anche alcuni fondi-pensione che sono tenuti dai loro statuti a corrispondere con periodica frequenza i dividendi ai pensionati. Per ora non si ha notizia di insolvenze in questo delicatissimo settore. Auguriamoci che i gestori dei fondi-pensione non siano stati troppo aggressivi nella ricerca di rendimenti superiori alla media.
Si tratta comunque di un´insolvenza abbastanza diffusa. Il governatore della Fed, in una recentissima dichiarazione, l´ha valutata a cento miliardi di dollari. Per ora le insolvenze acclarate ammontano a cifre molto minori, eppure sono state sufficienti a terremotare i mercati finanziari in Usa, in Europa, in Canada, in Australia. L´Asia, Giappone compreso, sembra al riparo dalla tempesta. Ma se e quando dovessero venire allo scoperto le insolvenze preannunciate da Bernanke, gli effetti potrebbero essere assai più micidiali.
Proprio per impedire che ciò accada e soprattutto per recuperare la fiducia dei risparmiatori e degli operatori, le Banche centrali hanno deciso di concerto di iniettare liquidità nei mercati con prestiti a breve e brevissimo termine ai sistemi bancari, accompagnando queste operazioni con inviti alla calma e solenni assicurazioni che la crisi è circoscritta, le insolvenze limitate, la liquidità comunque garantita e i «fondamentali» senza alcun contraccolpo.
Non avevano altra strada, le Banche centrali, che stanno facendo egregiamente il loro lavoro. Riassorbire l´eccesso di liquidità quando non sarà più necessario non è tecnicamente difficile. Non è detto invece che il recupero di fiducia avvenga rapidamente. Nella crisi del 29 non avvenne, anzi durò per molti mesi fino a creare effetti depressivi sulle economie reali. Abbiamo già detto che le autorità monetarie e le istituzioni finanziarie sono oggi molto più attrezzate di allora. Tuttavia la fiducia è un elemento immateriale e estremamente volatile. L´ostentata tranquillità delle Banche centrali e delle autorità monetarie può non esser sufficiente a ripristinarla.
Se poi prendesse corpo la speculazione ribassista con l´obiettivo di deprimere fortemente i listini di Borsa per poi ricoprirsi realizzando favolosi guadagni, come spesso avviene in situazioni del genere, non c´è Banca centrale che possa reggere né fiducia che possa esser recuperata. E´ tuttavia difficile (o almeno così ci auguriamo) un intervento massiccio al ribasso. La situazione dei mercati si è fatta di colpo così delicata che un intervento speculativo al ribasso potrebbe produrre effetti di tale magnitudine da render poi impossibile per lungo tempo l´esito positivo per gli speculatori. C´è insomma un deterrente psicologico, e speriamo che basti a fermar la mano della speculazione.
* * *
La Borsa italiana ha preso nell´ultimo mese e in particolare negli ultimi tre giorni potenti scoppole, più o meno in misura analoga a quella degli altri mercati europei. Più per contagio che per reali insolvenze. Di queste ne sono finora venute alla luce assai poche. Quella, di circa 700 milioni, dei tre fondi della Paribas parzialmente congelati. Altre sulle quali per ora circolano soltanto voci.
Il contagio comunque si può propagare come il «venticello» della calunnia cantato da Don Basilio nel «Barbiere di Siviglia». Ma se non è sostenuto da evidenze concrete può essere rapidamente dissipato. Il caso italiano non sembra dunque particolarmente esplosivo. C´è un punto tuttavia che merita di esser considerato e riguarda i fondi pensione nei quali sono recentemente affluiti oltre un milione di pensionandi che hanno versato i loro Tfr col metodo del silenzio-assenso.
Si è fatto un gran can-can da parte della «setta» degli economisti liberali perché il collocamento del Tfr nei fondi non era stato sufficientemente incoraggiato dal governo. Era una menzogna e il risultato delle sottoscrizioni lo dimostra. Ma ora ci sarà chi rimpiangerà, tra i pensionandi che hanno scelto la previdenza complementare, di non aver versato i propri Tfr ai fondi aziendali gestiti dai sindacati o addirittura di non aver conservato il vecchio sistema della previdenza pubblica dell´Inps. Gli investimenti arrischiati di alcuni fondi pensione americani ci dicono che anche la via della previdenza alternativa non è cosparsa di rose e fiori e che il mercato non è mai stato e mai sarà il paese di Bengodi se non per i pochi che possono manovrarlo a danno dei molti.
C´è un altro aspetto italiano che vale la pena di considerare. E´ opinione diffusa che l´eventuale rallentamento della crescita della nostra economia, aggravato dai possibili effetti della crisi in atto, spingerà in alto l´onere del debito pubblico sul bilancio dello Stato.
Personalmente credo sia un marchiano errore fare simili previsioni. La crisi finanziaria in atto ha aumentato e ancor più aumenterà la propensione dei risparmiatori a investire in titoli pubblici, Bot o pluriennali. Questa propensione produrrà un aumento della domanda di quei titoli e quindi un´occasione per il Tesoro di spuntare condizioni più favorevoli nel momento dell´emissione.
* * *
L´aspetto più preoccupante della situazione italiana sta invece nei possibili effetti di rallentamento sulla crescita del Pil che la crisi può esercitare. Rallentamento dovuto ad un calo nei consumi, allo sgonfiamento della bolla immobiliare che anche da noi è in corso e quindi nell´occupazione, nel reddito e negli investimenti nell´ampio indotto dell´industria edilizia.
A fronte di questi temuti effetti recessivi si ripete il suggerimento di accelerare le riforme. Ma quali?
Bisognerebbe specificare un po´ di più se si vuole evitare la ripetizione giaculatoria della parola «riforme». Le liberalizzazioni, certo. Ma non bastano, agiscono con ritardi tecnicamente inevitabili, non possono comunque essere effettuate tutte insieme in dosi massicce senza sconvolgere mercati alquanto sinistrati.
Il rallentamento nella crescita impone di concentrare l´azione del governo su quell´obiettivo. E quindi: favorire gli accordi governo-sindacati in favore della produttività; concentrare la spesa pubblica sui lavori pubblici e le infrastrutture; procedere a ulteriori sgravi fiscali sul lavoro e all´ulteriore sostegno dei bassi redditi.
Le crisi finanziarie hanno, come la loro storia ha invariabilmente dimostrato, l´effetto di accrescere la responsabilità e il ruolo dello Stato nel rilancio dell´economia. Così accadde nell´America del ´29, dove la crisi spazzò via la lunga dominanza dei conservatori e aprì la stagione dei riformisti, dai tre mandati di Roosevelt, a Truman, a Johnson, a Kennedy, a Carter, a Clinton.
La ragione è evidente: le crisi determinano rallentamento nella domanda. La ripresa avviene rifinanziando la domanda.
E quando è in sofferenza il settore delle costruzioni, affiancando all´investimento privato un massiccio e organico investimento pubblico. Tanto più in un paese come il nostro dove le infrastrutture sono carenti al Nord quanto al Sud. Su questa politica il governo può ritrovare compattezza ed efficacia. La situazione è già abbastanza seria per smetterla con i tiri alla fune e gli strappi per esibire una forza che isolatamente nessuno possiede.