sabato 25 agosto 2007

Ansa 25.8.07
Il cervello non riposa, sempre acceso

ROMA - Altro che relax: anche quando ci si riposa e si chiudono gli occhi per non pensare a niente, nel silenzio, il cervello non ne vuol sapere di riposarsi e continua a lavorare instancabile. Anche in mancanza di stimoli esterni, il cervello mantiene spontaneamente reti neurali simili a quelle osservate durante comportamenti attivi, come vedere, muoversi o ricordare.
Lo ha scoperto il gruppo dell'Istituto di Tecnologie Biomediche Avanzate (Itab) dell'università D'Annunzio di Chieti, coordinato dal fisico Gian Luca Romani, in collaborazione con il neurologo Maurizio Corbetta, della Washington University di St. Louis, nella ricerca pubblicata on line sulla rivista dell'Accademia delle Scienze degli Stati Uniti (Pnas). Lo studio è stato condotto nell'ambito del progetto di neuroscienze finanziato tramite il programma "Marie Curie" della Commissione Europea. "Per molti anni - osserva Corbetta - si è ritenuto che l'attività cerebrale fosse dominata dagli stimoli esterni, azioni e pensieri, e che in assenza di queste stimolazioni non ci fosse altro che un rumore di fondo, simile a quello che compare nella tv quando non ci sono più programmi".
Ma il nuovo studio dimostra che quello che veniva considerato rumore di fondo privo di significato non è affatto tale ed è invece un'attività altamente organizzata e funzionalmente importante. Per riconoscerla sono state decisive le immagini dell'attività cerebrale ottenute per mezzo della risonanza magnetica funzionale (fMri) confrontate con quelle ottenute contemporaneamente per mezzo dell'elettroencefalogramma (Eeg). La ricerca è stata condotta all'Itab di Chieti su 15 volontari sani mentre erano a riposo e con gli occhi chiusi.
Si è scoperto così che "a ogni rete identificata con la risonanza magnetica corrisponde una specifica 'firma' neurale, una sorta di codice che nasce dalla combinazione di ritmi cerebrali diversi", spiega il primo autore del lavoro, Dante Mantini dell'Itab. "Per la prima volta - prosegue Corbetta - abbiamo dimostrato che queste reti riflettono l'attività di gruppi di aree cerebrali che continuano a comunicare fra loro anche nello stato di riposo".
A che cosa serve tutto questo lavoro? "Una prima possibilità - spiega l'esperto - è che aree cerebrali diverse, connesse anatomicamente, continuano a oscillare insieme anche fisiologicamente. La seconda possibilità, non esclusiva, é che queste onde di oscillazione mantengono una memoria dell'attivazione pregressa di questi circuiti durante il comportamento, e che questa memoria serve a predire e anticipare eventi ed azioni future". Se tutto questo riguarda la conoscenza del modo in cui funziona il cervello sano, i ricercatori ritengono che in futuro le caratteristiche delle reti neurali potranno permettere di studiare le alterazioni provocate da lesioni focali dovute a ictus o tumori, oppure a malattie degenerative come l'Alzheimer. "Una lesione che colpisce una determinata area cerebrale - osserva Corbetta - ha effetti a distanza su altre aree del cervello, e interferisce con la loro normale attività. Questo concetto è critico per comprendere meglio gli effetti di una lesione, e per pianificare una riabilitazione efficace". In pratica, potrebbe diventare possibile misurare non solo gli effetti strutturali di una lesione, come oggi accade, ma anche l'impatto funzionale di questa sull'attività cerebrale.

l’Unità 25.8.07
Sacco e Vanzetti, 80 anni non invano
di Massimo Franchi

Il boia abbassò l'interruttore alle ore 0,19 per Nicola Sacco. Sette minuti dopo per Bartolomeo Vanzetti. Nella prigione di Charlestown (Massachusetts) la sedia elettrica funzionò perfettamente e i due italiani (Sacco era nato nel foggiano, Vanzetti nel cuneese) furono giustiziati il 23 agosto 1927.
Sono passati 80 anni e il ricordo di quella esecuzione di due innocenti colpevoli solo di essere anarchici è ancora viva. Sacco e Vanzetti sono diventati il simbolo della lotta alle ingiustizie, prima fra tutte la pena capitale.
I due emigrati italiani erano accusati di aver preso parte ad una rapina uccidendo un cassiere e una guardia del calzaturificio "Slater and Morrill" a South Baintree, sobborgo di Boston. Nonostante le prove evidenti della loro innocenza e la confessione del detenuto portoricano Celestino Madeiros, che scagionava.
Bartolomeo Vanzetti era nato nel 1888 a Villafalletto, in provincia di Cuneo. Figlio di un agricoltore, a vent'anni entra in contatto con le idee socialiste e, dopo la morte della madre Giovanna, decise di partire per il "Nuovomondo", a caccia di una vita migliore come tanti italiani all'alba del Novecento.
Come Nicola Sacco, più vecchio di Vanzetti di tre anni, nato il 27 aprile 1891 a Torremaggiore (Foggia), che arrivato in America nel 1908 fece l'operaio alla Slatter.
I due si conosco nel maggio 1916 a Boston in una riunione di anarchici. Insieme ad altri militanti scappano in Messico per evitare di essere arruolati. Tornano nel Massachusetts a settembre e iniziano a scrivere per "Cronaca sovversiva", giornale anarchico. Da allora, Nick e Bart, come vengono soprannominati oltreoceano, diventano inseparabili.
La lotta agli anarchici da parte della polizia è fortissima. Molti amici di Sacco e Vanzetti vengono arrestati e i due pensano anche di tornare in Italia per fuggire alla persecuzione. Il 5 maggio 1920 vengono arrestati perché nei loro cappotti nascondevano volantini anarchici e alcune armi. Tre giorni dopo i due vengono accusati anche della rapina al calzaturificio, avvenuta poche settimane prima.
Dopo tre processi pieni di errori e incongruenze, Sacco e Vanzetti vengono condannati a morte nel 1921. A nulla valse neppure la mobilitazione della stampa, la creazione di comitati per la liberazione degli innocenti e gli appelli più volte lanciati dall'Italia.
Il verdetto fu fortemente condizionato dal clima da caccia alle streghe contro gli anarchici che in quel momenti caratterizzava gli Stati uniti e da un evidente sentimento razzista nei confronti degli immigrati italiani. Contro l'esecuzione di Sacco e Vanzetti si mobilitarono non solo gli italiani d'America, ma anche intellettuali in tutto il mondo, tra i quali Bertrand Russel, George Bernard Shaw e John Dos Passos.
«Mai vivendo l'intera esistenza avremmo potuto sperare di fare così tanto per la tolleranza, la giustizia, la mutua comprensione fra gli uomini». Così Bartolomeo Vanzetti si rivolse alla giuria che lo condannò alla pena di morte. La stessa frase sarà detta da Gian Maria Volontà in uno dei momenti più toccanti del film "Sacco e Vanzetti" di Giuliano Montalto del 1971. Una pellicola divenuta presto un cult grazie anche alla colonna sonora di Ennio Morricone, interpretata da Joan Baez, autrice dei testi. «Voi restate nella nostra memoria con la vostra agonia che diventa vittoria»: sono le parole di "Here's to you" che, insieme alla "Ballata per Sacco e Vanzetti", è entrata nel repertorio internazionale della canzone d'autore sollevando le coscienze negli Usa su un caso da molti dimenticato.
Il loro caso non solo smosse le coscienze degli uomini dell'epoca, ma come un fantasma continuò ad agitare l'America per decenni. Finché nel 1977, cinquant'anni dopo la loro morte, il governatore del Massachusetts Michael Dukakis (riparando parzialmente all'errore del suo predecessore Fuller, che nonostante gli appelli non fermo il boia) riconobbe in un documento ufficiale gli errori commessi nel processo e riabilitò completamente la memoria di Sacco e Vanzetti.
La loro figura, anche alla luce del rinnovato impegno italiano nella campagna contro la pena capitale, torna alla ribalta. L'ottantesimo anniversario dell'esecuzione verrà ricordato il 23 agosto a Torremaggiore (Foggia), la città d'origine di Sacco nel cui cimitero sono custodite le ceneri dei due italiani, attraverso una serie di manifestazioni e la costituzione di un'associazione che porta il loro nome.
L'associazione sarà animata da Fernanda Sacco, nipote di Nicola Sacco, che da anni è impegnata nella valorizzazione del messaggio contro la pena di morte lanciato dal sacrificio dei due anarchici. Nonostante i 75 anni, Fernanda è arzilla e continua a girare le scuole per tramandare la storia di quel suo famigliare così particolare e impegnarsi nella battaglia contro la pena di morte.
Il Quirinale, in una lettera indirizzata all'associazione Sacco e Vanzetti e da essa resa nota, ha trasmesso «l'apprezzamento» del presidente della repubblica Giorgio Napolitano per l'iniziativa che, «nel tenere viva la memoria dei due emigranti italiani, intende contribuire al movimento per l'abolizione della pena di morte, tappa fondamentale per la difesa dei diritti umani, sulla quale si è di recente registrato l'unanime consenso dell'Unione europea».
A San Biagio della Cima, paese in provincia di Imperia, giovedì 23 alle 17 intitolerà la nuova piazza del Comune a Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Al termine della cerimonia seguirà il dibattito: "Pena di morte, a quando la moratoria Internazionale?" al quale parteciperanno membri di associazioni e del mondo della cultura.

l’Unità 25.8.07
«Quand’ero molto giovane ho scoperto nella classe lavoratrice una straordinaria voglia di conoscenza e di libertà, ho trovato un bisogno straordinario di diventare persone libere. Questo spiega anche la grande fierezza che risorge continuamente nel mondo del lavoro in tutti i continenti, in tutti i Paesi. Da qui è nata la voglia di mettermi al servizio di questa causa».

Bruno Trentin, incontro con gli studenti,
30 marzo 1998

l'Unità 25.8.07
Inchiesta/4
Risalgono agli anni 70 le radici della crisi di oggi

di Gianfranco Pasquino

Come eravamo/4. Negli anni 2000, dominati dal Berlusconi rampante, forte è stata la tentazione conservatrice. Tanto che se è riuscito il referendum costituzionale, è difficile ora varare la legge elettorale. E alcune riforme prima demonizzate, il federalismo e il premierato, si riaffacciano nel programma di Veltroni

La riflessione sull'ultimo incompiuto decennio deve andare per spizzichi. La persistenza di alcune tematiche - le istituzioni, la legge elettorale, il bipolarismo, il sistema dei partiti - segnala, purtroppo, che poco si muove, forse male, anzi, in qualche caso, verso il peggio. È giusto cominciare da Berlusconi poiché il primo quinquennio è stato dominato dal suo governo. Il Cavaliere dell'antipolitica, certamente non un profondo conoscitore delle istituzioni che, comunque, a giudicare dalle sue esternazioni e dalle sue letture, non sono il forte neppure di Romano Prodi, dopo avere dichiarato «le majoritaire c'est moi!» e avere abborracciato una riforma costituzionale riguardante quasi la metà dei 138 articoli, ha acconsentito a ritornare ad una legge elettorale proporzionale, appena temperata da un mal congegnato e peggio assegnato premio di maggioranza. Forse non poteva fare altrimenti dovendo mettere insieme le richieste anche contrastanti dei suoi alleati di governo, ma, alla fine, ha ceduto anche all'Udc concedendogli una legge elettorale che avrebbe quasi dell'incredibile, se non fosse che il centro-sinistra sembra non essere in grado di cambiarla. Fra troppi centro-sinistri, adesso, si trova addirittura chi vaneggia di un «modello all'italiana», non troppo dissimile dalla legge vigente, e chi si esercita in maniera alquanto rétro nella critica al nuovo, meritorio e rivelatore referendum elettorale, che rappresenta quasi una cartina di tornasole per i conservatori istituzionali.
Molti degli antireferendari, una sorta di triste brigata all'insegna del «come eravamo» quindici anni fa, déjà vu, già anche sentiti e già fin troppo letti, sono stati incentivati a mettersi insieme da alcune dogmatiche motivazioni a fondamento del referendum costituzionale che ha debitamente cancellato nel giugno 2006 gli sbreghi della Casa delle Libertà. Ma hanno dimenticato che alcune di quelle riformette erano state variamente agitate da loro esponenti tanto che sono riuscite, nel frattempo, come per quel che riguarda il rafforzamento dei poteri del Primo Ministro e per un federalismo senza basi culturali, politiche e sociali, a fare la loro inopinata ricomparsa nel decalogo istituzionale del candidato Veltroni. Si ha l'impressione di un ritorno alla strategia istituzionale di Craxi che, però, intendeva, almeno inizialmente, utilizzarla per sbloccare il sistema politico.
Cosicché ci si ritrova, alquanto invecchiati, ma non per questo meno vigili, schiacciati, da una parte, dalla Grande Riforma che non si fa, per timore sull'incertezza degli esiti particolaristici e per il rischio di doversi rinnovare davvero; dall'altra, dall'esclusivo rafforzamento dei poteri del Primo ministro come se lì si trovassero i problemi italiani di governo e di rappresentanza e come se potesse essere e, altrove, nelle democrazie europee, fosse qualcosa che producono le norme costituzionali e non invece la conseguenza di una effettiva ristrutturazione del sistema dei partiti e delle capacità e delle qualità, anche personali, dei capi di governo.
Riprodottasi nel 2006, sotto gli sguardi attoniti del resto dell'Europa, la competizione fra gli stessi protagonisti del 1996 - ovviamente dieci anni più anziani e, come conseguenza naturale, anche i più vecchi governanti e sfidanti rimasti nelle democrazie europee, ma proprio per questo molto rappresentativi della loro popolazione - l'Unione riuscì a vincere di pochissimo. Il margine minimo della vittoria non è affatto da attribuire alla pessima legge elettorale (alibi banale, infondato, non credibile per quanto troppo spesso pappagallescamente recitato), ma più correttamente al numero dei voti ottenuti che, rispetto a credibili previsioni, la sciagurata campagna elettorale degli Unionisti fece raggrinzire. Eppure, il trampolino di lancio delle primarie, prima volute, poi rientrate, infine tenute, ma quasi come regolamento interno di conti, con quei quattro milioni di elettori che, saggiamente, il 16 ottobre 2005 si attivarono per dare un bello spintone ai loro non proprio fiduciosissimi dirigenti, era stato davvero rassicurante, anzi, promettente. Vale a dire che prometteva che, se fossero state loro offerte altre opportunità, gli elettori dell'Unione si sarebbero dimostrati altrettanto pronti e disponibili a sfruttarle sostenendo la loro coalizione, i partiti, i candidati.
Invece, mentre Berlusconi tornava d'impeto a sfruttare le sue innegabili capacità di protagonista delle campagne elettorali, di rappresentante autentico dell'antipolitica, di genuino, gioioso e gaudente populista, i dirigenti dell'Unione preferirono affidare la scelta delle candidature parlamentari, non a consultazioni primarie che avrebbero prodotto informazione, creato coinvolgimento, incentivato una partecipazione influente, ma alle classiche procedure burocratiche e verticistiche, che sono quelle a loro più note, da loro frequentate da tempo immemorabile e, certamente, quelle preferite.
Le innegabili difficoltà del governo Prodi, la consapevolezza che il consenso dei due maggiori partiti dell'Unione sembra bloccato, la necessità di sperimentare qualcosa di nuovo ha prodotto l'accelerazione del percorso verso il Partito Democratico, certamente non dotato del fascino di un Ulivo allargato, anche perché non lo è. Qualcosa di meglio e, quasi certamente, di più si sarebbe potuto ottenere già dieci anni prima, se qualcuno, magari lo stesso Presidente del Consiglio, Romano Prodi con i suoi collaboratori, avesse insistito sull'attuazione di un'importante indicazione contenuta nel Programma dell'Ulivo: «convenzioni di collegio» nelle quali gli eletti sarebbero tornati a spiegare ai cittadini il fatto, il non fatto e il misfatto e a ascoltare le loro opinioni, le loro valutazioni, i loro suggerimenti, costruendo quell'azione politica continua e duratura che i partiti italiani non sanno più in nessun modo praticare.
Non è questo né il luogo né, ancor meno, il tempo nel quale addentrarci nell'esplorazione delle potenzialità e delle contraddizioni del Partito Democratico. Quello che si può dire con certezza e che si può criticare con amarezza, è che le lezioni del passato non sono state apprese e che i problemi reali che fecero la loro comparsa negli anni ‘70 nel sistema politico italiano rimangono tutti con noi - probabilmente anche perché quasi tutti i politici che contano, ad eccezione di Berlusconi e di Prodi, entrarono in politica, si addestrarono e si temprarono proprio negli anni ‘70. Il bipolarismo italiano è sgangherato, ma la soluzione non sta né in un multipolarismo che ricondurrebbe a governi imperniati sul centro, simili al pentapartito, ma non più restringibili a cinque soli partiti. Non sta neppure in un bipolarismo mite, le cui implicazioni mi sfuggono; ma in un bipolarismo flessibile perché competitivo (chi perde esce dal teatrino della politica), e competitivo proprio perché flessibile (le alleanze possono essere cambiate poiché cambiano i problemi).
Le istituzioni attendono di essere riformate, non in maniera opportunistica, vale a dire valutando con bilancini i vantaggi particolaristici, ma in maniera sistemica, vale a dire, facendo quelle riforme che consentano di portare il sistema politico italiano a pieno titolo fra le democrazie europee. Infine, il sistema partitico deve essere totalmente ristrutturato, non attraverso fusioni (e cooptazioni), più o meno burocratiche e verticistiche, come giustamente paventa Pierluigi Bersani, ma come conseguenza di un sistema elettorale che, opportunamente maggioritario, saprebbe premiare e punire, partiti e candidati, e non si limiterebbe a fotografare la frammentazione e a salvare i nanetti, come fanno quasi tutte le varianti della proporzionale.
In un paese dove l'antipolitica continua ad essere tanto radicata e diffusa da legittimare l'attesa di un uomo forte, non un dittatore, ma un decisore, che si vorrebbe svincolato dall'asfissiante mediazione partitica e capace di assumersi le sue responsabilità, dovrebbe essere un impegno ineludibile per i governanti di centro-sinistra quello di ricostruire la dignità della politica e di ricondurla pazientemente e tenacemente al suo compito di formulare regole e farle osservare, nel «pluralismo e nell'imparzialità dell'informazione» (dal messaggio di Ciampi al Parlamento che spiegava che cosa non era accettabile nella legge Gasparri). Per fortuna, dall'alto del Quirinale, un politico di professione come il Presidente Giorgio Napolitano dimostra che comportamenti migliori, politicamente efficaci e rispettosi della Costituzione corretti, sono possibili e non passano per imprecisati rinnovamenti generazionali, ma attraverso la coerenza e la competenza. Tuttavia, nessun arbitro, neppure il più abile e il più profondo conoscitore delle regole del gioco, può cambiare quelle regole e neppure può supplire all'inadeguatezza e all'opportunismo dei giocatori.
4 - Fine. Gli articoli precedenti sono stati pubblicati il 14, il 19 e 20 agosto


il manifesto 25.8.07
Cina. L'altra metà del cielo si suicida più dei maschi cinesi
Pechino rende note le stime (edulcorate) dei suicidi: 280 mila, 25 ogni 100 mila abitanti contro i 15 della media mondiale
M.Ca.

La Cina ha il primato dei suicidi. Ieri il China Daily, quotidiano semi-ufficiale, ha pubblicato le statistiche ufficiali. Secondo il ministero della sanità in un anno 280 mila cinesi si danno la morte. Una cifra enorme. E per forza, dirà il cinico di turno, i cinesi sono un miliardo e 300 milioni e dunque... E invece no, anche in rapporto alla popolazione la Cina mantiene il suo primato. 25 suicidi ogni 100 mila abitanti, contro una media mondiale di 15 ogni 100 mila abitanti. Inoltre, è fondato il sospetto che le stime ufficiali siano inferiori alla realtà. Il governo le edulcorerebbe per ragioni d'immagine. Oppure, più banalmente, non è in grado di contare i suicidi. In Cina manca un registro dei decessi simile a quello usato nei paesi occidentali, aferma un medico dell'ospedale Hui Long Guan di Pechino. Infatti, più che statistiche quelle sui suicidi sono stime, proiezioni su scala nazionale dei dati raccolti nelle grandi città e nelle zone rurali più avanzate. E qui ci sarebbe l'inganno perchè nelle zone rurali più arretrate i suicidi non vengono quasi mai dichiarati. Ed è proprio nelle campagne che si suicidano un numero impressionante di donne: 30 ogni 100 mila abitanti.
Sulle ragioni del picco femminile torneremo tra breve. Restiamo alle stime ufficiali. Secondo il ministero della sanità, il suicidio è una delle maggiori cause di morte tra le persone di età compresa tra i 15 e i 34 anni. I cinesi che si ammazzano costano al paese 3,5 miliardi di dollari all'anno. E' sempre il ministero a sostenerlo e, dalle sintesi d'agenzia, non si capisce come questo costo venga calcolato (è il danno delle braccia sottratte all'economia?). Altra cosa bizzarra: le stime pubblicate ieri ricalcano da vicino quelle fornite per l'anno 2003, quando Pechino dichiarava 287 mila suicidi, 156 mila dei quali commessi da donne. L'impressione è che le autorità cinesi riciclino sempre gli stessi dati, con l'avvertenza di limarli verso il basso l'anno successivo per dimostrare che la situazione non è peggiorata, anzi è leggermente migliorata. Vaghissima, infine, la stima dei tentati suicidi: dai 20 ai 50 milioni l'anno.
Fatta la tara alle stime governative, è incontrovertibile che le donne cinesi, pur essendo meno degli uomini, si ammazzano più di questi ultimi. Davvero in Cina non splende il sole nell'altra metà del cielo. Falcidiate prima o appena dopo la nascita - conseguenza della politica del figlio unico - le donne si danno la morte soprattutto nelle campagne. Usano quel che hanno a portata di mano, in genere i pesticidi. Ristrettezze economiche, fatica, monotonia, costrizione domestica, mancanza di libertà, depressione, assenza di aiuto psicologico. E' lungo l'elenco delle cause addotte per spiegare l'altissimo numero di donne che nelle campagne decidono di farla finita.
A queste si aggiunge un parodosso. La rarefazione delle femmine alla nascita fa sì che molti maschi non trovino moglie. Aritmetica vorrebbe che le giovani in età da marito fossero assediate da uno stuolo di corteggiatori anelanti. Invece nelle zone arretrate molte vengono vendute dai genitori al miglior offerente. I matrimoni combinati a pagamento spesso finiscono in suicidio. Della moglie, ovviamente.
pasticche e paurA

Repubblica 25.8.07
Il dramma ecstasy
di Umberto Galimberti

I pericoli fisici e psicologici della sostanza Molti i falsi miti che accompagnano questo stupefacente. Che sia 'pulito' e che sia 'nuovo' Il suo cerimoniale è fatto di una 'techno-scena' composta da un 'techno-sound' Si acquista maggiore apertura verso gli altri e vengono meno le barriere difensive

Se l' eroina è una droga "sporca", che dire di quella droga cosiddetta "pulita", come molti giovani ritengono sia l' ecstasy, la più famosa delle cosiddette "nuove droghe", che poi tanto "nuova" non è? L' ecstasy, infatti, o MDMA come si chiama in chimica, venne brevettata nel 1913 dalla compagnia tedesca Merk come pillola dimagrante con delle comiche descrizioni dei suoi effetti collaterali, ma non fu commercializzata. Ritornò in auge nel 1953 quando l' esercito americano provò una serie di droghe per usi militari. Messa sul mercato nel 1977, la MDMA vi rimase come droga terapeutica fino al 1985, quando la Dea, l' agenzia federale antidroga americana, la rubricò nella tabella 1, la più restrittiva. Da allora l' ecstasy, in un primo tempo battezzata empaty per la sua capacità di favorire la comunicazione, fu lavorata in laboratori clandestini e distribuita attraverso la rete degli spacciatori. Ricavo queste informazioni dal libro di Nicholas Saunders, E come Ecstasy (Feltrinelli). Un contributo a quella lotta al buio in cui brancolano troppi genitori che ogni sabato sera si apprestano a passare la loro nottata d' ansia per quei loro figli, poco appariscenti e abbastanza integrati, che spendono il loro tempo libero in quei santuari dove un' altra trinità ha preso il posto di quella religiosa, e che, al pari di questa, ha il suo cerimoniale in quella "techno-scena" composta da techno-sound, techno-droga e techno-party. L' ecstasy è la techno-droga, la seconda componente di questa trinità. Sempre in questo libro leggo questo dialogo. Dice la ragazza: «Non puoi mettere l' amore in una pillola». E il ragazzo risponde: «Non sto dicendo questo. Non penso che l' ecstasy crei un' esperienza d' amore. Penso che faccia qualcosa di molto più umile e specifico. Elimina la paura. E tolta quella, l' amore viene da sé». Se guardiamo le cose da questo punto di vista è più istruttivo conoscere non solo i pericoli connessi all' uso di questa droga, ma anche i piaceri da essa indotti. Perché solo la conoscenza dei piaceri assicurati, o anche solo promessi, può gettar luce sulla qualità del disagio che porta al suo consumo. Gli effetti piacevoli dell' ecstasy possono sostanzialmente essere ridotti a due: il sollievo della tensione muscolare e, come riferiva il dialogo tra i due giovani, il dissolversi delle paure. Il primo effetto, quello fisico, consente ai giovani del sabato sera di ballare per trentasei ore senza avvertire la fatica. Questo non significa che il corpo non si stanchi e che la fatica non si paghi, semplicemente non se ne ha la sensazione. Tutto ciò non è una gran bella cosa, perché le soglie di dolore o di affaticamento sono lì ad avvertirci che non possiamo fare del nostro corpo ciò che vogliamo, e che i deliri di onnipotenza, anche se piacevoli, non cessano di essere deliri che, a effetto concluso, presentano il conto. Più interessante è l' effetto psicologico che si traduce nel dissolvimento delle paure, sia nei confronti dei nuclei profondi della propria personalità (al punto che alcuni psicoterapeuti americani tra il 1977 e il 1985, gli anni d' oro dell' ecstasy in America, ne avevano sperimentato l' uso per un più rapido rapporto con il proprio inconscio), sia nei confronti degli altri a cui ci si relaziona in modo più disinibito e affettuoso. Per quanto concerne il rapporto con gli altri, si ha una maggiore apertura e capacità di interazione, dovuta allo scioglimento delle barriere difensive e a una diminuzione della paura e dell' aggressività. Quest' ultimo tratto riduce nei maschi la possibilità di rapporti sessuali, ma questo rassicura le ragazze che possono celebrare il loro narcisismo senza il timore di essere aggredite, perché il clima che si crea è quello di un appassionato innamoramento o di una insolita sensibilità verso il partner, sempre meno specifico in termini di compagno di vita o incontro occasionale, di omosessuale o eterosessuale. Tra gli effetti spiacevoli vanno ricordati: sul versante fisico il surriscaldamento con la possibilità, peraltro non frequente, di morire per collasso da calore, per cui l' ecstasy è cinque volte più tossico in condizioni affollate che in isolamento; sul versante psicologico il possibile scatenamento di attacchi epilettici o di attacchi psicotici, più frequenti in personalità già predisposte. Dalla qualità dei piaceri attesi o comunque promessi sembra che i consumatori di ecstasy, e qui siamo al punto, siano alla ricerca di una riduzione delle barriere che nella nostra cultura rendono così difficile la comunicazione: artificiale in pubblico e noiosa e ripetitiva nel privato. Hanno scelto come strada la chimica, e come effetto la sua azione sul proprio cervello e quindi sul proprio corpo. Dell' anima non si fidano, con le sue possibilità non hanno consuetudine, troppi sono stati i tentativi che hanno avuto insuccesso. E allora quel che nella nostra cultura non si riesce più a far con l' anima, lo si fa con la chimica, pur di riuscire a raggiungere quello scopo che è la comunicazione e il contatto, al di là di tutte le barriere che ci costringono nel recinto stretto della nostra solitudine di massa. Si tratta di quella solitudine che i giovani, tra i 15 e i 25 anni, quando massima è la forza biologica, emotiva e intellettuale, soffrono più degli adulti, perché vivono parcheggiati in quella terra di nessuno dove la famiglia non svolge più alcuna funzione e la società alcun richiamo, dove il tempo è vuoto, l' identità non trova alcun riscontro, il senso di sé si smarrisce, l' autostima deperisce. E allora chiedono alla chimica di precisare la loro passione che non sa se avere legami con il cuore o con il sesso, per celebrare l' eccesso della vita nei riti del sabato sera, con sonno diurno per smaltire, oltre agli effetti di una notte che di "estasi" aveva solo il nome, le conseguenze distruttive di quell' energia giovanile che le nostre società efficienti ed avanzate non sanno come utilizzare. Vivono di notte i nostri giovani, perché di giorno nessuno li riconosce, nessuno ha bisogno di loro. E loro lo sanno e non vogliono sbattere ogni giorno la faccia contro il misconoscimento della loro esistenza. Per coloro invece che già sono inseriti nel mondo del lavoro, l' ecstasy rappresenta una liberazione dall' oppressione dei ruoli, delle funzioni, dell' estetica, della distanza e della freddezza, che negli usi e costumi degli occidentali si chiama "correttezza". Una parola elegante cresciuta nel giardino della non-comunicazione, dove il contatto è formalizzato, la parola stereotipata, lo sguardo impersonale, il tutto all' insegna della non-confidenza, che garantisce a ciascuno di noi di ritirarsi dai rapporti senza offendere nessuno. Una sorta di "liberazione in vita (jivanmuktiviveka)" come si legge nel commento ai Veda di Vidyaranya, capo del centro monastico sankariano di Srnegevi dove morì probabilmente nel 1386. Pur nella radicale differenza degli scenari c' è un punto in comune tra la via della liberazione indicata dalla meditazione orientale e quella freneticamente cercata dai consumatori di chimica occidentale: la "soppressione della mente" perché, scrive Vidyaranya: «La prosperità della mente è una rovina, la rovina della mente è grande prosperità. Fino a che la mente non è stata vinta esercitandosi a mantenere saldamente l' attenzione su una sola realtà, nel cuore si levano le predisposizioni, demoni di mezzanotte. La mente, infatti, è il mezzo della ruota dell' illusione, vincendo la quale, si raggiunge l' assenza di paura (abhaya), l' estinzione del dolore, la conoscenza di sé, come anche la pace imperitura». Dunque le stesse cose che i nostri giovani cercano con l' ecstasy, ma la via da essi percorsa rischia di sollevare quelli che per la meditazione orientale sono i "demoni di mezzanotte", proprio quelle predisposizioni che non danno, ma tolgono la pace. Per raggiungere la pace, scrive ancora Vidyaranya: «Vi sono due tipi di controllo: metodico e violento. Il controllo violento delle facoltà sensoriali e di azione avviene tramite il controllo delle loro sedi fisiche. è questa la via che non porta alla vera quiete, e perciò è seguita solo dagli sciocchi che si adoperano a vincere la mente con la violenza, che è come legare un grosso elefante impazzito con filamenti di loto». Non possiamo seguire le vie orientali perché siamo occidentali, e se è delirio di onnipotenza sconfinare con l' ecstasy oltre i limiti del proprio io, non lo è da meno sconfinare in Oriente con l' anima gravida d' Occidente. Ma se non possiamo seguire la via indicata dall' Oriente evitiamo almeno di seguire quella sconsigliata, quella dei "demoni di mezzanotte" e di credere che la chimica possa farci raggiungere a fine settimana, su nostro comando, qualcosa che assomigli a quello che in Oriente chiamano Brahman-Nirvana. Coloro infatti che si nutrono di ecstasy, anche se animati dal desiderio di sottrarsi agli aspetti invivibili della cultura dell' Occidente, a loro insaputa non fanno che confermare a livelli elementari quello che è il tratto tipico di questa cultura, ossia la volontà di potenza che nulla vuole se non che il mondo desiderato accada a nostro comando.
(3 - continua)

il Resto del Carlino 24.8.07
Festival della filosofia
Dopo i processi a Platone e Spinoza la rassegna porta in tribunale Foucault

Modena, 23 agosto 2007 - Il Festival filosofia 'processà 'l'intellettuale francese Michel Foucault (1926-1984), uno dei più originali interpreti novecenteschi del rapporto tra sapere e potere. Accadrà sabato 15 settembre alle 21.30 nell'atrio del Palazzo dei Musei di Modena.

Dopo i processi filosofici che nelle scorse edizioni del Festival hanno visto come imputati Platone, Schopenhauer e Spinoza, il Teatro Filosofico di Mondotre 'porta in tribunale' un filosofo idolatrato negli anni '70 dai movimenti di contestazione sociale e rispettato da molti intellettuali per l'originalità del suo pensiero, padre indiscusso di alcuni degli effetti che la sua critica alle istituzioni ha avuto nella sfera del sociale: la cosiddetta antipsichiatria e la lotta contro gli eccessi della detenzione carceraria. In una riflessione che incrocia psicanalisi, antropologia e filosofia, Foucault identifica il processo di formazione del sapere come uno dei grandi strumenti di controllo delle coscienze nella storia occidentale.

Gli interpreti del processo cercheranno dunque di stabilire se Foucault sia stato un vero maestro per la cultura contemporanea oppure un mito sostenuto da una struttura ideologica di fondo. Anche il pubblico verrà coinvolto nella valutazione.

La rappresentazione prevede i ruoli della voce narrante (Antonio Baroncini), del giudice (Ivo Germano), del pubblico ministero (Matteo Mugnani) e dell'imputato che difende se stesso (Vittorio Riguzzi, che cura anche la regia). Gli interpreti in scena dispongono del più ampio margine di improvvisazione in quanto, pur essendovi una traccia precisa della scansione delle parti, nessuno dei quattro attori conosce gli argomenti utilizzati dagli altri e il modo in cui ciascuno intenderà esporli.