venerdì 10 agosto 2007

Liberazione 10.8.07
La legge 40 è superstizione di Stato: è pazzia non cambiarla
Se la legge sulla procreazione assistita è sbagliata e causa guai
ci penseranno le linee guida del ministero o i cattolici del Pd?
di Carlo Flamigni

Il brutto, quando si perdono le competizioni (o quando il tuo avversario, comunque sia andata, ritiene di aver vinto), è quello che succede dopo, le prese in giro, le cattiverie inutili, l'arroganza grossolana e volgare. Penso, ancora una volta, alla legge 40 sulla procreazione assistita e mi guardo intorno. La prima cosa che vedo è una proposta di modifica del comitato "Verità e vita", presentata alla Camera dei deputati pochi giorni or sono e che contiene alcune gustose facezie, messe lì - immagino - solo per irritare quei poveri imbecilli che si affannano tanto per avere un figlio (e ignorano che i figli sono un dono di dio, eccetera, eccetera, eccetera).
Secondo Mario Palmaro, presidente di questa colta associazione, la legge attuale è profondamente ingiusta perché è troppo "uccisiva". Avete letto bene: uccisiva. Ho pensato a tutto, errori di stampa, scherzi del computer, ma mi sono dovuto rassegnare: è proprio una legge "uccisiva". Poi mi sono reso conto che la legge ha avuto l'approvazione toto corde di un tale che mi sembra si chiami Luca Volontè, che non conosco ma che ho sentito parlare, credo, a Radio Radicale. Il cognome, e il numero straordinario di anacoluti che caccia nei suoi discorsi me lo fanno identificare come un cittadino francese che sta imparando - forse un po' lentamente, ma nessuno è perfetto - l'italiano: è dunque almeno probabile che sia stato lui a suggerire l'uso di questa parola, diciamo, inconsueta. Però uccisiva, lo confesso, mi sembra troppo anche per un cugino d'oltralpe. Allora sono andato a spulciare le agenzie e ho capito, si trattava di Luca Volonté, capogruppo Udc alla Camera (italiana), un uomo capace di bollare i dati sulle nascite del ministero della Salute come «censimenti partigiani» che causerebbero «conclusioni istintive e, talvolta, isteriche» ovvero «accusare la legge 40 di effetti negativi» come la diminuzione delle nascite (per Volontè quelle "non naturali" probabilmente non si dovrebbero comunque contare).
In ogni modo, per un tecnico, la lettura delle proposte del comitato "Verità e vita" è esilarante. Intanto chiediamoci perché questa legge è tanto "uccisiva": la ragione sta tutta nel fatto che, secondo una radicata superstizione cattolica, l'embrione è uno di noi, fin dal momento in cui l'ovocita è stato adocchiato da uno spermatozoo intraprendente. Non ho particolare avversione per le superstizioni, ma mi piacerebbe molto se non diventassero leggi dello Stato. Se questo criterio si generalizzasse, dovremmo punire con almeno sei mesi di reclusione chi mette il cappello sul letto; e a dire il vero da bambino mi presi una solenne bastonata da mia madre perché avevo rotto uno specchio (sette anni di guai) e fui a lungo consapevole che se mio padre non fosse tornato dalla guerra, io ne sarei stato responsabile. Ma, per quanto mia madre lo desiderasse, la rottura degli specchi non è mai diventata un reato penale.
Le gemme di questa proposta sono numerose. Una tra tutte: c'è la richiesta di proibire una delle tecniche di Pma (Procreazione medicalmente assistita) perché provoca un numero di aborti troppo elevato: immagino che possa anche esser vero, ma avrei il diritto di sapere di quali donne si parla, che età hanno, qual è il rapporto tra questo tasso di abortività (cioè, per spiegarmi, di "uccisività" feto-embrionale) e quello considerato normale per le gravidanze spontanee delle donne della stessa classe di età, perché le cifre riportate nel testo sono prive di qualsiasi significato. Avrei anche il diritto di sapere chi è il consulente di monsieur Volontè, così, solo per divertirmi un po'. Non vorrei che questa moda delle parole create ad hoc - anche da un gentiluomo francese, non vedo alcuna differenza - si diffondesse.
Per precauzione, ho comunque cominciato a coniare neologismi personali, non si sa mai: proporrei, ad esempio, di chiamare "nascisti" gli antiabortisti più radicali, vista anche le loro frequenti contaminazioni politiche.
La seconda cosa che mi ha colpito è la grande attenzione che il ministero della Salute ha voluto riservare al problema delle linee guida, che dovrebbero essere rinnovate a giorni. Se ricordate, i dati dell'Istituto Superiore di sanità relativi ai risultati ottenuti in Italia dopo l'approvazione della legge 40 dimostrano, senza ombra di dubbio, che sta andando tutto a rovescio, meno gravidanze, più aborti, più complicazioni, un maggior numero di gravidanze multiple e, oltre a ciò, un grande numero di coppie che cerca fortuna all'estero, un nuovo turismo dei diritti del quale nessuno si cura (vero ministro Turco? Ma non eravamo di sinistra? Non avevamo a cuore le sorti dei diseredati?). Dal ministero è arrivata, come unico commento, una vera perla di saggezza: "E' un fatto che ci induce a ragionare". Rotolando qua e là, la perla ha eccitato la fantasia della senatrice Binetti che si è subito avventurata in una gioiosa esaltazione del ministro Turco ("quanto è bella, quanto è cara", conoscete l'aria); il comitato che sta preparando il programma del nuovo Partito democratico, dopo aver consultato "Scienza e vita", ha deciso di proporre, come nuovo simbolo unitario, un cilicio e un martello.
Intanto un amico mi ha mandato l'elenco dei commissari che stanno concludendo il loro lavoro su queste benedette linee guida, e subito ne è venuto fuori un mistero: il genetista è il professor Dalla Piccola, presidente (con la senatrice Binetti) di "Scienza e vita", indicato come rappresentante del Comitato Nazionale per la Bioetica. Poiché nessuno dei membri del Comitato ne sapeva qualcosa, abbiamo chiesto lumi al presidente ufficiale del Cnb Casavola, che si è posto al niego, secondo il saggio consiglio di Machiavelli: fatto si è che Dalla Piccola è lì e che gli altri genetisti presenti sono, se non erro, allievi suoi. Posso avanzare timidamente l'ipotesi che la commissione, almeno per quanto riguarda la genetica, sia un po' sbilanciata a favore del cattolicesimo più intransigente? Ne deduco che da queste nuove linee guida non arriverà niente di nuovo e ho la triste sensazione che, in termini di laicità, ci potevamo attendere qualcosa di più dal precedente ministro, il buon professor Sirchia. Si spengono così le mie residue (minime) speranze di veder inserire alcune modifiche che pure erano negli auspici persino dei parlamentari che hanno contribuito a preparare la legge: la definizione di una fase pre-zigotica; indagini genetiche sugli embrioni dirette alla sola informazione dei genitori; una più saggia articolazione del numero di oociti fertilizzabili. Tra l'altro, trovo nell'elenco dei membri della commissione il nome di persone che, a quei tempi, si erano dichiarate in favore di una o di un'altra delle modifiche che ho citato. Errori di gioventù.
Mi arrivano poi sul tavolo i consigli della commissione istituita dal Consiglio Superiore di Sanità per aiutare il ministero a compilare le nuove linee guida. Credo di non aver mai letto nella mia vita consigli altrettanto banali e irritanti: siate bravi, fate il vostro dovere e vedrete che le cose andranno meglio. C'è una sollecitazione a sperimentare il congelamento degli oociti, che dimentica che si tratta di un'iniziativa del ministro Veronesi del 2000; c'è un accenno a eseguire indagini sui globuli polari, che quasi tutti i centri maggiori stanno cercando di fare da anni tra molte difficoltà e con la consapevolezza del gran margine di errore che queste analisi contengono. Aria fritta
La cosa che mi ha irritato di più, in ogni caso, è stata una dichiarazione della senatrice Binetti che ha raccomandato alle coppie di non dimenticare la prevenzione, per non doversi ritrovare poi a piangere sul latte versato. In termini più concreti, la senatrice sta raccomandando alle giovani donne di non ammalarsi di leucemia, di non beccarsi l'endometriosi, di non farsi operare da medici disattenti, di non nascere con una malconformazione uterina. Ma chi l'ha eletta in Senato? Noi? E' ora di ripristinare l'autocritica.
Mi dispiace dove lasciare libero il mio fondamentale pessimismo, ma questa cattiva legge, che ha dimostrato di fare danni e di rendere ancora più complicato e doloroso il percorso delle coppie sterili, resterà immodificata per chissà quanto tempo ancora. Proveremo - non bisogna mai demordere - a portare almeno un paio delle norme più discusse davanti alla Corte Costituzionale; ragioneremo ancora sulla opportunità di tornare a un referendum; ma le probabilità, visto l'attuale clima politico, sono contro di noi. Al di là di questo, l'unica cosa possibile è quella di cercare -almeno cercare - di non mandare in Parlamento i cattolici più intransigenti e radicali, cosa che sarà resa particolarmente difficile dalla nascita del nuovo Partito democratico. E poi, per chi ci crede, ci sono ancora la rivoluzione e i miracoli, non saprei proprio a chi altri affidare le mie speranze di cambiamento.

Liberazione 10.8.07
Frase nazista di Gentilini e una idiozia di Caruso
I cretini d'agosto: di destra e di sinistra
di Piero Sansonetti

Quando ieri è arrivato in redazione il flash d'agenzia con le parole di Giancarlo Gentilini, ex-sindaco e ora vicesindaco di Treviso, le abbiamo lette e abbiamo fatto la solita smorfia di disgusto. Ci siamo detti che non c'era notizia, perchè ormai di simili truci idiozie il vicesindaco di Treviso - una delle figure più forti e rappresentative della Lega Nord - ne ha dette talmente tante che non si contano più e non sono nuove. Poi però abbiamo riletto la frase di Gentilini (« incaricherò i vigili di fare pulizia etnica dei culattoni ») che è una frase del tutto organica al pensiero nazista, e abbiamo pensato che l'abitudine all'hitlerismo non è mai una buona abitudine. E che ogni volta che qualcuno - della Lega o no - pronuncia frasi naziste come questa, o anche semplicemente frasi razziste - come spesso capita a Bossi a Calderoli e ad altri - bisogna avere la capacità e la forza di indignarsi come se fosse la prima volta.
E poi indignarsi non basta. Occorre pretendere dei provvedimenti. Le parole di Gentilini pongono alla destra una grandissima questione di responsabilità: sottovalutarle e considerarle un fatto di folclore sarebbe un errore tremendo. Perché condannerebbe questo paese ad avere una destra indelebilmente marcata dalla orrida cultura razzista o addirittura - come in questo caso - hitleriana. E a nessuno fa piacere vivere in un paese dove la destra è impresentabile. E tutta la battaglia politica, in ogni campo, viene contaminata e fatta degenerare da questo problema.
Io considero la Lega Nord una delle espressioni più lontane dal mio modo di pensare. Molte posizioni politiche della Lega - fondamentalmente la sua aspirazione a ottenere la supremazia delle province del nord, cioè delle province ricche sul resto del paese - secondo me sono fortemente reazionarie e da combattere con tenacia e anche con aggressività. Però, quelle, restano posizioni politiche legittime. Per capirci, quelle espresse, ad esempio, da Roberto Maroni o persino da Roberto Castelli. Quando invece la Lega accetta il nazismo di Gentilini, o il Calderoli antiislamico, o certe uscite razziste di Bossi o di Borghezio, è tutta la Lega a vedere messa in discussione la propria legittimità democratica, e di conseguenza tutta l'alleanza di centrodestra.
Finito questo ragionamento, piomba sui nostri tavoli una dichiarazione delirante e offensiva di Francesco Caruso - giovane deputato del Prc - che serve a ricordarci che la cretineria non è una esclusiva della destra. Caruso dice che l'ex-ministro del lavoro (Ulivo) Tiziano Treu e l'ex consulente del ministero (senza partito) professor Marco Biagi sono assassini. Perché?
Perché le leggi che hanno preparato (le leggi sul lavoro, quelle che regolano tra l'altro il lavoro a tempo determinato, cioè il lavoro precario) sono responsabili di 1.200 morti all'anno. Le dichiarazioni di Caruso provocano immediatamente molte reazioni, e allora lui le corregge e le modifica leggermente.
Sono idiozie pure, queste frasi di Caruso. Per due ragioni. La prima è che l'usanza di definire assassini gli avversari politici è una usanza "totalitaria", francamente insopportabile. Esistono gli assassini in politica, sono quelli che ordinano le uccisioni e gli stermini. Bene, sia chiaro: né Biagi, né Treu, e neppure l' odiatissimo Silvio Berlusconi sono assassini. Nessuno ci impedirà di svolgere polemiche ferocissime contro di loro, ma nessuno di loro è Pinochet. Quanto al professor Biagi, era un intellettuale assolutamente non violento, ed è stato ucciso. Chi lo ha ucciso è un assassino, non il professor Biagi.
Seconda ragione: le morti bianche, purtroppo, sono un fenomeno che precede - e di molto, molto tempo - le leggi di Treu e del ministro Maroni (cioè la legge 30 alla quale ha lavorato anche il professor Biagi, che tuttavia non ne è l'autore. Il suo nome viene usato, in una non elegante speculazione politica, da chi vuole ad ogni costo difendere la legge). Le leggi che hanno dato il via libero al precariato sono - credo - pessime leggi, che vanno cambiate dal centrosinistra, e anche per questo abbiamo convocato una manifestazione per il 20 ottobre. Però c'entrano molto poco con il fenomeno degli omicidi bianchi. I quali colpiscono quasi sempre o lavoratori a tempo indeterminato, regolari, o - la maggior parte delle volte - lavoratori clandestini, assunti a due lire da imprenditori senza scrupoli, che sono responsabili, certamente, di concorso in omicidio. Una parte consistente del nostro mondo imprenditoriale, che lucra e aumenta i profitti tenendo bassa la sicurezza sul lavoro, porta una gigantesca responsabilità personale per quelle 1200 morti all'anno. E' chiaro che è così, e che parlare di "casualità", ogni volta che cade un operaio, è una gigantesca ipocrisia, della quale, spesso, anche la stampa è complice. Le fesserie di Caruso certo non ci aiutano nella battaglia per rendere chiare queste cose.
P.S. Siccome Francesco Caruso è stato eletto deputato dal Prc, e siccome questo è il giornale del Prc, ci sentiamo in dovere di porgere le nostre scuse alla moglie e ai figli di Marco Biagi.

il manifesto 10.8.07
Resistenza. Giovanni Pesce si racconta
Giancarlo Bocchi*

Cronaca di un incontro, parlando di Spagna, antifascismo, piazza Fontana
L'occasione del dialogo con l'ultimo garibaldino, il comandante Visone, era il progetto di un film sulla vita di Guido Picelli, ucciso in Spagna dove combatteva per difendere la Repubblica. L'eredità di Pesce

«In combattimento andava avanti dritto, incurante delle pallottole che gli fischiavano intorno. Ci spronava dicendoci: "Avanti! Avanti!". Noi gli dicevamo: "Guido stai attento! Stai giù!" ma lui ci rispondeva: "Io non abbasso la testa davanti ai fascisti"». Così Giovanni Pesce ricordava Guido Picelli, il suo comandante del «Garibaldi» di Spagna che gli aveva insegnato a non abbassare più la testa. L'ultimo dei garibaldini di Spagna, il leggendario comandante partigiano dei Gap (Gruppi d'Azione Patriottica) di Torino e Milano, l'eroe della Resistenza, medaglia d'oro al valor militare se n'andato alcuni giorni fa. Il comandante Visone aveva ottantanove anni.
L'avevo incontrato poco tempo prima a Milano per parlargli del mio progetto di un film sulla vita di Guido Picelli e si era subito reso disponibile. Piccolo, minuto, non aveva l'aspetto dell'eroe, ma una tempra e un carisma eccezionali. Gli occhi intensi, pieni di forza e di vita scintillavano al ricordo della lotta in Spagna. Sembrava ringiovanire nel rivivere le battaglie di Mirabueno e San Cristobal combattute a fianco di una leggenda, il comandante Guido Picelli, l'unico che avesse sconfitto il fascismo sul piano militare durante le barricate di Parma dell' agosto 1922, respingendo, con 400 «Arditi del Popolo», 10 mila fascisti di Italo Balbo.
Le barricate di Parma
«Picelli ci raccontava delle barricate di Parma, del significato di quella lotta e del coraggio di tutto un popolo. Sono passati 70 anni - diceva Pesce - ma ricordo ancora che Picelli ci teneva a raccontare quella battaglia vittoriosa, per dare entusiasmo, coraggio e passione ai combattenti garibaldini». Picelli, autore di innumerevoli imprese contro il fascismo, era caduto il 5 gennaio 1937 durante l'attacco al monte San Cristobal. Pesce era lì vicino. Il fronte antifascista internazionale aveva perso un grande combattente, libertario, democratico, un uomo che tutta la vita aveva teorizzato la politica del Fronte Popolare.
Anche Pesce aveva vissuto una vita «senza tregua». Una definizione che aveva ispirato il titolo del suo libro più famoso. Originario del paese di Visone in Piemonte, da bambino era espatriato con la famiglia in Francia, nel bacino minerario di Grand Combe nella Linguadoca. Aveva scritto in un suo libro: «Per strada vidi i primi minatori. Le loro facce sembravano maschere e si fondevano con il nero degli abiti e dei berretti». Un posto pestilenziale, dove Gino, il fratellino piccolo, era morto quasi subito di polmonite. I minatori si ammalavano e morivano di silicosi o saltavano in aria per l'esplosione delle sacche di grisou. La povertà costringeva i minatori a mettere in vendita i figli nel mercato dei pantalons courts, dove i contadini ingaggiavano bambini sotto i tredici anni per i lavori nei campi. Anche Pesce, mentre il padre era nelle miniere di zolfo algerine, per aiutare la madre era finito a lavorare come guardiano di vacche in montagna. Ma dopo poco, a 13 anni andò in miniera: centinaia di metri sotto terra in mezzo a fango, polvere, con l'aria pregna di grisou. «Ero sicuro che sarei morto di fatica nel giro di pochi mesi». I minatori erano tutti comunisti, cercavano di organizzarsi contro lo sfruttamento e per abbattere la società capitalista.
Una sera, uscito sfinito dalla miniera, Pesce era entrato nella sede del Fronte della Gioventù e s'era iscritto. Quel giorno era iniziato il suo apprendistato di combattente antifascista. L'8 luglio 1936 il messaggio cifrato lanciato da Radio Ceuta - «Cielo sereno in tutta la Spagna» - cambiò la vita di Pesce e di tanti altri antifascisti. Era il segnale della sedizione dei generali capeggiati da Francisco Franco, spalleggiato da Hitler e Mussolini, contro il legittimo governo repubblicano. Il governo francese di Leon Blum si dichiarò neutrale. A Grand Combe i minatori si sollevarono in appoggio alla Spagna democratica, vi furono manifestazioni, comizi. Pesce era in prima fila. Due mesi dopo decise di partire per la Spagna. La madre pianse, tentò inutilmente di fargli cambiare idea. Partì il 17 novembre 1936 con il compagno e amico Carlo Pegolo.
Arrivato in Spagna, essendo troppo giovane per arruolarsi aveva falsificato i documenti per entrare nelle Brigate Internazionali e ad Albacete conobbe Guido Picelli , che addestrava i miliziani del «Battaglione Picelli» del Garibaldi. «Io non parlavo italiano, parlavo solo francese ma Picelli parlava francese. Mi chiamava il Boccia. Mi diceva: "Boccia stai attento", "boccia ascoltami". Picelli aveva un carattere umano, gentile, se un combattente aveva paura, con le sue parole gli dava coraggio».
Pesce ricordava i garibaldini infastiditi dalla disciplina, volevano combattere subito: «Volevano essere antimilitaristi, ma era venuti per fare una guerra, e per fare una guerra dovevano diventare soldati. Ci volle la pazienza di Picelli per trasformarli in miliziani disciplinati. I garibaldini furono trasferiti al Pardo e parteciparono alla difesa di Madrid. Nelle strade la popolazione riconosceva i fazzoletti rossi e gridava: "Viva Garibaldi. Salud companeros"». A Boadilla del Monte, il 17 dicembre 1936, aveva partecipato alla prima battaglia campale, un incubo: «Udivo colpi in partenza, i fischi laceranti e poi gli scoppi. Chi moriva subito faceva impressione, ma non quanto i feriti, molti dei quali urlavano, si trascinavano, tentavano di rimettersi in piedi e subito ricadevano». Pochi giorni dopo il Garibaldi era stato impiegato nella battaglia di Mirabueno. A dirigere l'operazione della XII Brigata Randolfo Pacciardi, a Guido Picelli il comando del battaglione. Ha scritto Pesce nelle sue memorie: «Picelli corre da una parte all'altra per impartire ordini... sembra che le pallottole non ne vogliano sapere di Picelli che come un'anguilla sfugge ai colpi del nemico». Ma dopo pochi giorni, il 5 gennaio 1936, sulle alture del Matoral Guido Picelli fu colpito a morte. «Io ero lì vicino - ricordava Pesce - è stato un dolore molto forte... era molto stimato, molto amato». Picelli ebbe funerali di Stato a Madrid, Valencia e Barcellona. A quest'ultimo avevano partecipato 100 mila persone.
Pesce combatterà per altri due anni: al Jarama, a Guadalajara, a Huesca, a Saragozza, su l'Ebro, ferito tre volte. Per tutta la vita porterà nella schiena le schegge di una granata che l'aveva colpito nella battaglia di Saragozza. Dopo tre anni di guerra era tornato in Francia e nel 1940 era rientrato in Italia. Dopo un mese la polizia segreta fascista l'aveva arrestato. Prima il carcere e poi il confino nell'isola di Ventotene. Pesce non parlava ancora l'italiano, qualcosa aveva imparato nella guerra di Spagna, ma a Ventotene, con l'aiuto di Eugenio Curiel e Alberto Grifone aveva fatto passi avanti. Il confino si trasformò in un'accademia politica di livello. Gli insegnanti erano uomini come Curiel, Terracini, Pertini, Li Causi, Secchia, Di Vittorio, Longo, Frausin, Scoccimarro.
All'alba del 26 luglio era giunto a Ventotene la notizia che il regime fascista era caduto. I confinati non furono liberati subito, Pesce era partito solo il 23 agosto. A pochi giorni dalla liberazione dal confino, ecco l'8 settembre. Pesce aveva deciso di agire e organizzò la prima riunione segreta di antifascisti al Cinema Garibaldi (poteva essere diversamente?) d'Acqui. Aveva vinto le perplessità di alcuni bordighisti attendisti, convincendo i presenti: era venuta l'ora di passare all'azione contro l'occupante nazista. Qualche sera dopo, un nugolo di nazi-fascisti aveva circondato il suo rifugio. Pesce era balzato dalla finestra scalzo, i pantaloni in mano, per dileguarsi nel buio della notte. Era ormai un clandestino. A fine settembre '43 fu convocato a Torino. Luigi Longo, suo comandante in capo in Spagna, aveva assunto il comando delle Brigate d'Assalto Garibaldi.
Pesce fu nominato comandante della Brigata Gap di Torino. Nelle varie città, quasi tutti i comandanti dei Gap provenivano dai garibaldini di Spagna. Ma chi erano i gappisti? Pesce: «Gruppi di patrioti che non diedero mai tregua al nemico: lo colpirono sempre, in ogni circostanza, di giorno, di notte, nelle strade delle città e nel cuore dei fortilizi». Il gruppo di gappisti di Torino era inizialmente composto solo da due persone: Pesce e un ragazzo di 19 anni. Ilio Barontini, il comandante che portò alla vittoria il Garibaldi nella battaglia di Guadalajara, gli aveva insegnò a costruire ordigni esplosivi. Con il nome di battaglia di «Ivaldi», Pesce s'era gettato in imprese temerarie, diventando un incubo per i nazisti. I Gap di Torino protessero gli operai in sciopero, attaccarono comandi nazisti, attuarono decine di azioni. Pesce agiva quasi sempre da solo, armato con due pistole. Erano otto le taglie sulla sua testa. Un giorno, il comando delle Garibaldi gli aveva ordinato di attaccare la stazione radio dell'Eiar che disturbava le trasmissioni di Radio Londra . Una missione rischiosissima. La stazione radio nella brughiera dello Stura saltò in aria, ma Pesce e i suoi 4 gappisti vennero circondati e illuminati con potenti fari. Pesce colpito alla gamba, sotto i colpi di mitraglia, riuscì a caricarsi in spalla il compagno Di Nanni, gravemente ferito, e insieme fuggirono rompendo l'accerchiamento .
Le signorine tritolo
Pesce era stato individuato. Fu trasferito a Milano al comando della III Brigata Gap, subentrando al comandante Rubini, suo compagno della guerra di Spagna, che arrestato e torturato era morto suicida in carcere. Organizzò un gruppo di sabotatori a Rho e iniziò la «guerra dei binari». Prese il nuovo nome di battaglia di «Visone» in omaggio al paese natio. Il suo gruppo, quattro ferrovieri e due staffette, «Sandra» e «Narva» («le signorine tritolo»), fece saltare treni, vagoni, centrali di smistamento, due quadrimotori parcheggiati all'aeroporto di Cinisello. I nazisti cercarono in tutti i modi di sgominare i Gap. Un giorno, Pesce ebbe l'impressione di essere pedinato. Strinse forte il braccio della staffetta che gli aveva appena portato un messaggio. Era Onorina Brambilla, detta «Nori» , nome di battaglia Sandra. «Perché - aveva chiesto Sandra - mi stringi così forte il braccio?». «Ho l'impressione che siamo pedinati. E' meglio comportaci come due innamorati». «Ma lo so - aveva detto Sandra - che non sei innamorato». Quella volta Visone e Sandra furono fortunati. Ma qualche giorno dopo, a causa di una spiata, Sandra, e l' altra staffetta Narva, furono arrestate e torturate dai nazisti per giorni e giorni. Sandra fu deportata nel campo di concentramento di Bolzano.
Per un periodo Pesce aveva dovuto lasciare Milano per Rho per comandare la 106º Brigata Garibaldi Sap. A dicembre 1944 era stato richiamato a Milano per organizzare l'insurrezione generale. Arrivò il 25 aprile, finalmente la Liberazione. Quel giorno Pesce aveva catturato un alto ufficiale tedesco, presuntuoso ed arrogante. Quando gli aveva detto nome e il grado - «Visone, comandante dei Gap» - il tedesco era quasi svenuto. Pesce mi veva accennato anche alla fucilazione di Mussolini: «Non è stato il colonnello Valerio (Walter Audisio) a sparare». Vista la mia curiosità, fece un sorrisetto misterioso e aggiunse solo: «E' stato Aldo Lampredi», un autorevole personaggio del Pci clandestino. Tre mesi dopo la fine della guerra, Pesce aveva sposato Nori, la staffetta Sandra, sopravvissuta al campo di concentramento di Bolzano.
Pesce iniziò a lavorare nel Pci. Erano anni difficili, anni di tensione. Nel 1948 gli era giunta una busta da Roma con la intestazione «Partito comunista italiano - la Direzione». Alcune settimane prima, il 14 luglio, Palmiro Togliatti aveva subìto un attentato. C'erano stati grandi tumulti, prossimi a sfociare nell'insurrezione spontanea. 3450 gli arrestati, i fermati o denunciati 7000. Nella busta partita da Roma c'era la nomina a capo di una commissione del Pci: Pietro Secchia lo incaricava della «commissione Vigilanza». Era responsabile della protezione dei massimi dirigenti del Partito Comunista.
Dopo qualche mese Secchia lo aveva presentato a Togliatti, ristabilitosi dall'attentato. Il «Migliore», che pare non amasse particolarmente gli uomini d'azione del «Vento del Nord», prediligendo gli uomini d'apparato, in quel caso, incontrando Pesce, gli aveva detto ammirato: «ti conosco, ti conosco soprattutto di fama».
Pesce aveva riunito gli uomini più fidati dei Gap, scegliendo come guardia del corpo di Togliatti Tino Azzini della III Gap di Milano, un partigiano coraggiosissimo che aveva resistito per giorni e giorni ai torturatori della Muti. In quel periodo Pesce fu anche incaricato di chiarire alcuni misteri. Mi aveva accennato a un'inchiesta sulla vicenda dell'oro di Dongo: «C'era un personaggio coinvolto. Ho scoperto che era sporco... che aveva nascosto una parte dei soldi nel giardino di casa sua». A metà degli anni Cinquanta, con il sesto senso che lo aveva salvato nella clandestinità, prima aveva sospettato e poi scoperto che stava per accadere qualcosa di poco chiaro nel partito. Informò Togliatti che lo invitò a rivolgersi a Secchia. Vedendo avverarsi i suoi timori, si era dimesso dalla Vigilanza per tornare con la moglie a Milano .
Non chiese nulla a nessuno. Si mise a scrivere il suo primo libro «Un garibaldino in Spagna», che uscì nel 1955, e per sbarcare il lunario diventò rappresentante del caffè Kluzer. Con questa attività riuscì a campare più che bene. Successivamente divenne presidente dei Metropolitani notturni, una cooperativa di guardie giurate che nel 1951 si era trasformata nell'Istituto Città di Milano.
Quel 12 dicembre a Milano
Per Pesce, come per altri comandanti partigiani, non si aprirono le porte del Parlamento o del Senato. Ma per il Paese è stato sempre pronto a rispondere alle trame antidemocratiche. Nel 1967 uscì con Feltrinelli il suo libro più famoso, «Senza tregua», letto dagli studenti del movimento ma anche dai teorici delle lotta armata, malgrado l'autore fosse totalmente contro la deriva terroristica. Furono anni terribili. Il 12 dicembre 1969, Pesce sentì un tuono lontano, un colpo secco, un'esplosione. Capì subito di cosa si trattasse. Dalla zona della stazione centrale si precipitò in centro. Riuscì a superare i cordoni di polizia a Piazza Fontana: «Nella mia non breve vita sono stato in guerra più di una volta e ho partecipato a parecchie tremende battaglie, ma mai avevo osservato uno spettacolo tanto terribile: corpi insanguinati, brandelli di carne disarticolati. Tornai nella strada non riuscendo a reggere quella vista».
In quegli anni guardò con simpatia ai movimenti, soprattutto a quello degli studenti. Fu sempre in prima fila a sostenere le ragioni della libertà e della democrazia. Un giorno di giugno del 1972 si era recato alla Statale per presiedere un dibattito. «Avevo detto solo alcune frasi ed ecco la polizia irrompere con i manganelli, con i gas lacrimogeni. Una baraonda, un caos, feriti». Aveva affrontato la polizia per mettere fine all'aggressione. Per fortuna era stato riconosciuto da un ufficiale: «Quello è Pesce, la medaglia d'oro. Lasciatelo passare». Il questore Bonanno si era scusato. L'anno dopo, mentre partecipava alla Bocconi a un'assemblea degli studenti per il Vietnam e la resistenza palestinese, sentì i botti dei lacrimogeni seguiti da spari di pistola. Vide uno studente cadere. Si chiamava Roberto Franceschi. I soccorsi dei compagni furono inutili, Franceschi aveva la testa devastata da un proiettile della polizia.
In quegli anni avvenimenti sanguinosi, misteriosi si susseguirono senza sosta. Pesce sapeva che si stava ancora combattendo. Era un guerra sotto altre forme, ma pur sempre una guerra. Durante il nostro incontro, sulla faccia di Pesce si era disegnato un sorriso stanco, poi preoccupato. Era tardi. Nori lo aspettava a casa. Mentre uscivano dalla sede della associazione dei combattenti volontari di Spagna, Pesce aveva lamentato dolori alla schiena. Le schegge della granata di Saragozza erano state tolte un anno prima, ma le antiche ferite gli procuravano nuovi dolori. Mi aveva salutato stringendomi la mano con forza. Aveva detto ancora una volta: «Picelli», con uno sguardo attento e il sorriso triste.
Oggi che gli anni del piano Solo, della strategia della tensione, delle stragi, dei progetti golpisti di Junio Valerio Borghese, dei militari felloni e della Rosa dei Venti, delle trame Sifar e Sid, dei piani di enucleazione dei politici di sinistra da rinchiudere alle Eolie o a Ponza, di Gladio, delle trame dell'Ufficio Affari Riservati degli Interni e delle strumentalizzazioni e manipolazioni di certi gruppi sembrano superati, bisogna rivolgere un riconoscente pensiero a Giovanni Pesce e a tutti quelli che come lui hanno vigilato durante il difficile dopoguerra per proteggere la democrazia in questo paese. «Tocca ai giovani continuare sulla strada maestra, ai giovani continuare la Resistenza», diceva Giovanni pesce, il comandante Visone.

*Regista

l’Unità 10.8.07
Piccoli contro Sarkozy: «Estremista di destra»
di Lorenzo Buccella

L’attore francese è al festival svizzero come protagonista di un film del regista curdo Saleem e per ricevere un premio alla carriera. E da qui si scaglia contro il neopresidente e contro la televisione

Locarno. «Sarkozy? Non è un uomo intelligente, ma furbo sì, un vero e proprio estremista di destra che fa di tutto per nascondere la sua natura, anche se credo che non ci riuscirà ancora per molto». Il ritratto lapidario e sulfureo, con annessa la cornice di stupidità attribuita a chi è andato a votare il nuovo presidente francese alle recenti urne, arriva da uno dei più grandi attori del cinema europeo come Michel Piccoli, convogliato ieri a Locarno attraverso la «rifrazione» di una doppia pista. Da una parte, quel presente che lo vede protagonista-mattatore del nuovo film del regista curdo Hiner Saleem Sous les toits de Paris, passato ieri tra le maglie del concorso con il tocco rarefatto di una pellicola «muta», vestita com’è sull’anziana fisicità del suo interprete. Dall’altra, e siamo nella parte più istituzionale, l’occasione in grande stile per un omaggio alla carriera, ovvero quell’Excellence Award con cui il festival va a gratificare i grandi attori del cinema. E Piccoli è senz’altro uno di questi, vivace come sempre ad affrontare qualsiasi argomento gli capiti a tiro con quella consueta ironia caustica che lo porta per un momento a equiparare italiani e francesi. «Sì, se abbiamo eletto Sarkozy, vuol dire che i francesi sono andati fuori di testa proprio come gli italiani con Berlusconi». Incipit, questo, di uno sguardo che torna spesso verso il nostro paese, in virtù dei legami contratti in passato con autori come Marco Ferreri (Dillinger è morto 1969, La grande abbuffata 1973). «Ferreri è forse la persona che più mi manca come regista e amico, uno dei pochi che sapeva indagare i rapporti tra uomo e donna con una libertà tanto provocatoria da rompere ogni schema convenzionale. È proprio ripensando al suo esempio e a quello di altri maestri, che adesso provo una grande tristezza nel vedere la condizione del cinema italiano di oggi, ormai diventato altra cosa. Forse sono state talmente forti le generazioni dei vari Fellini e Antonioni che inevitabilmente lo scarto contemporaneo risulta così prepotente. O forse è tutta colpa di Berlusconi…». Anche perché se c’è un «nemico pubblico» contro cui scagliarsi, Piccoli lo trova pienamente nella televisione. «La televisione ormai esercita su di noi una dittatura a livello creativo così come a quello politico ed economico. Fa propaganda, veicola i peggiori modelli, impone consumi e costumi, e, non da ultimo, uccide il cinema. Ovunque il fatto che il cinema dipenda dalla televisione per i finanziamenti fa sì che gli autori si debbano autocensurare e mortificare, piegando la schiena davanti agli stereotipi del formato richiesto». E quindi, strada libera solo ad attori giovani e bellocci e in pensione la vecchia guardia. Tutto per una volontà di piacere al grande pubblico che non è poi tanto diversa dalla volontà più generale di un «rincoglionire». «Ormai il terrorismo culturale - precisa Piccoli - prodotto dal piccolo schermo ha cambiato anche il modo di parlare. Una volta si esclamava "il Signore ha detto", ora invece il nuovo intercalare "religioso" si è trasformato in un "l’hanno detto in tivù". E non è un caso, dunque, se il grande cinema di oggi non venga più realizzato nella vecchia Europa, ma affiori dalle terre lontane di Cina, Corea e Iran. Proprio là dove s’incontrano ancora registi che hanno voglia di scoprire e mostrare i meandri più segreti della vita. Tutti film che, a parte nei festival, da noi si vedono poco o niente perché soggetti al pregiudizio che la nostra platea televisiva non capisca il loro mondo. Forse bisognerà aspettare che muoiano i vari Hou Hsiao-Hsien per poter dire "c’era una volta il grande cinema di…", esattamente come si è fatto con Fellini e Bunuel».

l’Unità 10.8.07
Linneo, lo scienziato che sfidò il colonialismo
di Franco Farinelli

Terzo centenario della nascita del naturalista, la cui fama è legata al sistema di classificazione. Ma, con gli occhi di oggi, i suoi studi ci dicono di più: in un’epoca di ideologia di rapina, sognava una Svezia che auto-producesse perle e cannella

Per lui i bisogni umani potevano conciliarsi col mondo naturale
Un pensiero opposto alle teorie di Smith e dei mercantilisti

La sua nomenclatura in base alla forma degli organi sessuali fece scandalo. Kant invececriticò la sua «economia della natura»

Spiegava Matisse ai giovani artisti che per apprendere qualcosa da un maestro bisognava studiare i suoi fallimenti e i suoi tentativi, non i successi e le riuscite. La stessa cosa sosteneva, in fondo, Alexandre Koyré nel negare ogni validità, nella storiografia scientifica, all’idea di «precursore»: indicare qualcuno come tale rispetto a qualcun altro comporta inevitabilmente l’impossibilità di comprendere ambedue. Ne consegue che la migliore e più efficace valutazione del ruolo e della funzione di uno scienziato dipende prima d’altro dall’intelligenza di quelli che oggi sembrano i suoi errori e dalla spiegazione del perché non ha scoperto quello che pure avrebbe potuto: soltanto in tal modo, paradossalmente, può emergere la sua attualità, l’interesse e l’utilità ai giorni nostri di quel che a suo tempo ha scritto e ha fatto. Com’è il caso di Linneo, il celebre naturalista svedese di cui ricorre quest’anno il terzo centenario della nascita e che tutto il mondo occidentale in queste settimane festeggia.
Ancora adesso la fama di Linneo resta legata all’uso della nomenclatura binomiale, alla pratica di designare le specie della flora e della fauna con un codice formato da due parole in grado di indicarne il posto all’interno di una gerarchia, il nome del genere e l’attributo della specie, sicché ad esempio il comune orzo diventa, per distinguerlo dalle altre varietà, Hordeum vulgare. Anche le nuove forme di vita, più o meno chimeriche, che ogni giorno s’inventano nei laboratori di genetica vengono etichettate in questa maniera, secondo una tecnica che non ha mai smesso di essere funzionale, e che dipende da un’idea molto semplice, dalla riduzione dello spazio riempito di cose terrestri (come dicevano i geografi tedeschi) ad un’unica mappa, anzi alla mappa politica della Terra stessa - sorprenderà qualcuno apprendere che ancora nel Settecento di nessun paese esistevano carte soltanto fisiche ma ogni rappresentazione cartografica, diretta emanazione del potere esistente, riproduceva anzitutto il volto di quest’ultimo, sicché ogni mappa delineava prima d’altro i confini degli stati aristocratici: la carta fisica cioè spoglia di ogni elemento che non fosse naturale, quella su cui per prima a scuola abbiamo appreso da piccoli la geografia, è stata la faticosa conquista ottocentesca, scientifica ed insieme politica, delle borghesie nazionali. Nella sua più importante opera teorica, la Philosophia Botanica del 1751, Linneo non potrebbe essere più perentorio e preciso: i cinque livelli in cui si articola il proprio sistema di classificazione (le classi, gli ordini, i generi, le specie, le varietà) altro non sono che la traduzione, termine a termine, del sistema amministrativo dei primi stati moderni così come raffigurato sulle mappe, dove ogni formazione politica appariva suddivisa in cinque ambiti via via più ristretti, vale a dire il regno, la provincia, il territorio, il circondario, il villaggio.
Così il sistema di Linneo rivela in controluce tutte le caratteristiche della logica cartografica da cui immediatamente deriva, come una specie di consapevole e ragionata esplicitazione: 1) tutti i nomi sono nomi propri, come soltanto su di una mappa può accadere, e questo in un’epoca e in un paese in cui i nomi propri delle persone erano ancora quasi soltanto dei patronimici come ad esempio Pietro (figlio) di Giovanni e gli equivoci erano perciò normali, sicché la nomenclatura degli esseri umani non poteva costituire il modello perché lo stesso nome veniva riferito ad individui diversi; 2) il procedimento è dicotomico cioè binario (o A o B, o qui o là), come accade soltanto al segno grafico su una carta, dove esso o c’è o non c’è. L’efficacia di tale sistema, pensato come universale, e dunque il suo successo, riposava sulla sua semplicità e praticità, sulla forma antiretorica della sua retorica. Anche per tal motivo non mancarono critiche, sebbene già alla metà del secolo Linneo fosse generalmente riconosciuto in tutta Europa come il più grande botanico mai esistito. Non mancò chi lo accusò di immoralità, poiché il criterio di distinzione dei vegetali riguardava la forma dell’organo sessuale. Altri ritennero impossibile la messa a punto di un ordine uniforme e pronto all’uso relativo alla straordinaria diversità dei lineamenti terrestri, e se per caso possibile comunque non comunicabile ad altri. La critica più sottile e ficcante gliela rivolse per anni, all’inizio delle sue lezioni di geografia, Emanuele Kant, in modo allusivo ma non per questo meno preciso. Per Kant, che a Linneo in ogni caso fin dall’inizio fa tanto di cappello, esistono due tipi di classificazione, logica o fisica. La prima, appunto quella della «grande economia della natura» di marca linneana, è come un registro o un inventario di cose isolate, cioè deportate dal loro contesto e artificialmente raggruppate secondo il principio della somiglianza o dell’affinità (nel caso particolare: forme simili dell’apparato di riproduzione) in un sistema, al cui interno possono trovarsi piante che sulla Terra crescono agli antipodi, l’una poniamo nei deserti caldi e l’altra nella semicongelata tundra artica. Kant non contesta affatto che debba essere questo il metodo della classificazione scientifica: esso ha prevalso, e sta bene così. Però egli avanza un’altra possibilità, quella appunto della classificazione fisica che è dei saperi come la storia e la geografia e non delle scienze, e che «segue nella descrizione delle parti le leggi e l’ ordine della Natura stessa», cioè «rappresenta le cose naturali secondo il luogo della loro nascita, o i luoghi sui quali la natura le ha collocate»: insomma, così come davvero esse esistono l’una accanto all’altra. Si prenda ad esempio, per fare prima, la macchia mediterranea: le sue essenze, gli arbusti e gli alberi di cui si compone, appartengono secondo il sistema botanico, la cui logica è ancora quella di Linneo, a classi, ordini eccetera differenti; ma secondo la classificazione pensata da Kant dovrebbero formare un’unica famiglia, perché di fatto vivono insieme.
Ne va, come si comprende, di una questione decisiva, della ragione della differenza tra la visione scientifica del mondo e quella che invece abbiamo al mattino spalancando la finestra, quella della gente che scienziata non è. Ma adesso importa altro. Il riserbo di Kant, il suo limitarsi a porre il problema, risentiva della centralità nel pensiero di Linneo di una convinzione fondamentale e che giustificava l’intero suo studio: che tutte le piante o quasi fossero globalmente adattabili, che dunque quelle del Mediterraneo e dei Tropici potessero acclimatarsi, con il tempo e le cure, nelle zone boreali. Davvero Linneo credeva che le coste del Baltico, la Finlandia, la Lapponia potessero un giorno coprirsi di piantagioni di tè, di campi di riso, foreste di cedro, distese di zafferano- che dunque ogni pianta potesse stare vicino a qualsiasi altra. E credeva questo perché convinto, a differenza dei mercantilisti e di Adam Smith, che la grandezza dell’economia globale fosse statica, il commercio e in genere il terziario qualcosa di superfluo anzi parassitico, che il gioco economico fosse in fin dei conti a somma zero e che in ogni caso esso non consisteva nell’efficiente allocazione di risorse scarse a fronte di una domanda infinita bensì nella conciliazione, tecnologicamente avanzata, dei bisogni umani con il mondo naturale. Perciò invece di suggerire al proprio paese la conquista di un impero transoceanico, sull’esempio delle altre potenze coloniali come l’Olanda e l’Inghilterra, egli convinse la corte, il parlamento, le università e la società svedesi della bontà e della fattibilità del processo esattamente inverso: coltivare in Svezia le piante asiatiche e americane, e anche le perle, sostituendo in tal modo le importazioni con la produzione domestica. Invece di proiettare una piccolissima parte della Terra sulla Terra intera, si trattava di fare il contrario, far entrare la seconda dentro la prima. Naturalmente (e su questo avverbio vi sarebbe da riflettere) non funzionò, e una dozzina d’anni dopo la morte di Linneo, avvenuta nel 1778, anche la Svezia si convertì all’imperialismo economico. Proprio perché già sentiva l’odore dei boschetti di cannella lappone Linneo non perse tempo ad approfondire quel che aveva per primo compreso (i meccanismi dell’interdipendenza tra le specie, come riconobbe Darwin), pensato (la lotta integrata, vale a dire la distruzione degli insetti nocivi alle piante attraverso altri insetti), scoperto (la dendrocronologia, cioè il fatto che gli anelli interni alle piante registrano l’età dell’individuo e i modelli d’evoluzione del clima). Ma questo soltanto perché il problema di Linneo era esattamente quello che oggi abbiamo di fronte, e richiede con urgenza una soluzione: la mediazione tra la sfera economica del globale e quella del locale. La risposta di Linneo fu il tentativo di costruzione di una modernità al cui interno il primo fosse per così dire sottomesso al secondo, contenuto in esso, all’opposto di quel che poi di fatto avvenne. Celebrare oggi la sua opera vuol dire anzitutto ricordare che, comunque, nel passato le cose sarebbero potuto andare diversamente, e che bisogna sempre pensare possibilità opposte a quel che sembra assodato: oggi che i progressi della genetica rendono molto più plausibile pensare la convivenza tra renne e cannella e abbiamo il disperato bisogno di pensare che le cose in futuro potranno andare in un altro modo, che un altro mondo è ancora possibile. La storia è una grande improvvisatrice, insegnava Cinzio Violante. Figuriamoci la geografia.