lunedì 27 agosto 2007

Il Riformista 27.8.07

OTTANTA. DAGLI ERRORI DEL PCI E DEL PSI ALLA SPINTA PER L'UNITÀ DEI RIFORMISTI
di Umberto Ranieri
Il decennio in cui finì la sinistra del Novecento

Non volendo contribuire (come invece sospetta Emanuele) a costruire un nuovo partito «a prescindere dalla storia da cui proviene la mia generazione» trovo utile il confronto sugli anni ottanta. Decennio cruciale per le sorti della sinistra italiana. Socialisti e comunisti attraversarono quegli anni duellando tra di loro. Alla fine, in un groviglio inestricabile di responsabilità, le conseguenze furono pagate da entrambi i contendenti: la storia del Psi giunse a un esito traumatico; il Pci fu incapace di trarre le conseguenze delle dure repliche della storia e di anticipare la svolta cui giunse solo nel 1989. Sbagliarono entrambi. E molto. Ai gruppi dirigenti del Pci sfuggì che il senso più profondo della politica socialista dalla fine degli anni '70 era consistito in uno sforzo teso a recuperare al Psi una propria fisionomia originaria e autonoma. L'ambizione del Psi a non rassegnarsi a un ruolo minore determinò nuove tensioni all'interno della sinistra e condusse il Pci ad affermare che era ormai in atto una mutazione genetica del Psi. Un giudizio sommario che rese incandescente il clima tra i due partiti.
Mancò alla maggioranza del gruppo dirigente del Pci di quegli anni il coraggio di riconoscere che la sinistra avrebbe potuto governare il Paese solo in presenza di un Psi capace di una propria originale caratterizzazione. Quando il Psi assunse, per la prima volta nella storia d'Italia, quasi a metà degli anni ottanta, la presidenza del Consiglio, il Pci, invece di incalzarlo sul terreno delle riforme, condusse una sorta di opposizione etica al craxismo. Fu un errore. I governi guidati da Craxi registrarono alcuni significativi risultati in diversi settori: da una radicale modifica del Concordato del 1929 reso più coerente con il dettato costituzionale a una decisa riduzione dell'inflazione e ad una ripresa di dinamismo dell'economia italiana favorita dalla congiuntura internazionale. Il limite del governo Craxi fu l'opposto di quello denunciato dal Pci che lo accusò di liberismo selvaggio. In realtà, mentre la conflittualità sociale cadeva, il debito pubblico si avvitava raggiungendo nel 1987 il 92% del Pil. L'entità astronomica del debito era diventata ormai una ipoteca che incombeva non solo sull'economia ma sullo stesso futuro del paese. Trasformava gli italiani e i loro figli in altrettanti debitori a tempo indeterminato. In quella situazione il Pci avrebbe dovuto puntare su una grande politica di riduzione del debito che stabilizzasse i conti pubblici. Una personalità come Giorgio Amendola probabilmente avrebbe orientato la politica del partito in questa direzione. Con la battaglia sulla scala mobile si scelse un'altra strada. Una strada che avrebbe segnato la sconfitta e l'inizio del declino per il Pci.
La verità è che il Pci degli anni ottanta temette Craxi. Per la prima volta nella sua storia, la sfida non veniva da minoranze velleitarie alla propria sinistra o alla propria destra intorno alla questione dei legami con l'Unione Sovietica. La sfida era di altra portata. In discussione era la capacità del Pci di essere all'altezza del compito di governare il Paese. Ai comunisti restava una sola via per affrontare l'offensiva socialista: realizzare un'innovazione politica ideale tale da collocare il Pci esplicitamente nel campo del socialismo democratico. Era possibile una simile svolta? Una forte sollecitazione in questa direzione venne nel corso degli anni '80 dalle componenti riformiste interne al Pci che consideravano ormai esaurite le ragioni delle divisioni nella sinistra italiana. E tuttavia esse restarono prigioniere di una visione tradizionale dell'unità del partito e del suo gruppo dirigente. Solo il crollo del Muro di Berlino impose la svolta. Ma il tempo perduto era stato enorme.
Il Psi, che aveva avuto il merito di porre per primo il tema della riforma dell'assetto politico-istituzionale del Paese, già dalla fine degli anni ottanta si attestò sul mantenimento dello status quo fino ad identificarsi con esso precludendosi così la possibilità di intercettare l'onda crescente di dissenso che proprio contro quel sistema andava montando e che lo avrebbe travolto. Il che, per un partito che aveva lanciato l'idea della "grande riforma", suonerà amaro e beffardo. Il Pci, d'altro lato, avrebbe coltivato ancora l'illusione di potere affrontare le sfide di un mondo che cambiava senza giungere ad una esplicita fuoriuscita dalla tradizione comunista. Questi furono gli anni ottanta per la sinistra italiana! Anni in cui si esaurirà la vicenda della sinistra così come si era manifestata nel corso del '900 in Italia. Non a caso, da allora in poi, i tentativi di ricostruire un partito socialista sarebbero stati vani. E non solo per la debolezza dei promotori. Ma per ragioni più di fondo che attengono alla storia politico sociale italiana e che meriterebbero di essere approfondite. Da questo punto di vista l'avvio della ricerca intorno all'unità dei riformisti non è stata una scelta artificiosa. È stato il tentativo di dare una risposta al problema irrisolto della storia politica italiana: costruire un grande partito di centro sinistra di stampo europeo collocato saldamente nel campo delle riforme. Quello che non poteva essere il Pci e non ebbe la forza di essere il Psi. Che il modo in cui procede questo progetto non convinca comporterebbe una più intensa battaglia politica e culturale per rimetterlo sui giusti binari piuttosto che lasciarlo andare alla malora. Anche perché, in verità, alternative convincenti non mi pare che ce ne siano in giro. Almeno a me così pare.


Unità online 27.8.07
Nuove alleanze, Rutelli insiste.Il Prc: indebolisce il governo

n una lettera al quotidiano La Repubblica il presidente Dl Francesco Rutelli scrive che per battere la destra nella battaglia «per la conquista della larga, sempre più larga, Italia post-ideologica», il Partito Democratico deve essere in grado di «fare le riforme indispensabili perchè l'Italia non rimanga indietro». E per riuscirci, il Pd «non può essere la snervante mediazione delle posizioni, a mezza via tra l'Udeur e il Pdci». Il vicepremier e leader della Margherita indica la sua strada per il Partito Democratico: «Dev'essere il partito del ripristino liberale, giusto e certo di un principio di autorità nel nostro Paese. Autorità della legge, non arbitrio nè rinuncia». Nella lettera di lunedì Rutelli ribadisce l'idea già lanciata su Europa nell'editoriale domenicale di lanciare il nuovo partito verso alleanze «di nuovo conio». Alleanze da stringere in futuro sulla base di programmi decisamente riformisti. Tra l'altro per lui le posizioni del "manifesto dei cora
ggiosi" hanno raccolto «non una minoranza moderata di consensi ma una chiara e larga maggioranza. «Dobbiamo ingaggiare una battaglia con la Destra - continua Rutelli- per la conquista della larga, sempre più larga, Italia post-ideologica. Loro, la Destra, puntano sul facile terreno dei particolarismi e del populismo, avendo dimostrato di non sapere fare assolutamente fare riforme serie. Ma noi appariamo attardati, talvolta inchiodati da adoratori di idoli decaduti dei decenni passati. Possiamo porre la Destra in minoranza nella società se il Pd onorerà i valori che accomunano le persone di orientamento democratico, riformista, progressista rendendoli forti ed efficaci. Chiedendo agli elettori di scegliere chi è in grado di fare le riforme indispensabili perchè l'Italia non rimanga indietro». Rutelli vuole accelerare sulle liberalizzazioni. E se la prende con la manifestazione del 20 - «è mai possibile che il messaggio della sinistra più radicale sia negativo e addirittura s
i prepari una mobilitazione di piazza contro il governo?» - oltre che, senza citarlo, con le dichiarazioni sul precariato, Treu e Biagi fatte qualche settimana fa dal deputato del Prc Francesco Caruso. La lettera rutelliana ha ridato ossigeno alle reazioni molto dure della sinistra dell'Unione. Per l'europarlamentare del Pdci Marco Rizzo «se è vero che non si vuole cambiare maggioranza è anche vero che si deve rispettare il programma. Serve quindi una radicale inversione di tendenza su pensioni e welfare. Serve più attenzione per i lavoratori, le donne, i pensionati e i disoccupati. Più gente in carne ed ossa e meno poteri forti». Secondo il capogruppo di Rifondazione Comunista al Senato Giovanni Russo Spena «nella sua lettera di oggi a Repubblica il vicepremier Rutelli muove una serie di accuse a addebiti del tutto falsi e pretestuosi alla sinistra della coalizione». «Obiettivo palese è una svolta centrista da realizzarsi il prima possibile, sacrificando definiti
vamente non solo il programma dell'Unione ma l'intera ispirazione e la strategia di lungo respiro che sta dietro alla costruzione di questa alleanza». «A Rutelli e a Veltroni - prosegue Russo Spena - vorrei ricordare che il Prc e la sinistra altro non chiedono che il rispetto di quella ispirazione, di quella strategia e di quel programma, che non definirei proprio estremisti. Ricordo anche che le difficoltà, per il governo, non sono mai venute dalla sinistra ma precisamente da quelle aree estreme del Partito democratico le cui posizioni sono assai vicine a quelle assunte ora da Rutelli». «Dire che prima delle prossime elezioni le alleanze potrebbero essere riviste - conclude il capogruppo del Prc - è nel pieno diritto del Pd ed è una assoluta ovvietà, anche se resta da capire con quali forze Rutelli e Veltroni sperino di battere la destra dopo un'eventuale rottura con la sinistra. Dirlo ora, invece, significa cercare scientemente di indebolire il governo preparando le
condizioni per la sua caduta e per la svolta centrista».

La Stampa 27.8.07
Veltroni come Sarko: "Il ricco non è il nemico"
Veltroni contro i luoghi comuni della sinistra
E da Parigi rilancia un'Internazionale democratica
di Jacopo Iacoboni

PARIGI. La studentessa aristofreak di Paris VIII Anne Besancenot, ascoltatrice-tipo del seminario al Théatre de La Villette su come «rifondare la sinistra francese», aggrotta le sopracciglia una volta: quando Walter Veltroni dice «la ricchezza non è affatto il nostro primo avversario. Il nostro primo avversario è la povertà». Nicolas Sarkozy in campagna elettorale aveva detto: «Vi renderò tutti proprietari. La Francia non è un Paese che odia la ricchezza». Naturalmente, gli intendimenti dei due sono diversi; le parole, meno di un tempo.
Si era venuti a raccontare la giornata parigina del leader in pectore del Pd, dedicata a un seminario su «Le ragioni della sconfitta in Francia», chiedendosi quale sarebbe stata la sua «terza via» stretto (anche fisicamente) tra i socialisti alla Rocard e i new democrats alla Mandelson o alla Giddens. Walter si trova in mezzo. Mandelson che dice alla platea «voi socialisti siete il passato, glorioso, ma senza più programma»; Walter che a braccio esordisce «quando si parla tra tre o quattro persone di sinistra, si finisce sempre a parlare di passato. No, bisogna che pensiamo al futuro».
Ecco, ieri il dilemma era passato-futuro assai più che destra-sinistra. Veltroni si muoveva tra un incontro a pranzo con il sindaco Bertrand Delanoë, al termine del quale ha annunciato una doppia manifestazione per chiedere la liberazione di Ingrid Betancourt, una a Roma l’8 settembre, l’altra a Parigi il 6 ottobre; e poi, appunto, un seminario organizzato dai Gracchi, il network dei vecchi socialisti mitterrandiani come Michel Rocard e Jacques Delors, al quale però erano invitati i relatori meno socialisti e meno novecenteschi che si possa immaginare, ossia Anthony Giddens e Peter Mandelson, grandi consiglieri di Tony Blair. Assente, anche se invitato, quel Bayrou così centrale per i fissati di letture all’italiana.
Così, proprio perché non c’era il timore di essere equivocato, Veltroni che ha fatto? Silente sulle accuse della Bindi (leggendole, in aereo, s’è limitato a sospirare alzando gli occhi al cielo), il candidato ha lanciato la proposta di «un’Internazionale dei democratici e dei socialisti che si ponga l’obiettivo di essere la casa anche di forze essenziali come i democratici americani o il partito del Congresso indiano e tante nuove forze che in Africa, Asia e in Europa nascono dalle sfide del nuovo millennio». E l’ha fatto per un motivo evidente: l’Internazionale socialista «deve conoscere oggi una profonda innovazione», perché innovativa era quando nacque;
Senonché la vera apertura del Walter alla francese è stata l’aver percepito che, stavolta, era la sinistra in Italia (oltre ovviamente ai guru del new labour) il modello per gli orgogliosi socialisti francesi; i quali, dinanzi alla disfatta, per dirla con Giddens, «hanno capito che la sinistra anglosassone non è così cattiva, e anche quella italiana glielo sta insegnando». S’è così rivisto un Veltroni che sa cogliere ciò che di buono c’è nel sarkozismo. Non per quello che ha ripetuto sulla sicurezza, «chi viola la legge avrà la certezza che sarà trattato con assoluta fermezza»; o per l’aver detto che l’«ambiente è una priorità, né di destra né di sinistra»; né per l’esser tornato a sostenere il modello elettorale francese.
No, il passaggio più post-ideologico è stato dire «se l’economia va male non ci può essere giustizia sociale». Oppure: «Più che sui privilegi dei garantiti, il nostro impegno deve concentrarsi sulle esigenze dei più deboli». Con una critica esplicita ai sindacati: «Non vedo come la sinistra, e gli stessi sindacati, possano non avere come priorità» la lotta alla precarietà, «i giovani, il loro futuro». Parole non certo da sindacalista con la barba. Mandelson annuiva, facendo così spiegazzare l’altrimenti meravigliosa camicia rosa, sotto blazer blu; Rocard incassava, immoto.
Ecco. Prima di discutere di sinistra futura, Veltroni aveva detto di Sarkozy: «Fa bene a chiamare nella commissione Attali (di cui il sindaco di Roma ha appena comprato, in francese, Une brève histoire de l’avenir) gente di idee diverse; e fanno bene loro ad accettare. Mi pare una cosa normale; così come è bene che in un Paese prevalga l’interesse nazionale sulle visioni di parte». National interest, altra locuzione che può piacere fuori dal recinto della sinistra.
In tutto questo, per usare il gioco di parole di Giddens, what is left on the left, «cosa resta alla sinistra»? Se Veltroni propone «un Pd aperto anche a esponenti internazionali, penso a Delanoë, penso a donne come la Segolene Royal», e vagheggia «un’Internazionale dei socialisti e dei democratici», secondo Giddens «un bel nome sarebbe New democrats». Ma forse ha ragione Mandelson, «sui nomi ci s’intende, l’idea di Veltroni è buona», e poi Parigi val bene una mediazione, tra passato e ultra-futuro.

Repubblica 27.8.07
Ecco come nasce la dipendenza
Coca, regina dell'illusione
di Umberto Galimberti

La polvere bianca crea la falsa e pericolosa convinzione di far sentire invincibile chi la prende
Società votate quasi esclusivamente alla competizione ne favoriscono l'impiego
Il soggetto è indotto a superare se stesso senza essere mai veramente se stesso

Qual è il bisogno sotteso all´uso sempre più diffuso di cocaina e, in sua mancanza, al ricorso a psicofarmaci più o meno stimolanti? Abbiamo così bisogno di tono, di prontezza di prestazioni al massimo dell´efficienza che non ci facciano sentire la stanchezza, lo sforzo, la fatica?
Oppure siamo così depressi che, in mancanza di quella sostanza o dei suoi sostituti, non sapremmo essere all´altezza di quanto gli altri da noi si attendono o noi stessi pretendiamo da noi? E infine di che genere è quella depressione, per sollevarsi dalla quale e trovare spunto per una qualche iniziativa, spinge senza esitazione tanti giovani e non all´uso frequente e spesso incontrollato di questa sostanza?
Sappiamo che le sofferenze dell´anima non sono patologie fisse come quelle del corpo, perché subiscono l´influenza dell´atmosfera del tempo e il clima che si diffonde. Fu così che a partire dagli anni Settanta, la depressione divenne la forma della sofferenza psichica per eccellenza, che ha liquidato d´un colpo le forme "nevrotiche" che hanno caratterizzato il Novecento, riducendo di molto le chances della psicoanalisi nata e cresciuta come cura della nevrosi.
La nevrosi, infatti, è un "conflitto" tra il desiderio che vuole infrangere la norma e la norma che tende a inibire il desiderio. Come conflitto, la nevrosi trova il suo spazio espressivo nelle "società della disciplina" che si alimentano della contrapposizione tra il "permesso" e il "proibito", una macchina che i più adulti fra noi conoscono perché regolava l´individualità fino a tutti gli anni Cinquanta e Sessanta. Poi, a partire dal Sessantotto la contrapposizione tra il permesso e il proibito tramonta, per far spazio a una contrapposizione ben più lacerante che è quella tra il "possibile" e l´"impossibile".
Che significa tutto questo agli effetti della cocaina e degli psicofarmaci eccitanti a cui si ricorre come a un rimedio? Significa che nel rapporto tra individuo e società, la misura dell´individuo ideale non è più data dalla docilità e dall´obbedienza disciplinare, ma dall´iniziativa, dal progetto, dalla motivazione, dai risultati che si è in grado di ottenere nella massima espressione di sé. L´individuo non è più regolato da un ordine esterno, da una conformità alla legge, la cui infrazione genera sensi di colpa, ma deve fare appello alle sue risorse interne, alle sue competenze mentali, alle sue prestazioni oggettive, per raggiungere quei risultati a partire dai quali verrà valutato.
In questo modo, dagli anni Settanta in poi, la depressione ha cambiato radicalmente forma: non più il "conflitto nevrotico tra norma e trasgressione", con conseguente senso di colpa, ma, in uno scenario sociale dove non c´è più norma perché tutto è possibile, il nucleo depressivo origina da un "senso di insufficienza" per ciò che si potrebbe fare e non si è in grado di fare, o non si riesce a fare secondo le attese altrui, a partire dalle quali, ciascuno misura il valore di se stesso.
Questo mutamento strutturale della psiche collettiva, così ben segnalato dal sociologo francese Alain Ehrenberg in La fatica di essere se stessi (Einaudi), ha fatto sì che i sintomi classici della depressione, quali la tristezza, il dolore morale, il senso di colpa, passassero in secondo piano rispetto all´ansia, all´insonnia, all´inibizione, alla perdita di iniziativa, in un contesto sociale dove "realizzare iniziative" è assunto come criterio unico e decisivo per misurare e sigillare il valore di una persona.
Di qui il ricorso alla cocaina e agli psicofarmaci stimolanti per attutire l´ansia parossistica, oppure la perdita più o meno estesa di iniziativa, l´inibizione all´azione, il senso di fallimento e di scacco, fattori questi che entrano in implacabile collisione con i paradigmi di efficienza e di successo che la società odierna considera essenziali per riconoscere dignità e significanza esistenziale a ciascuno di noi. E quando l´orizzonte di riferimento non è più in ordine a ciò che è "permesso", ma in ordine a ciò che è "possibile", la domanda che si pone alle soglie del vissuto depressivo non è più: "Ho il diritto di compiere quest´azione?", ma "Sono in grado di compiere quest´azione?". Di qui il ricorso massiccio alla cocaina e agli psicofarmaci "tonificanti".
Possiamo scorgere l´origine dell´odierna depressione in due cambiamenti di tendenza registrati negli ultimi trent´anni della nostra storia circa il modo di concepire l´individuo e le possibilità della sua azione. Il primo cambiamento s´è registrato verso la fine degli anni Sessanta, quando la parola d´ordine dell´intero continente giovanile era: "emancipazione" all´insegna del "tutto è possibile", per cui: la famiglia è una camera a gas, la scuola una caserma, il lavoro, e il suo rovescio il consumismo, un´alienazione, e la legge uno strumento di sopraffazione di cui ci si deve liberare ("vietato vietare").
Su questa cultura preparata dal Sessantotto, ma che il Sessantotto aveva pensato in termini "sociali", si impianta, per uno strano gioco di confluenza degli opposti, la stessa logica di importazione americana, giocata però a livello "individuale", dove ancora una volta tutto è possibile, ma in termini di iniziativa, di performance spinta, di efficienza, di successo al di là di ogni limite, anzi con il concetto di limite spinto all´infinito, per cui oggi siamo a chiederci: qual è il limite tra un ritocco di chirurgia estetica e la trasformazione in androide di Michael Jackson, tra un´abile gestione dei propri umori attraverso farmaci psicotropi e la trasformazione in robot chimici o in veri e propri drogati, tra le strategie di seduzione troppo spinte e l´abuso sessuale, tra il diritto alla salute e al prolungamento della vita e la manipolazione genetica? E questo solo per fare degli esempi che dimostrano come le frontiere della persona e quelle tra le persone determinano un tale stato d´allarme da non sapere più chi è chi.
Come scrive Augustin Jeanneau in Les risques d´un´époque: «La liberazione sessuale ha sostituito la preoccupazione di sbagliare con la preoccupazione di essere normali». Espressione sintomatica del cambiamento, non dissimile da quella segnalata da Vidiadhar S. Naipaul in Alla curva del fiume (Adelphi): «Non potevo più rassegnarmi al destino. Il mio destino non era di essere buono, secondo la nostra tradizione, ma di fare fortuna. Ma in che modo? Che cosa avevo da offrire? L´inquietudine cominciava a mangiarmi dentro».
E allora psicofarmaci, e se vogliamo anche un certo piacere: droga. Tra l´odierna depressione e la dipendenza da cocaina c´è infatti un parallelismo che approda a una sorta di complementarietà. E questo perché sia la depressione sia la tossicodipendenza, per differenti che possano apparire, esprimono la patologia di un individuo che non è mai sufficientemente se stesso, mai sufficientemente colmo di identità, mai sufficientemente attivo, perché troppo indeciso, troppo titubante, troppo ansioso, per cui depressione e tossicodipendenza sono come il diritto e il rovescio di una medesima "patologia dell´insufficienza".
Il vissuto di insufficienza, causa prima della depressione odierna, attiva la dipendenza da cocaina per le promesse di onnipotenza che prospetta, lasciando intravedere la possibilità di infrangere la barriera che ci separa da quella meta agognata dove "tutto è possibile", "tutto è permesso". In questo modo si radicalizza la figura dell´individuo sovrano, che paga naturalmente il conto con la schiavitù della dipendenza, che è poi il prezzo della libertà illimitata che l´individuo si assegna.
Alimentando l´immaginario di poter maneggiare illimitatamente la propria psiche, senza i rischi di tossicità delle droghe "sporche", la cocaina sopprime i sintomi della depressione, che è un arresto nella corsa sfrenata a cui siamo chiamati e, accelerando la corsa, ci rende perfettamente omogenei alle richieste sociali.
Mettendo a tacere il sintomo, vietando che lo si ascolti, la cocaina induce il soggetto a superare se stesso, senza essere mai se stesso, ma solo una risposta agli altri, alle esigenze efficientistiche e afinalistiche della nostra società, con conseguente inaridimento della vita interiore, desertificazione della vita emozionale, omogeneizzazione alle norme di socializzazione richieste dalla nostra società, a cui fanno più comodo robot automatizzati e automi impersonali, che soggetti capaci di essere se stessi e di riflettere sulle contraddizioni, sulle ferite della vita e sulla fatica di vivere.
Nel 1887, un anno prima di scendere nel buio della follia, Nietzsche annunciava profeticamente «l´avvento dell´individuo sovrano, uguale soltanto a se stesso, riscattato dall´eticità dei costumi». Oggi, a cento anni dalla morte di Nietzsche, possiamo dire che l´emancipazione ci ha forse affrancato dai drammi del senso di colpa e dallo spirito d´obbedienza, ma ci ha innegabilmente condannato al parossismo della prestazione, dell´iniziativa e dell´azione, nella più assoluta incapacità di essere se stessi al di là delle richieste sociali di efficienza, iniziativa, rapidità di decisione e di azione, di cui non è dato scorgere il limite.
(4. Continua)
Repubblica 27.8.07
A Roma in ottobre
LE OPERE DI ROTHKO

ROMA - Dal 6 ottobre apre a Palazzo delle Esposizioni, appena terminata la ristrutturazione, una mostra di Mark Rothko. Vi compaiono una settantina di dipinti oltre a una serie di lavori su carta. Per i primi lavori di Rothko, la mostra si focalizza sui dipinti, relativamente piccoli, eseguiti con una preparazione in gesso che dà un effetto simile all´affresco, in cui è evidente l´influenza dell´arte del Quattrocento, in particolare di Beato Angelico.

Adnkronos 27.8.07
Funerali Trentin, Ingrao tra gli applausi omaggia la salma

Riaperta in mattinata la camera ardente, in tanti hanno reso omaggio alla salma dell'ex segretario della Cgil, morto giovedì scorso all'età di 81 anni

Roma, 27 ago. - (Adnkronos) - Funerali civili oggi per l'ex segretario della Cgil Bruno Trentin, morto giovedì scorso all'età di 81 anni a causa di una grave polmonite. Un lungo applauso ha accolto la salma deposta nel piazzale antistante la sede della Cgil a Roma per la cerimonia funebre dopo che per tutta la mattinata in tanti hanno visitato la camera ardente, allestita nella sede nazionale della Cgil.
Durante tutta la giornata si sono susseguite visite illustri alla salma dell'ex leader sindacalista.Tra questi l'ex presidente della Camera Pietro Ingrao che, abbracciato ai familiari commossi, è stato accolto dagli applausi della folla che attende la cerimonia funebre.
Giunto nella sede nazionale della Cgil in Corso Italia anche il premier Romano Prodi . Ad accompagnarlo i ministri del Lavoro e della Difesa, Cesare Damiano e Arturo Parisi. Mentre poco dopo è arrivato il presidente del Senato Franco Marini.
Visibilmente commosso il presidente della Camera Fausto Bertinotti, stretto in un lungo abbraccio con i familiari di Trentin. Bandiere listate a lutto hanno inoltre accolto il vicepremier e ministro degli Esteri, Massimo D'Alema, il segretario dei Ds Piero Fassino e il presidente della Regione Campania Antonio Bassolino.
In mattinata erano inoltre giunti i vertici di Ferrovie dello Stato, Innocenzo Cipolletta e Mauro Moretti, il direttore generale di Confindustria Maurizio Beretta, il ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi, il sottosegretario all'Economia Alfiero Grandi, e il sindaco di Bologna ed ex leader della Cgil, Sergio Cofferati.
A dare l'ultimo saluto a Trentin sarà la voce e la chitarra di Giovanna Marini con le canzoni 'Bella ciao', 'Weshall overcome' e infine 'Les temps des cerises'. All'orazione funebre saranno presenti tra gli altri il sindaco di Roma Walter Veltroni, l'economista Giorgio Ruffolo, il segretario generale del sindacato di Corso Italia Guglielmo Epifani, e Pier Paolo Baretta che leggerà una lettera di Pier Carniti.
A portare l'ultimo saluto a Bruno Trentin è giunto in questi minuti nella camera ardente allestita in Cgil, il presidente del Senato Franco Marini. Intanto si stanno ultimando i preparativi alla cerimonia laica che si terra' nel piazzale antistante la sede nazionale della Cgil a Roma. Circa un migliaio di persone e' in attesa fuori del palazzo di Corso d'Italia tra le bandiere dei diversi sindacati listate a lutto. Intanto corone funebri si addensano ai lati del palco. Tra queste quelle della Cisl e della Uil, dei Democratici di sinistra, del partito dei Comunisti italiani, dei presidenti di Camera e Senato e del leader di Rifondazione comunista, Franco Giordano. Non manca una, personale, inviata da Fausto e Gabriella Bertinotti.