mercoledì 15 agosto 2007

Liberazione 15.8.07
Corsera, Bonanni, Bonino contro il Prc
Lavoro, dignità diritti... Esiste un'altra sinistra?
di Rina Gagliardi

Siamo arrivati al dunque: la precarietà
E' l'idea di società in perenne competizione

La "campagna di Ferragosto" del Corriere della Sera sta arrivando al suo culmine - ieri, il maggior quotidiano italiano stanziava il giuslavorista Ichino, il segretario della Cisl Bonanni, nonché la petulante ministra Bonino, tutti insieme contro Rifondazione Comunista e le misurate dichiarazioni di Franco Giordano. Tutti insieme a magnificare la legge 30 e i suoi mirabolanti effetti, nientemeno che sulla riduzione della precarietà. Tutti insieme, ancora, a spiegare che comunque, però, la precarietà è un bene e che è l'ora di smetterla con la "fissazione", tipica della sinistra, del "posto fisso". Basterebbe questa flagrante, flagrantissima contraddizione, a svelare le intenzioni reali della campagna e a renderne evidente la natura ideologica e politica. Giacchè delle due l'una: o la legislazione italiana degli ultimi dieci anni sul così chiamato "mercato del lavoro", quella che va dall'abolizione del collocamento al job and call , ha davvero ridotto la precarietà dell'occupazione giovanile ed esteso il lavoro a tempo indeterminato - e sfido chiunque a sostenere questa tesi, di qualunque cifra sia armato e di qualsiasi statistica si faccia imbonitore - oppure, all'opposto, ha contribuito ad ampliarla, a legalizzarla, a renderla, perfino, senso comune. Come si può agevolmente constatare solo guardandosi intorno, se si vive in questo Paese e non in un altro. Come sa chiunque abbia figli, nipoti, figli di amici e conoscenti, laureati o diplomati o reduci da una (pessima) scuola di formazione professionale, che si arrabattano generalmente a vivere tra un call center e una borsa di studio, tra uno stage in un giornale e un part time a termine in un supermercato rionale - e mille altri così detti "nuovi lavori" e piccole consulenze, che prolungano (così dicono i sociologi) l'adolescenza fino alle soglie dei quarant'anni.
Ora, si può sostenere che tutto questo sia un progresso - non che non ci sia. Né si può affermare che il protocollo del 23 luglio abbia segnato una tappa significativa in quel contrasto alla precarietà, che è un impegno solennemente sottoscritto dall'Unione, nel suo programma elettorale, e da tutti, almeno a parole, condiviso. Allora, qual è il problema? Che siamo arrivati, scusate la ridondanza, al cuore del problema: la condizione del lavoro nel capitalismo contemporaneo. I suoi diritti, la sua dignità. Il suo rapporto con la vita delle persone. Un problema gigantesco, sia dal punto di vista sociale e politico, che culturale.

***
Perché il capitalismo, o la sua parte trainante, sceglie oggi la precarietà? Se volessimo rispondere in termini forse un po' scolastici, ma in fondo (ci pare) abbastanza rigorosi, diremmo, marxianamente, che questa scelta nasce dall'enorme "esercito industriale di riserva" che la globalizzazione offre agli imprenditori: per la prima volta (o forse non è affatto la prima volta, accadde anche alla fine dell'Ottocento), c'è una forzalavoro mondiale, diffusa cioè sul pianeta, a disposizione dello "sviluppo". Dunque, se la tendenza "naturale" del sistema diventa (ridiventa) quella di inseguire questa merce speciale (la forzalavoro) al suo prezzo più basso, al suo costo minore, per forza essa ha da essere flessibile: cioè da usare solo e soprattutto quando serve, quando è (relativamente) compatibile con il profitto. Ovvero, da non usare, tout court , nelle fasi basse del ciclo, nei periodi di crisi, e così via. Questa, per altro, è la natura di fondo del capitalismo e della sua forma attuale, il neoliberismo: un "elefante amorale", come l'ha definito uno studioso, che non conosce né il Bene né il Male, ma solo la propria logica espansiva, la cieca crescita quantitativa - l'orrore economico di cui parlava Vivien Forrester. Quasi duecento anni di lotte hanno avuto un solo filo rosso comune: di qua, il movimento operaio e le sue organizzazioni, che cercavano di ridurre, con fatiche sovrumane ma anche risultati importanti, gli effetti sociali di tale "voracità", e ottenevano diritti, e mettevano in campo la politica; di là, il sistema economico, che opponeva, appunto, la sua logica, i suoi interessi, le sue alleanze - e li presentava come la forma "perfetta" dell'interesse generale.
In Europa, nel secolo breve, questa dialettica ha prodotto un "patto", un compromesso politico e sociale tra due "bisogni", tra due punti di vista altrimenti inconciliabili - ma questo ciclo si è esaurito, anche sotto le macerie dell'89. E oggi, nella fase della competizione globale, il capitalismo europeo (cioè i capitalismi d'Europa) si ritrova stretto tra i due "modelli" dominanti: quello nordamericano, che usufruisce della strapotenza politica e militare degli Usa, e quello asiatico, che applica livelli tali di sfruttamento della forzalavoro da diventare concorrenziale per chiunque. La sua risposta è l'offensiva politico-culturale che vedete dispiegata, quasi ogni giorno, dai suoi più o meno consapevoli apologeti: riduzione, fino allo smantellamento, dei contratti collettivi, delle tutele sociali, dei sistemi di garanzia e protezione. E precarizzazione massima, strutturale del lavoro. Non è una distorsione, è un'idea di società: la società della competizione permanente, che seleziona spietatamente i "migliori" e abbandona la grande massa a una vita mediocre, o peggio che mediocre, e assicura ai poveri un po' d'assistenza - siamo pur sempre in una zona ricca del pianeta. La società senza sicurezze e senza diritti collettivi, codificati, esigibili, garantiti. La società in cui il lavoro, come tale, come la persona, non ha più né valore né dignità - anche se resta la base imprescindibile della ricchezza della società.

Liberazione 15.8.07
Il caso Sanremo, l'orrore, la Giustizia e alcune proposte
La galera non aiuta la sicurezza
Ci vuole un nuovo codice penale
di Giuliano Pisapia

Il magistrato, che ha dimostrato alta sensibilità morale e giuridica, ha dichiarato di aver applicato la legge e non vi è motivo, sulla base di quanto emerso, per dubitarne. Suo compito era quello di decidere se richiedere, o meno, un'ordinanza di custodia cautelare valutando gli elementi esistenti (non quanto avvenuto successivamente). L'attuale legge sulla custodia cautelare, del resto - e va detto con forza - è la migliore possibile, in quanto concilia la doverosa tutela della collettività e dei singoli, con il dovere giuridico di evitare, per quanto possibile, l'arresto di innocenti. E', in breve, ciò che distingue uno Stato di diritto da uno Stato di polizia. Ecco perché, per un provvedimento restrittivo della libertà personale, sono necessari quei "gravi indizi di colpevolezza" (l'indizio è molto meno della prova necessaria per una sentenza di condanna) che, nel caso specifico, il Pm e gli investigatori che con lui collaboravano, hanno ritenuto insussistenti. Una norma, quella prevista dal codice, per nulla "indulgente" o "lassista": lo conferma il fatto che sono di gran lunga più numerosi i casi di arrestati risultati innocenti di quelli di colpevoli nei cui confronti non sia stata accolta una richiesta di custodia cautelare (e ciò malgrado il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza). La limitazione delle garanzie va a scapito, infatti, non dei colpevoli ma degli innocenti e ogni innocente condannato significa un colpevole rimasto in libertà e che continua a commettere reati. Troppo spesso si dimentica che, fino a qualche anno fa, la carcerazione preventiva - definita anche la "lebbra del processo penale" - poteva durare 12-14 anni anche in presenza di indizi labili ed era immenso il numero di imputati incarcerati ingiustamente.
I genitori di Maria Antonia, la donna uccisa a Genova, provati da un dolore senza fine, hanno il diritto di esprimere in ogni modo le loro critiche e le loro "accuse". Chi ha ruoli di responsabilità, invece, deve essere più lucido ed evitare di proporre modifiche che accentuerebbero i rischi sia di errori che di delitti tanto orrendi. Non è con l'emergenza o rimpiangendo un passato che si sperava definitivamente superato, che si migliora la giustizia e si garantisce la sicurezza dei cittadini.
E veniamo al secondo punto: abbiamo, in Italia, un codice penale di stampo autoritario che risale al 1930 e che quindi, in più punti, contrasta con i principi costituzionali. Basti pensare ai casi di responsabilità oggettiva, ai numerosi reati anacronistici e al fatto che le uniche pene previste siano il carcere e la multa, spesso non adeguate alla condotta illecita che si intende punire (un esempio: fino a sei mesi di carcere per "rappresentazione abusiva di spettacolo teatrale o cinematografico"). Sono invece completamente ignorati comportamenti delittuosi nuovi e diffusi, quale quello di cui era già vittima Maria Antonia: le molestie e le minacce persistenti (il cosiddetto stalking, dall'inglese "perseguitare", di cui sono quotidianamente vittime tante donne). Se quel comportamento fosse già stato reato, il magistrato avrebbe potuto prendere tutti i provvedimenti necessari per impedire quell'omicidio. Non con un carcere preventivo basato su sospetti labili che, se generalizzato, rischierebbe di colpire tanti innocenti, ma con una norma "preventiva", specifica e mirata.
Ecco perché è necessario e urgente un nuovo codice penale, accompagnato da una ampia depenalizzazione (che non equivale affatto a impunità ma significa immediata ed efficace sanzione amministrativa). Un nuovo codice per cancellare le tante fattispecie ormai polverose e, soprattutto, per introdurre un diverso sistema sanzionatorio che preveda, oltre alla pena detentiva e a quella pecuniaria, anche pene interdittive e prescittive (come i lavori socialmente utili e le attività riparatorie) in molti casi più efficaci, con una minore recidiva e un maggiore reinserimento sociale. La giustizia non può, e non deve, essere né vendetta nè ricerca di capri espiatori, ma accertamento delle responsabilità e commissione di sanzioni eque, proporzionate quindi all'effettiva colpevolezza.
Questa mattina, al bar, un gruppo di persone, commentando i fatti di questi giorni, invocavano a gran voce la pena di morte. Avrei voluto rispondere che chi è pronto a sacrificare le libertà fondamentali per briciole di temporanea (e apparente) sicurezza, finisce col perdere la libertà senza ottenere la sicurezza. Ho invece pensato che, proprio perché non si può e non si deve sottovalutare il comprensibile allarme suscitato da fatti così gravi, non ci si può limitare a contrastare chi cavalca strumentalmente il dolore e la paura, ma è indispensabile ricreare, anche a sinistra, una cultura realmente garantista e operare, quotidianamente, per una giustizia degna di questo nome.

il manifesto 15.8.07
Radicali e destra in piazza per difendere la legge Biagi
di Alessandro Braga

Roma. Nel giorno in cui Cesare Damiano prova ad abbassare un po' i toni dello scontro sul welfare, con timide aperture alla sinistra alternativa, ci pensano il centrodestra e i radicali a mantenere calda la situazione, annunciando la loro adesione alla contromanifestazione del 20 ottobre in difesa della legge Biagi.
«E' venuto il momento di contrapporre i fatti all'ideologia, di ragionare e non di inveire: il 20 ottobre organizzeremo una manifestazione anche noi, per non consentire che in quella giornata parlino solo i propagandisti dei luoghi comuni». Così due giorni fa l'economista Giuliano Cazzola aveva lanciato l'idea che il 20 ottobre, nel giorno in cui la sinistra alternativa scenderà in piazza per chiedere il rispetto del programma dell'Unione, tutti i sostenitori della legge 30 facessero lo stesso.
Un'idea che ha visto l'adesione convinta di buona parte del centrodestra e, nella maggioranza, dei radicali. «Mi sembra un'iniziativa meritoria», ha subito commentato Emma Bonino. E non poteva fare altrimenti, visto che il giorno prima aveva minacciato una «grave crisi politica» se in autunno il presidente del consiglio Romano Prodi avesse ceduto ai «ricatti» della sinistra e cambiato il protocollo sul welfare. Anche se lei non ci sarà, in quanto membro dell'esecutivo, il suo partito vi aderirà convinto e compatto: «Noi radicali della Rosa nel pugno ci saremo sicuramente e i socialisti molto probabilmente», ha assicurato Marco Pannella.
E il centrodestra si accoda quasi unanime all'invito, anche per cercare di dimostrare di essere ancora unito. E' Pierferdinando Casini il primo a far sapere che ci sarà, «per difendere una legge giusta che fece il governo Berlusconi». Di più, «una delle migliori». Poche parole, ma che bastano a far dire a Forza Italia che «la casa delle libertà torna unita in piazza». Che sarebbe anche vero, se si tenesse conto solo delle parole degli alleati leghisti, che hanno fatto sapere che il Carroccio sarà in piazza, perché «è un imperativo morale». Peccato per loro che Alleanza nazionale, ad eccezione di Gianni Alemanno, abbia dato forfait. «Il comportamento di Casini? Mi sembra un po' schizofrenico». Ignazio La Russa liquida così l'adesione dell'Udc alla manifestazione, visto che proprio pochi giorni prima l'ex presidente della camera aveva detto no all'iniziativa sulla sicurezza organizzata per il 13 ottobre dai nazional-alleati.
Un po' imbarazzati, tra la voglia di scendere in piazza e l'impossibilità di farlo, i riformisti dell'Unione. Tiziano Treu promette che la legge 30 sarà «difesa in parlamento. Sulla stessa lughezza d'onda l'Italia dei valori, che non manifesterà. Mentre non cambia di una virgola la sua posizione Lamberto Dini, che continua a minacciare l' uscita dalla maggioranza se si dovesse cambiare il protocollo sul welfare: «Sto semplicemente ribadendo la posizione del presidente del consiglio - dice Dini - che aveva dichiarato inemendabile il protocollo».
Ma proprio ieri il ministro del lavoro Cesare Damiano ha provato una debole apertura nei confronti del Prc: «Al di là di quello che si dice, noi la legge Biagi la stiamo cambiando. Procederemo all'abrogazione delle forme di contratto particolarmente precarizzanti in maniera graduale». Parole caute, ma valutate positivamente dal capogruppo al senato di Rifondazione comunista Giovanni Russo Spena: «Mi fa piacere che il ministro Damiano riconosca, sia pure con una formula un pò obliqua, la necessità di rimettere le mani nel protocollo sul welfare per chiarire gli equivoci sui contratti a termine». Anche se il ministro ha continuato a rimarcare la bontà del documento, e a considerare «in modo negativo l'eventuale presenza di ministri in piazza».

l’Unità 15.7.07
Vi spiego la protesta a sinistra
di Nicola Tranfaglia

Sostituire il governo Prodi con governi di larghe intese sarebbe un grave errore
Ma questo non può voler dire attuare solo la parte del programma che piace alle imprese

Escono in questi giorni sonnacchiosi di mezza estate e sembrano fatte apposta per dare il via nell’ormai prossimo settembre a una nuova disputa sul programma e sull’agenda del governo Prodi. L’intervista di Franco Giordano al «Corriere della Sera» fa seguito a quella uscita ieri del ministro del Lavoro Cesare Damiano. Sono state precedute da alcune, sconsiderate dichiarazioni dell’ex leader dei no-global Francesco Caruso.
Il quale ha definito «assassini» il senatore Tiziano Treu della Margherita e il professor Marco Biagi assassinato dalle Brigate Rosse. Una dichiarazione quest’ultima che non dovrebbe avere posto nel linguaggio e nelle idee di un parlamentare che ha libertà di critica ma non può scambiare le differenze ideali all’interno dell’una o dell’altra coalizione (qui si tratta, dovrebbe ricordare Caruso, della medesima, quella di maggioranza) come discriminanti tra il bene e il male, le vittime e i carnefici.
Nel caso specifico, Caruso dimentica anche che la cosiddetta legge Biagi non è stata espressione diretta del lavoro del giuslavorista modenese ma un adattamento politico di alcune idee discutibili ma non certo criminali compiuto dalla coalizione berlusconiana.
Tutti i partiti, occorrerebbe ricordarlo ai giornali che fingono di dimenticarlo, della sinistra hanno condannato quelle parole e il giudizio in esse contenuto a dimostrazione di una cultura e mentalità diverse da quella di Caruso. Ma per i quotidiani che si rifanno al forte desiderio di far cadere l’attuale governo di centro-sinistra prima ancora che termini la quindicesima legislatura, si tratta di un ottimo pretesto per preparare un autunno caldo almeno a livello mediatico, se non reale.
In realtà le cose stanno diversamente e basta leggere le risposte di Giordano alla cronista del quotidiano più diffuso del paese per rendersene conto.
Che i sindacati, in particolare la Cgil, non siano soddisfatti del protocollo sulle pensioni e il Welfare è un fatto difficile da negare. Lo stesso Epifani, segretario generale del maggior sindacato nazionale, ha parlato di una firma con riserva, di fronte a un governo che ha cambiato le carte in tavola all’ultimo momento e con la minaccia di far cadere il governo. Quanto al gabinetto Prodi, quattro ministri si sono dissociati dal testo siglato e hanno affermato che nei mesi successivi, attraverso il lavoro parlamentare, cercheranno di modificare l'accordo per ora raggiunto.
Da questo punto di vista non ci si può meravigliare che i leader legati al progetto di unificazione della sinistra decisa a non confluire nel partito democratico, pur continuando a far parte della coalizione di centro-sinistra e del governo, useranno gli strumenti parlamentari (mozioni, emendamenti, interpellanze e interrogazioni) per modificare parzialmente quella scelta e correggerla in alcuni punti essenziali.
La piattaforma, a differenza di quel che sostiene il ministro Damiano, sta nel programma Prodi e non in improvvise velleità pseudo-rivoluzionarie.
In quel programma si dà un giudizio assai negativo della cosiddetta legge Biagi e ci si impegna a sostenere l’urgenza e la necessità di modifiche di fondo. Si può dire che il protocollo di luglio vada chiaramente in quella direzione? A me pare assai difficile rispondere in maniera positiva.
Non si è distinto il piano della spesa pensionistica da quella previdenziale come pure molti hanno auspicato.
Non si è data, attraverso il nuovo meccanismo contributivo, così come è stato organizzato, la speranza ai lavoratori spogli della protezione del contratto a tempo indeterminato di costruire una pensione finale corrispondente al sessanta per cento dell'ultimo salario, essendo questa una mera possibilità assai difficile da conquistare attraverso i calcoli oggi possibili.
E a questi aspetti altri si aggiungono che disegnano un panorama che non è quello della legge Biagi ma non è neppure quello di una legislazione del lavoro che tuteli la maggior parte degli attuali precari, dei lavoratori a progetto, a tempo determinato, interinali e così via dicendo.
Di fronte a una scelta politico-economica di questo genere, c’è da stupirsi che le forze politiche che hanno al centro del loro programma la questione del lavoro e dello sviluppo economico per le masse popolari protestino e si preparino a lavorare in Parlamento per modificare i termini dell’accordo di luglio? In una situazione nella quale la popolarità del governo Prodi è bassa e si distanzia per più di dieci punti dalle aspettative di voto dell’opposizione di centro-destra, pur con l’improbabilità dei sondaggi a lungo termine?
Chi può aspettarsi che l’approvazione dell’accordo da parte della Confidustria e dell’opinione pubblica moderata rappresentata dai giornali degli imprenditori possano annullare il forte disagio economico e di vita di milioni di giovani, di pensionati, di persone che continuano a non arrivare alla fine del mese?
Non si tratta, per queste forze politiche, di sostituire il governo Prodi con governi di larghe intese o gabinetti istituzionali, magari aperti a pezzi della destra? Sarebbe un errore inaccettabile.
Ma questo non può significare attuare solo quella parte del programma elettorale che piace alle imprese e al mondo finanziario di questo Paese e metter da parte la parte che può migliorare la vita delle masse popolari, dare speranze ai giovani, render più difficile il conflitto di interessi, allargare le libertà e l’eguaglianza degli uomini e delle donne, introdurre un effettivo pluralismo nell’orizzonte radiotelevisivo come in quello giornalistico ed editoriale.
Altrimenti che senso avrebbe porsi di fronte al centro-destra come competitori capaci di contrastarne la vittoria nelle prossime elezioni?

La Stampa 15.8.07
La Chiesa nemica di se stessa
di Antonio Scurati
(l'articolo che segue risponde ad un'intervista a Messori pubblicata da La Stampa l'11.8 che riproduciamo di seguito ad esso)

L'estate dei preti pedofili. Pedofili e santi. Forse così sarà ricordata l'estate del 2007. Corriamo il rischio che, di qui a cent'anni, quando gli storici si volteranno indietro a studiare la stagione che stiamo vivendo, vi individueranno l'origine di una trasformazione sconvolgente in seno alla Chiesa cattolica, il momento in cui la perversione sessuale cominciò a essere rivendicata quale privilegio ecclesiastico, l'abuso sull'infanzia e ogni altra manifestazione di sessualità patologica cominciarono a essere ritenute il normale contraltare della vocazione religiosa e la Chiesa tutta cominciò a essere percepita da gran parte della popolazione come un luogo separato dalla società, sottratto alle leggi e alle norme che governano la normale convivenza civile, un luogo al tempo stesso superiore e inferiore ad essa.

La Chiesa come arca di vizi demoniaci e angeliche virtù, che prende il largo in un mare sacro, per una navigazione terribile ma forse salvifica, su rotte comunque remote rispetto alla terra sottoposta alla legge degli uomini, quegli uomini che affannosamente la calcano, giorno dopo giorno, portando il loro fardello di piccole speranze e piccoli peccati. L'estate 2007 verrà forse ricordata come l'inizio di una regressione verso un passato arcano, al tempo stesso splendido e oscuro, verso un medioevo di grandi peccatori e grandi cattedrali.

Probabilmente questa rimarrà soltanto una fantasia ferragostana, suggerita dalla canicola e dai pasti abbondanti, ma è suggerita anche dai fatti delle ultime settimane e, soprattutto, da alcuni autorevoli commenti che li hanno accompagnati. Sabato scorso, sulle colonne di questo giornale, Vittorio Messori, uno dei più colti e stimati intellettuali cattolici, coautore di ben due papi (ha scritto libri a quattro mani sia con Benedetto XVI sia con Giovanni Paolo II), in una sconcertante intervista, ha dichiarato di non trovare nulla di scandaloso in un uomo di Chiesa che ogni tanto «tocchi qualche ragazzo» se poi «ne salva a migliaia». Dopo aver ricordato che molti santi e beati della Chiesa erano psicopatici vittime di gravi turbe della sessualità, Messori si è spinto fino a dichiarare che la pedofilia - forse il più odioso tra tutti i crimini, stando al senso comune - sarebbe, secondo un certo «realismo della Chiesa», nient'altro che «un'ipocrita invenzione». Poiché la linea di demarcazione tra l'adulto e il bambino sarebbe sempre in qualche misura convenzionale, non ci sarebbe nessuna sostanziale differenza tra un rapporto omosessuale consensuale tra due adulti e gli abusi di un adulto su di un bambino.

L'aberrante argomentazione di Messori - che io sinceramente mi auguro di aver frainteso - mira a scagionare preventivamente un prete come don Gelmini dalle accuse di molestie sessuali. Non con il dichiararlo innocente, ma con il ritenerlo esente dalla legge penale e morale, anche se colpevole. La sua presunta «santità» lo collocherebbe in uno stato d'eccezione sottratto alla giurisdizione umana. Sebbene sconcertante, questa proposta da Messori è una concezione molto radicata nella tradizione cristiano-cattolica e, più in generale, nell'antropologia del sacro: il prete, in quanto ministro del culto di Dio, proprio perché più vicino degli altri uomini al principio divino, sarebbe più prossimo anche a quello diabolico. Il sacerdote, in quanto iniziato alle pratiche sacre, sarebbe una sorta di maneggiatore di potenti veleni, capaci di portentose guarigioni ma anche di micidiali tentazioni. In ogni caso, l'esperienza religiosa, in quanto strettamente legata all'ordine soprannaturale, si separerebbe da quello naturale (sacro, etimologicamente, significa «separato»). L'uomo di Chiesa, nella misura in cui prende a modello il santo, non sarebbe più un uomo in mezzo ad altri uomini, che si distingue da essi per una superiore moralità, ma un uomo che, aspirando alla santità, si ritiene al di sopra di ogni moralità. E, talora, perfino della legalità.

Si tratta, insomma, di una concezione che potremmo definire «cattolicesimo magico», prepotentemente tornata alla ribalta della storia negli ultimi anni, da quando l'onda della cosiddetta secolarizzazione e il disincanto del mondo, dopo aver sommerso la società occidentale, hanno cominciato il loro movimento di risacca. Lasciano sulla riva una recrudescenza di ferventi culti mariani, di attese miracolistiche, di antichi riti pagani, di devozioni totali a guaritori presto canonizzati in santi cristiani, di estasi collettive e accensioni mistiche. Fa parte di quest'onda di riflusso anche la delega in bianco della cura delle tossicodipendenze, una delle più gravi patologie sociali del nostro tempo, a istituzioni religiose da parte dello Stato laico. Nelle «stanze del silenzio» in cui giovani disperati aprono il loro cuore a curatori (nel senso letterale del prendersi cura) quali don Gelmini, la guarigione la si attende non dall'applicazione di un protocollo medico-scientifico ma dalla benedizione di un dono religioso. In quelle stanze, intanto, c'è comunque un uomo in totale potere di un altro uomo.

Si ritorna così a un clima da Santa Inquisizione, nel quale però i processi per stregoneria vengono celebrati sui media e a parti invertite: per una sorta di nemesi storica, oggi sono i preti a essere accusati di quei commerci carnali con il Maligno di cui nei secoli accusarono presunte streghe e stregoni. Anche il sospetto che gli indemoniati sottraggano gli infanti alle loro famiglie per sacrificarli sull'altare del Male riecheggia quegli antichi e deliranti capi d'accusa.

Ma, lungo questa china scivolosa, è la Chiesa, non un fantomatico e inesistente anticlericalismo, la peggior nemica di se stessa. Anche noi laici, forse soprattutto noi, ci auguriamo che la Chiesa rimanga fedele a se stessa, alla sua più alta ispirazione e custodisca - come vuole ad esempio un conservatore illuminato, monsignor Biffi - la castità dei suoi preti, quel grande dono che gli uomini di Dio fanno ad altri uomini, garantendo ai loro figli e alle loro figlie uno spazio preservato dalla furia travolgente della libido sessuale. Ci auguriamo che la Chiesa custodisca questo dono prezioso fin dove possibile e, quando anche la castità fosse un traguardo impossibile, salvi almeno la temperanza, antica virtù cristiana. Sarà allora una Chiesa con meno aspiranti santi e con più uomini probi. Una Chiesa ancora capace di scandalizzarsi perché memore dello «scandalo» su cui si fonda: Gesù Cristo, il Dio che si abbassa fino a incarnarsi nell'uomo, non l'uomo che pretende di innalzarsi fino a farsi Dio.

La Stampa 11.8.07
Messori: "Il problema? Troppi gay in seminario"
intervista di Giacomo Galeazzi

«La santità è assolutamente compatibile con una vita sessualmente disordinata»
«Su quali basi si santifica l’omosessualità e poi si demonizza la pedofilia?»
«I preti antidroga? I vescovi non li controllano e diventano superstar»

ROMA. Vittorio Messori, lei è coautore di Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger: qual è, da ascoltato frequentatore dei Sacri Palazzi, la sua idea sugli scandali sessuali nella Chiesa dopo gli ultimi casi giudiziari di don Gelmini e dei sacerdoti ricattati a Torino?
«Un uomo di Chiesa fa del bene e talvolta cade in tentazione? E allora? Se fosse così per don Pierino Gelmini, se ogni tanto avesse toccato qualche ragazzo ma di questi ragazzi ne avesse salvati migliaia, e allora? La Chiesa ha beatificato un prete denunciato a ripetizione perché ai giardini pubblici si mostrava nudo alle mamme. Queste storie sono il riconoscimento della debolezza umana che fa parte della grandezza del Vangelo. Gesù dice di non essere venuto per i sani, ma per i peccatori. E’ il realismo della Chiesa: c’è chi non si sa fermare davanti agli spaghetti all’amatriciana, chi non sa esimersi dal fare il puttaniere e chi, senza averlo cercato, ha pulsioni omosessuali. E poi su quali basi la giustizia umana santifica l’omosessualità e demonizza la pedofilia? Chi stabilisce la norma e la soglia d’età?»

La Chiesa non controlla più i sacerdoti?
«Nessuno osa più comandare, si pretende dalla Chiesa il dialogo invece della disciplina. Ci si scandalizza del sacerdote molestatore, poi però il vescovo diventa un odioso despota se nega l’ingresso in seminario ad un gay. Ci si indigna dei peccati dei sacerdoti ma se l’autorità ecclesiastica cerca di imporre le regole scoppia il finimondo e si grida alla repressione, all’autoritarismo, alla discriminazione. Casi come quelli esplosi in questi giorni, la Chiesa li ha sempre ricondotti sotto il proprio controllo. Ma oggi il “vietato vietare” le proibisce di esigere disciplina al suo interno. La Chiesa ha sempre saputo che seminari e monasteri attirano omosessuali. Prima era molto attenta a porre barriere all’ingresso e a sorvegliare la formazione. Chi dimostrava tendenze gay veniva messo fuori. Poi il no alla discriminazione ha permesso l’ingresso in forze degli omosessuali e ora la Chiesa paga quell’imprudenza».

I suoi sostenitori definiscono don Gelmini un «santo»
«Non entro nel caso giudiziario, però è indubbio che nella storia della Chiesa una sessualità disordinata ha potuto convivere agevolmente con la santità. Sono legato al segreto richiesto dai Postulatori, ma potrei fare nomi celebri. Il fondatore di molte istituzioni caritative in Europa è stato proclamato Beato nonostante le turbe sessuali che per un istinto incoercibile lo spingevano a compiere atti osceni in luogo pubblico. Non mi scandalizzo, penso ai drammi umani che ci sono dietro. San Giovanni Calabria era un benefattore dell’umanità, ma è stato sottoposto a sette elettroshock: da psicopatico grave, da manicomio».

Perché scoppiano adesso questi scandali?
«In America è stata assolta la maggior parte delle diocesi che invece di patteggiare hanno tenuto duro e sono arrivate in giudizio. Però è innegabile che oggi nella Chiesa la castità fa problema. Sul piano umano è disumana. Si resta casti solo se si ha fede salda, fiducia nella vita eterna. Il deficit non organizzativo, ma di fede. E non si risolve abolendo il celibato ecclesiastico perché l’80% sono casi gay. Deviazioni sessuali di preti che mettono le mani addosso agli uomini e ai ragazzini. La caduta della fede e la rivoluzione sessuale accrescono il problema. Chi è causa del suo mal pianga se stesso: sono stati eliminati i controlli per ammettere in seminario pure gli effeminati il cui sogno era stare in mezzo agli uomini».

Le comunità antidroga sono terra di nessuno?
«La Chiesa deve tappare i buchi della società laica. I preti antidroga nessuno li controlla, sfuggono alla sorveglianza dei vescovi e dei superiori perché diventano superstar, con i rispettivi supporter politici. E così c’è lo schieramento dei buoni samaritani di destra e di quelli di sinistra, don Ciotti contro don Gelmini. I preti di Torino sono finiti nella rete dell’estorsione perché si è inventato il concetto ipocrita di pedofilia. Così un ricattatore senza arte né parte campa con la minaccia di far esplodere uno scandalo. Una volta ricattavano i notai con l’amante, oggi la categoria più esposta è il prete gay».

Un business, come dice Bertone?
«Sì. Negli Usa gli avvocati mettono cartelli per strada: “Vuoi diventare milionario? Manda tuo figlio un anno in seminario e poi passa da noi”. Le diocesi sono facilmente ricattabili, preferiscono pagare anche se innocenti. Temono un danno d’immagine. E l’inquinamento riguarda anche noi. Il politicamente corretto sta prendendo campo anche nel cattolicesimo italiano. E i risultati si vedono, purtroppo».