domenica 12 agosto 2007

Il Sole - 24 Ore Domenica 12.8.07
José Pablo Feinmann
Maledetto Martin
Nel suo nuovo romanzo lo scrittore sudamericano racconta l'angoscia di Dieter Müller, allievo di Heidegger, che osserva imbarazzato l'adesione del maestro al nazismo
di Bruno Arpaia


Prima Lukàcs, Adorno e Löwith. Poi Habermas e Schneeberger. Infine, con sempre meno remore, più indignazione e più documenti alla mano, Hugo Ott, Victor Farìas ed Emmanuel Faye. A poco a poco, nel corso degli anni, le compromissioni con il nazismo di Martin Heidegger, uno tra i più grandi filosofi del Novecento, sono venute chiaramente alla luce. Nel marzo del 1933, infatti, l'autore di Essere e tempo venne nominato dalle autorità naziste Rettore dell'Università di Friburgo. Nel suo discorso inaugurale, Heidegger espresse l'adesione dell'Università al movimento hitleriano e assicurò la propria fedeltà totale al Führerprinzip, glorificando il «destino del popolo tedesco» e della sua lingua, l'unica, insieme a quella greca, in cui fosse possibile filosofare. Ma Heidegger non si limitò a queste affermazioni imbevute di superbia etnica: riorganizzò gli studi secondo la dottrina nazista, eliminando professori dai ruoli accademici e pensatori scomodi dai programmi d'esame. E tuttavia, sebbene il Terzo Reich, si attendesse un futuro millenario, undici mesi dopo Heidegger si dimise. In quel breve tempo, comprese che non sarebbe mai diventato il Führer culturale e filosofico del regime, che per lui non c'era spazio di fronte al potere totale di Hitler.
Come scrisse Ernst Jünger, invece di ammettere il proprio errore, Heidegger pensò sempre che Hitler avrebbe dovuto chiedergli scusa per essersi allontanato dalle sue idee. Nemmeno dopo la guerra il Maestro, sentendosi innocente, volle modificare o attenuare i passaggi della propria opera più compromettenti e più in sintonia con il nazismo, accrescendo così l'imbarazzo dei filosofi e rendendo sempre più cogente la domanda etica derivante dal suo comportamento: come è possibile che una mente così privilegiata e profonda abbia sostenuto il totalitarismo più tragico e inumano del XX secolo?
Da questa domanda prende le mosse l'intenso romanzo dell'argentino José Pablo Feinmann, che sceglie la strada della narrativa, della finzione letteraria, per affrontare il caso Heidegger e i problemi che ne derivano. Come scrivono Antonio Gnoli e Franco Volpi nella bella postfazione al volume, qui sono in gioco «i rapporti della saggezza con la tirannide, del pensiero con la politica, della teoria con la prassi, degli intellettuali con il potere». Problemi affrontati con rigore e lucidità da tanta saggistica, ma la prospettiva più obliqua e sottile della letteratura, la forza evidente delle cose e dei sentimenti, la partecipazione emozionale alle vicende dei personaggi letterari riescono forse meglio a proiettarci dentro gli eventi, a farceli valutare nella loro complessità.
Per questo Feinmann mette in scena, nell'Argentina del 1948, il personaggio di Dieter Müller, un professore di filosofia allievo del Maestro che, in una lunga e drammatica lettera al figlio, racconta gli anni dell'ascesa al potere del nazismo, le discussioni tra i giovani intellettuali tedeschi all'Università di Friburgo, la sconvolgenete lettura di Essere e tempo, e la fede nella missione storica della Germania. Dopo la guerra, esiliato in Argentina, Müller continua a pensare che le notizie sull'olocausto e sui campi di concentramento siano versioni della storia fornite dai vincitori, finché, davanti a una foto di un ebreo sul punto di entrare in una camera a gas, capisce che lui, Heidegger e tanti altri sono stati complici di un orrore infinito.
Così, dopo aver scritto la lettera, con la stessa Luger con la quale, durante la Prima guerra mondiale, aveva ucciso il suo tenente colpevole di disfattismo, Müller si uccide. Anni dopo quella stessa pistola riappare sulla scrivania della baita di Heidegger a Todtnauberg: ce l'ha portata Martin, il figlio di Dieter Müller. Ossessionato dall'influenza dal Maestro su suo padre, Martin cercherà di strappargli una risposta sul suo comportamento. Invano.
Romanzo filosofico in cui i due termini dell'espressione sono perfettamente bilanciati, L'ombra di Heidegger parla al lettore di pensieri profondi e di problemi inquietanti con una scrittura di grande fascino ed efficacia, che a volte sfiora perfino atmosfere da thriller. Nella storia di Dieter Müller, nella sua voce trasparente e appassionata, Feinmann mette allo scoperto l'ambiguità delle verità assolute, la razionalità dell'orrore, gli inganni dell'intelligenza. Per lui, come per il suo protagonista, vale la tesi Lukàcs e di Adorno: «Il nazionalsocialismo» scrive Dieter a Martin, «non è l'avventura sanguinaria di una manica di rozzi tedeschi brutali e svitati. La sua ideologia non riposa sulla lettura ben poco scrupolosa che Alfred Rosenberg ha fatto di Nietzsche. Non riposa sui grugniti paranoici, razzisti, disarticolati del Mein Kampf. E', figlio mio, nel più grande libro di filosofia tedesca che l'anima tedesca abbia scritto dai tempi della Fenomenologia dello Spirito». Una tesi discussa e discutibile, ma è innegabile che l'approccio di Feinmann la rende plausibile, svelando come, sotto alcune frasi di Essere e tempo, possa battere il genocidio. E come l'ombra di Heidegger, provocando una lacerazione tra filosofia e politica, si stenda ancora su di noi e sul nostro tormentatissimo tempo.

José Pablo Feinmann, L'ombra di Heidegger, traduzione di Lucio Sessa, Neri Pozza editore, Vicenza, pagg. 184, € 15

Liberazione 12.8.07
Destra e sinistra al duello decisivo: difendere o smantellare la precarietà
di Piero Sansonetti

L'offensiva dei conservatori (di entrambi gli schieramenti) sul caso-Caruso, ha un obiettivo molto semplice: difendere il nuovo modello di società
costruito dal liberismo (non solo in Italia). E cioè il precariato (non solo sul lavoro) come mediazione tra lo schiavismo e l'orgia dei diritti degli anni '70

Tutti - come noi - si sono indignati per le offese rivolte da Francesco Caruso a Marco Biagi e Tiziano Treu. Alla fine, e per fortuna, si è indignato persino lo stesso Caruso che le ha ritrattate, le ha definite uno «sfogo incontrollato» e ha anche chiesto scusa alla famiglia di Marco Biagi. Meno male.
Una parte consistente del mondo politico, e anche della stampa (quasi tutta la stampa), prosegue però - ed era prevedibile - una campagna molto massiccia a favore del precariato. Cioè usa la condanna verso le frasi insensate di un deputato, per erigere un muro a difesa delle leggi e dei costumi che stanno stravolgendo, a una velocità impressionante, l'intero impianto del lavoro e della sua regolazione. Negli ultimi quindici-vent'anni, in Italia, e in tutta Europa, si è invertito il trend che nei decenni precedenti aveva portato a una parziale riduzione dello sfruttamento e a un aumento delle garanzie per i lavoratori dipendenti. E' aumentato, in questi anni, il tasso di sfruttamento, sono diminuiti i diritti e i salari. La parte più forte del mondo politico-giornalistico italiano guarda con soddisfazione a questa inversione, vuole spingerla più avanti, ritiene che sia la sola garanzia di modernità e di crescita e il solo modello oggi possibile in Occidente.
Se vogliamo parlare seriamente di politica, dobbiamo partire da qui. Avere consapevolezza della ragione vera dello scontro politico che è aperto, in Italia, nella maggioranza e fuori di essa. E' uno scontro reso confuso dal gigantesco impianto ideologico che lo circonda - costruito dalla destra, dalle pressioni confindustriali, da un sistema molto compatto e assai ben governato dei media - ma che invece è semplicissimo, cristallino.
La destra classica ritiene necessaria la restaurazione del vecchio potere capitalistico, nelle sue forme più tradizionali e arretrate che portano al prevalere assoluto del profitto sul salario e al dominio dell'imprenditore sui lavoratori subalterni. Sollecita la cancellazione delle conquiste sociali che hanno caratterizzato il trentennio 1950-1980, e che ancora segnano soprattutto le nazioni più politicizzate e sindacalizzate (come l'Italia, la Germania e in parte la Francia), e avverte che un sacrificio di questo genere, da parte dei lavoratori, è indispensabile alla modernizzazione, alla competizione internazionale, e alla tenuta dell'Occidente e dei suoi livelli di benessere.
La sinistra crede, al contrario, che una inversione nel cammino dei diritti collettivi e individuali non solo sia un sacrificio inaccettabile, ma che conduca inevitabilmente verso la barbarie, l'inferocirsi dello scontro di classe, nuove forme di schiavismo e di totalitarismo, prima sociale - che già in gran parte è in atto - e poi politico. E quindi pensa che occorra fare barriera e ostacolare in ogni modo il disegno di Confindustria.
La destra - che appunto è guidata oggi da Confindustria - immagina che lo strumento "concreto" per la restaurazione, sia il "precariato", e che il precariato debba diventare il modello moderno di relazione sindacale. Lo giudica un equilibrato punto di mediazione tra lo schiavismo di una volta e l'eccesso - l'orgia - dei diritti sindacali e individuali che travolse l'Occidente negli anni '70. Di più: lo considera un modello estendibile a molti altri aspetti della civiltà: le relazioni personali, l'uso dell'ambiente, la cultura, l'informazione, la struttura e la fruibilità delle città, l'amore, gli affetti, i rapporti tra i sessi... Ha l'idea che la precarietà, e gli squilibri che comporta, siano la condizione di sopravvivenza per una società che si basa sulla competizione e non sulla collaborazione, sull'individualismo e non sulla collettività. Cioè la società della concorrenza, la società capitalista.
La sinistra ritiene che il "precariato" sia lo strumento per minare alla base le relazioni civili e umane tra le persone, le classi, i ceti, tra il popolo e il potere, e che alla fine diventi un "virus" che porta alla degenerazione e alla disgregazione dell'impianto fondamentale della nostra società.
Naturalmente nel definire i due schieramenti - destra e sinistra - si tiene conto delle idee e dei riferimenti sociali e di potere, non della collocazione politica. Perché quella che abbiamo definito destra controlla saldamente, in Parlamento, l'intero schieramento conservatore (dalla Lega all'Udc) ma anche - seppure con meno sicurezza - una parte, forse non minoritaria, del centrosinistra. La vera anomalia italiana è questa: esistono due destre, che si sovrappongono perfettamente per le proprie posizioni politico-economiche (e spesso anche culturali) ma non si amano e non coincidono nel ceto politico e quindi sono presenti nei due diversi schieramenti. Il problema è se questa sovrapposizione finirà per costituire un ostacolo o, viceversa, un punto di forza per le destre.
E la cosa in gran parte dipende da come saprà muoversi la sinistra. In modo speciale, da come saprà muoversi nella lotta al precariato, cioè nella battaglia per far saltare il "progetto" di Confindustria per gli anni 10, 20 e 30. Se sarà unita - saggia, determinata - anche se attualmente è minoritaria, può farcela. Soprattutto se saprà giocarsi tutto in questa battaglia, senza calcoli, con generosità, mettendo tutta la propria anima e anche il cervello. Per questo noi abbiamo lanciato l'idea della manifestazione ad ottobre. Si può discutere quanto si vuole sulla piattaforma di quella manifestazione. Una cosa però è molto chiara: l'idea che ci proponiamo di battere è quella del modello precario (in tutti gli aspetti della nostra vita). E naturalmente di ottenere dal governo che sostituisca la legge Treu e la legge Maroni (legge 30), che sono organiche a quel modello.

Liberazione 12.8.07
Risposta a Folena sul Pd e il rischio di sottovalutarne il leader
Sinistra, attenta a Veltroni è un conservatore (e oligarca)
di Massimiliano Smeriglio*

Il Pd, Veltroni e la fine del Laboratorio romano
La sfida del leader in pectore del Pd è chiara: cambiare la politica,
per un'alternanza neoliberista, nel nome di stabilità e governabilità

In questi giorni si susseguono le analisi e i ragionamenti intorno al Pd che verrà e al profilo che Veltroni saprà imprimere alla nuova organizzazione politica. Da ultimo un articolo colto e intelligente di Pietro Folena, su Liberazione un pezzo denso di emozioni e stile, categorie politiche alte perché intrecciano la politica con le emozioni. Ma proprio Folena, del tutto inconsapevolmente, suggerisce il primo difficile tornante che noi di sinistra dovremo affrontare: la sindrome dell'album di famiglia. La storia di un uomo, in questo caso Walter Veltroni, dice molto, ma spesso non dice tutto e soprattutto dalla storia non si deduce interamente la geografia.
Per capire cosa sarà il Pd di Veltroni o il Veltroni del Pd serve solo la lente della contemporaneità; la storia, le memorie condivise, i percorsi collettivi che noi narriamo non serviranno ad esorcizzare gli esiti moderati inscritti in quel processo. La prima deduzione logica che ne dovremmo ricavare è che dovremmo strappare gli album di famiglia, e smettere di pensare che la militanza comune nel grande Pci sia garanzia di tenuta e riconoscimento reciproco. Per noi, che curiamo la memoria, ha senso tenere a mente le fila di un cammino comune, o la perimetrazione di un campo di valori condivisi e condivisibili; ma per chi vive nella politica del just in time , nel culto ossessivo dell'immagine che fagocita l'immaginario, la sinistra, il Pci, il movimento operaio sono il giurassico, pacchi ingombranti messi in soffitta da tempo. Prima ce ne convinciamo e meglio è per tutti noi. Siamo alle soglie di un grande smottamento della politica italiana e non ci verranno in aiuto categorie e traiettorie concluse nel secolo breve.
La sfida del leader in pectore del Pd è chiara: cambiare la politica, fondare il campo democratico e spostare il paese nel campo dell'alternanza neoliberista, una bolla politicista dove la conflittualità viene anestetizzata e la partecipazione messa a valore, funzionale al bene più importante per i poteri globali, stabilità e governabilità.
Veltroni è ambizioso, spera di avere un successo almeno simile a quello che Berlusconi ha realizzato prima nel centro destra e poi nel Paese. In questo schema la sinistra non esiste, in questo schema noi non ci siamo, il Pd veltroniano ha una vocazione onnivora, proverà a definirsi come tutto e non come parte di una alleanza più grande e articolata. Certo ci sarà spazio per qualche Jesse Jackson all'amatriciana, certo tratteranno con la vertenzialità diffusa in termini lobbystici o concertativi, ma tutto nel campo delle compatibilità predefinite. Nessun altro mondo è possibile, se non quello dato. Per la cura dell'anima basterà qualche campagna sulla fame nel mondo o sulla povera Africa, introiettando la presunzione, tutta eurocentrica, di voler essere parte astratta della soluzione senza mai sentirsi minimamente parte del problema.
Le cose appena scritte non sono solo il prossimo futuro, sono già il presente, basta indagare con più attenzione quanto sta accadendo a Roma, la terra promessa su cui il Pd ha costruito il suo prototipo e Veltroni la sua chance democratica.
Tra il 2001 e il 2006 nella capitale si è sviluppato un modello di governance contraddittorio e proprio per questo aperto a diverse opzioni strategiche. Da un lato quello che noi chiamavamo il Laboratorio Roma, la possibilità di mettere al governo della città i movimenti, i conflitti, i senza casa, la società civile, i comitati di quartiere, la comunità glbtq e la intellettualità diffusa. Il tutto basato sulla pratica della partecipazione, sulla pianificazione urbanistica e la valorizzazione della comunità locale. Punto di riferimento aperto e dialogante di questa soggettività moltitudinaria il sindaco Veltroni.
Dall'altro lato il modello Roma, un progetto spregiudicato di rifunzionalizzazione, sotto una nuova guida e la regia del senatore Bettini, del vecchio potentissimo blocco di potere romano: costruttori, proprietari di giornali controllori delle cronache locali, proprietari dei crediti della sanità privata, Camera di commercio e Vaticano; sembrano molti, in realtà parliamo di una strettissima oligarchia che fa tutte quelle cose insieme, in barba al mercato, alla tanto osannata concorrenza e alle conferenze alla moda sul capitalismo molecolare. Punto di riferimento di questo blocco di potere, che va da Caltagirone a Ciarrapico, il sindaco Veltroni.
Questi due mondi, distinti e conflittuali, erano tenuti insieme dalla garanzia che lo spazio pubblico, il Comune, avrebbe definito il campo democratico in cui far svolgere la partita. Insomma Veltroni e il Consiglio comunale, come arbitri e regolatori di interessi contrapposti che si misuravamo sul terreno dell'accentramento o della redistribuzione delle ricchezze accumulate dall'azienda Roma. In questo quadro ci è capitato di perdere, spesso, ma anche di portare a casa risultati importanti per la nostra gente o di provare, non solo a governare la città eterna, ma anche a trasformarla incidendo sulla composizione sociale, le periferie e strappando diritti ed opportunità per quelli che non ne hanno mai avuti.
Nel 2006 la storia è cambiata, Veltroni ha accelerato, ha allargato a dismisura la sua coalizione, ha consolidato intorno a se il vecchio blocco di potere romano, insomma ha smesso di fare l'arbitro ed è sceso in campo con la maglia del modello Roma scegliendo di rompere la dialettica con l'altra città. Veltroni ha fatto la sua scelta: moderata sul piano dei diritti civili (nessun registro delle unioni civili, nessuna iniziativa per il voto amministrativo ai migranti, niente decentramento), fortemente ancorata alle oligarchie capitoline sul terreno degli interessi materiali, incapace di mettere in campo processo reali di redistribuzione del reddito, diretto o indiretto, per aver appaltato il welfare community a settori del cattolicesimo caritatevole. In tutto questo non c'è traccia di innovazione tecnologica, di "classe creativa", di responsabilità sociale d'impresa e di produzioni immateriali per stare al lessico del sindaco. In fondo l'attuale assetto di governo concreto della città, nonostante i nostri sforzi e quelli dell'intera sinistra, assomiglia molto ad un patto di sindacato tra soggetti da sempre molto forti a Roma e che, da sempre, fanno accordi con chi momentaneamente la amministra.
Qui muore il laboratorio Roma, il sindaco ha deliberamene messo in crisi gli assetti costruiti nel quinquennio precedente, promuovendo una idea di città in cui stentiamo a ritrovarci. Il patto per la legalità, i mega campi per i Rom persino di seconda e terza generazione, gli spericolati sdoganamenti di ex post e neo fascisti, la riduzione dei poteri effettivi del Consiglio comunale, l'utilizzo continuo di forza lavoro precaria nell'amministrazione comunale e, in fondo, un certo fastidio per i partiti e tutti i corpi intermedi che hanno l'ambizione di non ridursi a fare da cinghia di trasmissione del super sindaco.
Lo schema che Veltroni ci propone è molto semplice: giocare con la sua squadra, inscrivendoci di fatto nel Pd, o fare da spettatori nella partita che sta giocando, ai quali è concesso persino il lusso di fischiare o tifare. Noi scegliamo un'altra strada, saltati gli spazi della mediazione politica (tra partiti) e istituzionale (il Consiglio comunale), ci accingiamo a fare delle belle invasioni di campo, praticando il conflitto e provando ad utilizzare il palcoscenico veltroniano per dare visibilità alla città di sotto. E non lo faremo per negoziare ma per dire che così non va, e che un centro sinistra così distante dalle fatiche quotidiane di chi vive di stipendi e pensioni comincia a farci paura. Da queste sane invasioni di campo potrà rinvigorire il sentiero della Sinistra, una sinistra in movimento che ritrovi il coraggio e la passione civile di squarciare il velo dello spettacolo e di calcare le scene della rappresentazione veltroniana. Le occasioni non mancheranno, chissà magari a partire dalla notte bianca e dalla festa del cinema potremmo farci carico di rappresentare al meglio un pò di neorealismo in salsa contemporanea. Prima che i telefoni bianchi prendano il sopravvento.

*deputato Prc-Se e segretario della federazione romana

Repubblica 12.8.07
L’ombra del ‘29 sui nostri risparmi
di Eugenio Scalfari

Ci sono state molte altre crisi finanziarie negli ultimi vent´anni del Novecento, dovute all´improvviso sgonfiarsi di bolle speculative. La crisi del rublo, quella dell´insolvenza messicana, quella dei «bonds» argentini, quella (e fu la più violenta e diffusa) che travolse i super-investimenti nell´industria informatica. E naturalmente le crisi petrolifere che portarono alle stelle i prezzi del greggio con ripercussioni non solo sulla finanza ma sull´economia reale. E tutte, ovunque fosse il loro epicentro iniziale, coinvolsero il centro finanziario del mondo: Wall Street, le grandi banche d´affari americane, l´immenso ventaglio dei loro clienti internazionali e multinazionali, chiamando in causa inevitabilmente anche la Federal Reserve, la Banca centrale americana, supremo regolatore del sistema monetario e finanziario del pianeta.
Ma nessuna di queste «fibrillazioni» somiglia a quella di questi giorni. Forse proprio perché nel caso attuale l´epicentro è nel sistema bancario americano, nei mutui immobiliari facili, nel loro piazzamento in titoli «derivati» e nella loro diffusione in molte istituzioni finanziarie internazionali.
La finanza Usa e la Fed questa volta non giocano di rimessa, ma giocano in proprio. Il sisma nasce lì, a Manhattan, nel cuore della Grande Mela e ciò aumenta la sua potenza diffusiva e le sue devastanti capacità.
C´è però un precedente cui la crisi attuale può esser confrontata ed è il terremoto finanziario del 1929. Lo si nomina poco in questi giorni, anche gli analisti che inclinano piuttosto al pessimismo fingono di dimenticarsene, forse per scaramanzia. Ma, pur nelle grandi differenze di contesto rispetto a ciò che accadde ottant´anni fa, le analogie sono impressionanti. Consiglio ai lettori di procurarsi e di leggere un libro diventato fin dal suo primo apparire un classico in materia: «Il grande crollo» di Kenneth Galbraith. E´ una lettura paurosamente affascinante.
Intanto la crisi di oggi e quella del ´29 cominciano allo stesso modo: una gigantesca bolla immobiliare, mutui facili, esposizione di istituti bancari specializzati in questo settore, fame di case concentrata soprattutto in California e in Florida, emissione di azioni da parte di società-fantasma, cieca fiducia dei risparmiatori, rifinanziamenti a breve da parte del sistema bancario, interventi (inutili) della Banca centrale e delle principali istituzioni finanziarie, in particolare le banche d´affari che facevano allora capo ai Rockefeller, ai Morgan, ai Rothschild.
Nel ´29 vigeva il sistema aureo, non esisteva alcuna disciplina sul mercato dei cambi, New York, Londra, Berlino, Parigi erano in accesa competizione tra loro. Ciò aggravò e moltiplicò gli effetti del sisma che da una crisi di Borsa si estese al dollaro, dalla moneta americana alla sterlina e al marco tedesco e a tutto il sistema aureo, cioè a tutte le monete del mondo.
Per fortuna il sistema monetario mondiale è oggi completamente diverso, l´amplificazione dei fenomeni si verifica agevolmente ma è entro certi limiti governabile.
Siamo più attrezzati di allora. Ma le analogie restano e i rischi sono tutt´altro che lievi.
* * *
Non starò ora a ripercorrere le tecniche dei mutui immobiliari, della loro cartolarizzazione in titoli, dei tassi di interesse prossimi allo zero per invogliare la clientela, dell´assenza di valide garanzie e infine nella diffusione anche fuori dal mercato Usa dei titoli - spazzatura e dei relativi rischi. Nei giorni scorsi tutto questo perverso meccanismo è stato ampiamente descritto e quindi lo do per noto.
Ricordo soltanto ai lettori che il mercato immobiliare e il suo enorme indotto coprono almeno un quarto dell´economia Usa. A loro volta i consumi privati rappresentano i due terzi della domanda interna di quel paese e gran parte di essi, specie tutta la fascia dei beni durevoli, è strettamente connessa alla costruzione di nuove abitazioni. Stiamo insomma discutendo di uno dei gangli vitali del sistema America e del «business» ad esso collegato.
Questo sensibilissimo settore è entrato in crisi di insolvenza. I clienti che hanno contratto mutui sono insolventi, non hanno soldi per pagare le rate; di conseguenza i loro creditori diventano man mano insolventi anch´essi; i risparmiatori che hanno affidato i loro risparmi a fondi d´investimento che hanno in portafoglio anche titoli immobiliari, ritirano i loro capitali; i fondi più deboli e più presi di mira cominciano a congelare le quote della clientela e creano in questo modo altri punti d´insolvenza. Purtroppo tra i fondi coinvolti ci sono anche alcuni fondi-pensione che sono tenuti dai loro statuti a corrispondere con periodica frequenza i dividendi ai pensionati. Per ora non si ha notizia di insolvenze in questo delicatissimo settore. Auguriamoci che i gestori dei fondi-pensione non siano stati troppo aggressivi nella ricerca di rendimenti superiori alla media.
Si tratta comunque di un´insolvenza abbastanza diffusa. Il governatore della Fed, in una recentissima dichiarazione, l´ha valutata a cento miliardi di dollari. Per ora le insolvenze acclarate ammontano a cifre molto minori, eppure sono state sufficienti a terremotare i mercati finanziari in Usa, in Europa, in Canada, in Australia. L´Asia, Giappone compreso, sembra al riparo dalla tempesta. Ma se e quando dovessero venire allo scoperto le insolvenze preannunciate da Bernanke, gli effetti potrebbero essere assai più micidiali.
Proprio per impedire che ciò accada e soprattutto per recuperare la fiducia dei risparmiatori e degli operatori, le Banche centrali hanno deciso di concerto di iniettare liquidità nei mercati con prestiti a breve e brevissimo termine ai sistemi bancari, accompagnando queste operazioni con inviti alla calma e solenni assicurazioni che la crisi è circoscritta, le insolvenze limitate, la liquidità comunque garantita e i «fondamentali» senza alcun contraccolpo.
Non avevano altra strada, le Banche centrali, che stanno facendo egregiamente il loro lavoro. Riassorbire l´eccesso di liquidità quando non sarà più necessario non è tecnicamente difficile. Non è detto invece che il recupero di fiducia avvenga rapidamente. Nella crisi del 29 non avvenne, anzi durò per molti mesi fino a creare effetti depressivi sulle economie reali. Abbiamo già detto che le autorità monetarie e le istituzioni finanziarie sono oggi molto più attrezzate di allora. Tuttavia la fiducia è un elemento immateriale e estremamente volatile. L´ostentata tranquillità delle Banche centrali e delle autorità monetarie può non esser sufficiente a ripristinarla.
Se poi prendesse corpo la speculazione ribassista con l´obiettivo di deprimere fortemente i listini di Borsa per poi ricoprirsi realizzando favolosi guadagni, come spesso avviene in situazioni del genere, non c´è Banca centrale che possa reggere né fiducia che possa esser recuperata. E´ tuttavia difficile (o almeno così ci auguriamo) un intervento massiccio al ribasso. La situazione dei mercati si è fatta di colpo così delicata che un intervento speculativo al ribasso potrebbe produrre effetti di tale magnitudine da render poi impossibile per lungo tempo l´esito positivo per gli speculatori. C´è insomma un deterrente psicologico, e speriamo che basti a fermar la mano della speculazione.
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La Borsa italiana ha preso nell´ultimo mese e in particolare negli ultimi tre giorni potenti scoppole, più o meno in misura analoga a quella degli altri mercati europei. Più per contagio che per reali insolvenze. Di queste ne sono finora venute alla luce assai poche. Quella, di circa 700 milioni, dei tre fondi della Paribas parzialmente congelati. Altre sulle quali per ora circolano soltanto voci.
Il contagio comunque si può propagare come il «venticello» della calunnia cantato da Don Basilio nel «Barbiere di Siviglia». Ma se non è sostenuto da evidenze concrete può essere rapidamente dissipato. Il caso italiano non sembra dunque particolarmente esplosivo. C´è un punto tuttavia che merita di esser considerato e riguarda i fondi pensione nei quali sono recentemente affluiti oltre un milione di pensionandi che hanno versato i loro Tfr col metodo del silenzio-assenso.
Si è fatto un gran can-can da parte della «setta» degli economisti liberali perché il collocamento del Tfr nei fondi non era stato sufficientemente incoraggiato dal governo. Era una menzogna e il risultato delle sottoscrizioni lo dimostra. Ma ora ci sarà chi rimpiangerà, tra i pensionandi che hanno scelto la previdenza complementare, di non aver versato i propri Tfr ai fondi aziendali gestiti dai sindacati o addirittura di non aver conservato il vecchio sistema della previdenza pubblica dell´Inps. Gli investimenti arrischiati di alcuni fondi pensione americani ci dicono che anche la via della previdenza alternativa non è cosparsa di rose e fiori e che il mercato non è mai stato e mai sarà il paese di Bengodi se non per i pochi che possono manovrarlo a danno dei molti.
C´è un altro aspetto italiano che vale la pena di considerare. E´ opinione diffusa che l´eventuale rallentamento della crescita della nostra economia, aggravato dai possibili effetti della crisi in atto, spingerà in alto l´onere del debito pubblico sul bilancio dello Stato.
Personalmente credo sia un marchiano errore fare simili previsioni. La crisi finanziaria in atto ha aumentato e ancor più aumenterà la propensione dei risparmiatori a investire in titoli pubblici, Bot o pluriennali. Questa propensione produrrà un aumento della domanda di quei titoli e quindi un´occasione per il Tesoro di spuntare condizioni più favorevoli nel momento dell´emissione.
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L´aspetto più preoccupante della situazione italiana sta invece nei possibili effetti di rallentamento sulla crescita del Pil che la crisi può esercitare. Rallentamento dovuto ad un calo nei consumi, allo sgonfiamento della bolla immobiliare che anche da noi è in corso e quindi nell´occupazione, nel reddito e negli investimenti nell´ampio indotto dell´industria edilizia.
A fronte di questi temuti effetti recessivi si ripete il suggerimento di accelerare le riforme. Ma quali?
Bisognerebbe specificare un po´ di più se si vuole evitare la ripetizione giaculatoria della parola «riforme». Le liberalizzazioni, certo. Ma non bastano, agiscono con ritardi tecnicamente inevitabili, non possono comunque essere effettuate tutte insieme in dosi massicce senza sconvolgere mercati alquanto sinistrati.
Il rallentamento nella crescita impone di concentrare l´azione del governo su quell´obiettivo. E quindi: favorire gli accordi governo-sindacati in favore della produttività; concentrare la spesa pubblica sui lavori pubblici e le infrastrutture; procedere a ulteriori sgravi fiscali sul lavoro e all´ulteriore sostegno dei bassi redditi.
Le crisi finanziarie hanno, come la loro storia ha invariabilmente dimostrato, l´effetto di accrescere la responsabilità e il ruolo dello Stato nel rilancio dell´economia. Così accadde nell´America del ´29, dove la crisi spazzò via la lunga dominanza dei conservatori e aprì la stagione dei riformisti, dai tre mandati di Roosevelt, a Truman, a Johnson, a Kennedy, a Carter, a Clinton.
La ragione è evidente: le crisi determinano rallentamento nella domanda. La ripresa avviene rifinanziando la domanda.
E quando è in sofferenza il settore delle costruzioni, affiancando all´investimento privato un massiccio e organico investimento pubblico. Tanto più in un paese come il nostro dove le infrastrutture sono carenti al Nord quanto al Sud. Su questa politica il governo può ritrovare compattezza ed efficacia. La situazione è già abbastanza seria per smetterla con i tiri alla fune e gli strappi per esibire una forza che isolatamente nessuno possiede.