martedì 28 agosto 2007

La Repubblica 28.8.2007
Un dilemma misurabile scientificamente
Quanto è debole la coscienza

Il neurofisiologo Benjamin Libet indaga in un saggio il tema del libero arbitrio - Nelle nostre azioni la possibilità di scegliere entra in gioco pochissimo E solo a cose fatte - Un auto che ci taglia la strada è percepita dal nostro cervello in 50 millisecondi. Ma la coscienza se ne rende conto solo dopo 500
di Piergiorgio Odifreddi

Sto scrivendo questo pezzo, ma chi me lo fa fare? È innegabile che sia io a scriverlo, ma è altrettanto innegabile che sia sempre io ad aver deciso di scriverlo? Naturalmente, così mi sembra, ma sappiamo che spesso le impressioni sono ingannevoli. Per questo, da e per molto tempo, ci si è interrogati sul famoso dilemma tra libero arbitrio e determinismo: al di là dell' apparenza superficiale, cioè, le nostre azioni sono liberamente scelte, oppure sono forzatamente determinate? Fino a poco tempo fa qualunque risposta al dilemma era ideologica, nel senso che riposava su pregiudizi filosofici a priori, invece che su giudizi sperimentali a posteriori. Anche perché osservare i meccanismi cerebrali della decisione è una cosa complessa, e prima della neurofisiologia e delle scienze cognitive non si avevano a disposizione strumenti scientifici di indagine introspettiva, ma soltanto giocattoli letterari di invenzione creativa quali la psicologia o la psicanalisi, che per la cronaca hanno comunque resi popolari vari modelli più o meno deterministici del comportamento, basati su condizionamenti più o meno inconsci. Al problema del libero arbitrio è naturalmente legato quello della coscienza, perché sarebbe una contraddizione in termini parlare di azioni volontarie inconsce. Forse è per questo che noi assegniamo alla coscienza un' importanza fondamentale nella nostra concezione dell' uomo, benché il suo ruolo nella nostra vita quotidiana sia tutto sommato piuttosto limitato: non soltanto in senso metaforico, in quanto la maggior parte di noi agisce e parla troppo spesso senza sapere cosa fa e dice, ma anche in senso letterale, in quanto soltanto in minima parte le nostre azioni sono comunque consce (basta pensare, ad esempio, alla respirazione, alla digestione e alla locomozione). Tentando di quantificare la proporzione dell' attività conscia rispetto a quella inconscia, si arriva a una stima di circa una parte su cento miliardi: mediante esperimenti sulla percezione, ad esempio di parole composte da lettere di vari colori che lampeggiano su uno schermo a velocità variabile, ci si accorge infatti che l' informazione che la nostra attenzione cosciente riesce a gestire varia tra i 15 e i 50 bit al secondo, che è più o meno (anzi, più meno che più) la quantità di informazione regolarmente trasmessa da ciascuno dei nostri cento miliardi di neuroni. Parlando in maniera figurata, è dunque come se soltanto uno dei neuroni del nostro cervello fosse impegnato dalla coscienza, e il resto fosse invece monopolizzato dall' inconscio! A scanso di equivoci, questa è naturalmente soltanto un' immagine quantitativa: benché ci siano infatti motivi di ritenere che la coscienza sia localizzata in certe aree cerebrali, quali il nucleo intralaminare del talamo, le cui lesioni provocano appunto una perdita di coscienza, non si può certo immaginare che tali aree cerebrali si riducano a un solo neurone! Rimane il fatto di questo ruolo minimale della coscienza, al quale e alla quale noi attribuiamo però un' importanza massimale. Una spiegazione ovvia di questo apparente paradosso è che, per definizione, l' unica parte della vita che non ci appare trasparente è appunto quella che percepiamo coscientemente: allo stesso modo, in filosofia non possiamo pensare altro che ciò che è pensabile, in letteratura descrivere ciò che è descrivibile, in fisica osservare ciò che è osservabile, in matematica calcolare o dimostrare ciò che è calcolabile o dimostrabile, benché la maggior parte delle cose al mondo non siano pensabili, descrivibili, osservabili, calcolabili o dimostrabili. Per rimanere comunque alla coscienza e al libero arbitrio, alcuni dei fatti più sorprendenti scoperti al proposito negli ultimi cinquant' anni sono dovuti al neurofisiologo Benjamin Libet. Dopo essere stati discussi fino alla nausea nella letteratura specializzata, essi sono ora divulgati dal loro stesso novantenne autore in Mind Time. Il fattore temporale della coscienza (Cortina, pagg. 246, euro 23,80)). E, in buona sostanza, si possono riassumere dicendo che le sue ricerche evidenziano un ritardo di circa mezzo secondo tra il momento in cui l' informazione relativa a uno stimolo sensoriale arriva al cervello, e il momento in cui esso viene percepito coscientemente. Per capire meglio la questione proviamo a guardare al rallentatore lo svolgersi di un tipico evento quotidiano: ad esempio, la brusca frenata che un' altra auto ci costringe a fare, tagliandoci la strada. Al tempo 0 l' auto ci taglia la strada. Dopo 50 o 60 millisecondi il nostro cervello percepisce la scena. Tra i 100 e i 150 millisecondi il nostro piede frena. Dopo 500 millisecondi, cioè il fatidico mezzo secondo, la nostra coscienza si rende conto di ciò che è accaduto: naturalmente, se incominciassimo a frenare solo allora, spesso sarebbe troppo tardi. In fondo, però, questo lo sapevamo già: non è la coscienza a permetterci di reagire ai pericoli e alle situazioni di emergenza, bensì l' istinto. Ma Libet ha scoperto che il ritardo di mezzo secondo è sistematico: la stimolazione dei neuroni della corteccia sensoriale non produce una percezione cosciente se non dopo 500 millisecondi, e la produce solo se la stimolazione è sufficientemente protratta nel tempo. Questo non significa che l' azione venga inibita da, e durante, i blackout della coscienza: non quelli momentanei, come nell' esempio della frenata, ma neppure quelli permanenti, come nella patologia della visione cieca. Significa, però, che tutti noi soffriamo di una congenita «temporanea percezione cieca», che ci preclude sistematicamente la coscienza degli eventi per mezzo secondo: in termini musicali, la nostra sensorialità è come una fuga a due voci, in cui la stimolazione funge da dux, e la coscienza da comes che la insegue a un intervallo di mezzo secondo. Tutto ciò sarebbe in fondo soltanto curioso, se Libet non avesse scoperto qualcosa di molto più inquietante: il fatto, cioè, che la stessa cosa succede non solo per la nostra percezione passiva, in cui è il mondo ad agire su di noi, ma anche per la nostra volizione attiva, in cui siamo (o dovremmo essere) noi ad agire sul mondo. Più precisamente, gli effetti cerebrali inconsci delle nostre decisioni precedono le loro supposte cause coscienti: ad esempio, quando decidiamo di muovere un dito, il movimento avviene dopo 150 o 200 millisecondi, ma le aree cerebrali ad esso preposte si attivano 350 o 400 millisecondi prima dell' ordine! Giustamente, nel capitolo finale del suo libro Libet si pone la domanda fatidica: «Che cosa significa tutto questo?», ma si limita a notare che il breve intervallo fra una volizione mentale e la sua esecuzione materiale è sufficientemente lungo per permetterci di inibire il movimento. In altre parole, il nostro libero arbitrio sembra essere compatibile con il compito negativo di evitare qualcosa che altrimenti succederebbe in maniera indipendente dalla nostra volontà: forse per questo i comandamenti etici, siano essi dettati da Jahvé a Mosè, o suggeriti dal daimon a Socrate, o proposti come regola aurea («non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te») da Confucio, sono più proibitivi che impositivi, e chiedono più di non fare che di fare. Accomodare il libero arbitrio con i compiti positivi, quali la versione cristiana della regola aurea («fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te»), è più complicato. Gli esperimenti di Libet mostrano infatti chiaramente che sia gli ordini coscienti, sia i loro supposti effetti, derivano da qualcosa che li precede entrambi, e che ne è la vera, nascosta, e per ora ignota causa (a meno, naturalmente, di voler ammettere fantascientifiche retroazioni temporali che permettano alle volizioni di attivare nel passato aree cerebrali che provochino un movimento nel futuro). Naturalmente, rimane da spiegare quale sia il valore evolutivo di quell' illusione chiamata volizione cosciente. L' ipotesi più interessante, per ora, ci sembra quella proposta dal fisico Erwin Schrodinger, premio Nobel nel 1932, nel suo libro Mente e materia, che si può illustrare con una metafora. Quando i primi uomini sbarcarono sulla Luna, il 20 luglio 1969, il volo della navicella spaziale procedette in maniera automatica fino all' atterraggio, a parte una piccola correzione di rotta effettuata manualmente da Armstrong all' ultimo momento, per evitare un ostacolo imprevisto: la coscienza è come quella correzione di rotta, necessaria fino a quando la navicella umana si sarà sufficientemente evoluta per poter procedere completamente col pilota automatico, come già fanno altre specie che noi con infantile superbia riteniamo e chiamiamo «inferiori».

La Repubblica 28.08.2007
L'impossibilità di misurare la nostra intelligenza
di Hans
Magnus Enzensberger

Probabilmente ogni società umana sviluppa un proprio catalogo di virtù in cui elenca le caratteristiche che ritiene degne di essere perseguite, anche quando non sono alla portata di tutti. Il valore di tali virtù è oscillante. Per il cruccio di quelli che se ne lamentano, la modernità non ha mai apprezzato in modo particolare qualità antiche e medioevali come la fedeltà, il coraggio, la saggezza, l' umiltà e la cavalleria. Le sue virtù cardinali sono piuttosto la flessibilità, la capacità di lavorare in gruppo e la determinazione. Più di ogni altra cosa, però, chi vuole farsi valere come contemporaneo deve a tutti i costi essere intelligente. Chi dà importanza a questa caratteristica sarà forse sorpreso nello scoprire che nessuno sa esattamente che cosa sia l' intelligenza. Molti hanno capitolato davanti alla tentazione di imprigionare questo irrinunciabile concetto in una definizione. Ma si sa che è un mezzo efficace per sabotare qualunque discussione. In un attimo una lite su un argomento si trasforma in lite sulle parole. «Non fare così», si dice al guastafeste, «tutti sappiamo a cosa ci si riferisce», oppure: «le definizioni sono improduttive». Viene in mente il celebre detto di Sant' Agostino, che alla domanda "che cos' è il tempo" rispose: «Se nessuno me lo chiede, so cos' è, ma quando lo voglio spiegare a chi mi interroga, non lo so più». (~) Dal patrimonio lessicale degli studiosi la "I-parola" (ovvero la parola intelligenza, ndt) è lentamente spostata per insediarsi nelle lingue popolari. Nell' Europa occidentale il suo significato filosofico è stato annacquato da sensi più profani. Soprattutto in Inghilterra e in Francia questo cambiamento ha portato a dei frutti singolari.
Lì, già nel diciassettesimo secolo, con intelligence non si intendeva solo una facoltà o la persona che la detiene, ma una "intesa segreta", e infine anche semplicemente una comunicazione o un messaggio. E' un utilizzo che nell' inglese sopravvive ancora oggi. Così si spiega il nome che si è data la Central Intelligence Agency, volgarmente Cia, un servizio che, come è noto, raramente si è distinto per aver prodotto alte forme di pensiero. L'
intelligenza ha avuto bisogno di molto tempo per diventare oggetto di ricerca. Una nuova scienza, la psicologia, se ne è appropriata raccogliendo l' eredità della filosofia e della teologia. Dal 1879, quando Wilhelm Wundt fondò a Lipsia il primo istituto dedicato a tali ricerche, gli psicologi hanno conquistato la sovranità sull' interpretazione del significato dell' intelligenza. Nella sua accezione corrente si tratta perciò di un' invenzione di cui l' umanità ha fatto a meno per alcune centinaia di migliaia di anni. Lo zelo degli psicologi non ha, comprensibilmente, lasciato a mani vuote la sociologia, che è riuscita ad aprire una nuova dimensione per la "I-parola". Un ceto, che in passato sarebbe forse stato definito "i lavoratori dello spirito", da allora si chiama intellighenzia. In questo caso si tratta certamente di un' importazione dalla Russia, dove dalla metà del diciannovesimo secolo la intelligenzija fiorisce. Il nostro moderno container di concetti ha dunque il vantaggio di essere molto spazioso e di poter ospitare un gran numero di varietà. Se qualcuno crede sul serio che intelligenza è uguale a intelligenza, si sbaglia. Gli esperti non hanno risparmiato le forze per mettere un po' d' ordine nel groviglio che si annida nelle nostre teste. Differenziano meticolosamente, come sono soliti fare, tra intelligenza biologica e psicometrica, motorica e razionale, analitica e creativa, linguistica e visiva, spaziale e logico-matematica, cinematografica e musicale, pragmatica e meccanica, interpersonale e intrapersonale, cristallina e fluida, funzionale e manipolatrice - e queste non sono neppure lontanamente tutte le varietà da riunire sotto lo stesso tetto. In questo esercizio si è distinto lo psicologo - o meglio psicometro - americano J. P. Guilford che nella sua opera The nature of Human intelligence è arrivato a centoventi varianti. Anche questa lista, tuttavia, non è minimamente completa. In continuazione vengono scoperte nuove specie. Negli ultimi decenni si sono dimostrate molto preziose l' intelligenza sociale ed emotiva, mentre l' intelligenza di comando e l' intelligenza del successo per adesso hanno goduto di scarsa considerazione accademica e fioriscono soprattutto nei manuali per manager. Sfrenato, poroso, diffuso, ecco come si rappresenta l' "I-concetto". Unificarlo è un obiettivo praticamente irraggiungibile. Forse dovremmo, piuttosto che vagare nel labirinto degli specialisti, cercare consiglio e informazioni presso una fonte che è accessibile a chiunque. E' il linguaggio, sul cui patrimonio linguistico sono piovute informazioni che sono state salvate per lunghi periodi di tempo. Purtroppo, un processo del genere non è possibile con i metodi scientifici. Si potrebbe però scoprire che il vocabolario della lingua quotidiana dispone di una capacità di differenziazione tanto ricca, da surclassare nettamente la terminologia accademica, in termini di sottili nuance e minime sfumature. Il nostro patrimonio lessicale non ha però nulla a che vedere con il giudizio imparziale che la ricerca tiene in così alta considerazione.


La Repubblica 28.08.2007

Il filosofo dedica al tema il suo ultimo libro: 'Nella vita non c' è mai una sola risposta giusta'

Il Quoziente d' Intelligenza? Non esiste
Così Enzensberger boccia test e quiz

Di Andrea Tarquini

BERLINO - I test d' intelligenza, cioè i laboriosi quiz inventati tra la fine dell' Ottocento e gli albori del Novecento per misurare il quoziente d' intelligenza di ogni individuo, sono un clamoroso flop. Vanno gettati alle ortiche: non sono assolutamente un mezzo adeguato per stabilire chi sia più capace. Parola di Hans Magnus Enzensberger. Il prestigioso intellettuale tedesco ha dedicato il suo ultimo pamphlet, di imminente uscita in Germania per i tipi dell' editore Suhrkamp (Im Irrgarten der Intelligenz, cioè "Nel giardino-labirinto dell' intelligenza", di cui qui pubblichiamo un' anticipazione mentre in Italia il volume verrà edito da Einaudi) a una gustosa smitizzazione dei test cui ancora oggi spessp ci affidiamo. «Da quando si è arrivati alla ricerca sul cervello e alla scienza della cognizione, la psicologia sperimentale è diventata qualcosa che fa pensare a pane vecchio o riscaldato», scrive Enzensberger. E' una condanna senza appello del metodo basato su quiz a cui l' interrogato - nei test delle aziende, degli eserciti, delle pubbliche amministrazioni - deve rispondere scegliendo quale delle risposte fornite è quella giusta. E' un metodo "welfremd", lontano anni luce dalla realtà, ci dice Enzensberger. E spiega: «Il dato comune di tutte le domande dei test è che di regola prevedono che la risposta giusta sia sempre una sola~il che è abbastanza raro. Nel mondo reale le situazioni in cui la scelta giusta è solo una sono piuttosto l' eccezione che non la regola. Quali che debbano essere le scelte - concorrere a un posto di lavoro o partecipare a una campagna elettorale, divorziare o firmare un contratto di fitto - affrontiamo numerose variabili, per di più interdipendenti tra loro. In una parola, le scelte sono complesse». Il mondo dei test, sostiene Enzensberger, è invece un mondo del quiz come sport intellettuale. Non arriva alla complessità propria della vita reale. Punta tutto sulla risposta veloce. Ignora i conflitti tra diversi obiettivi. Insomma, il mondo dei test, è la tesi del libro secondo il servizio che gli ha dedicato ieri la Frankfurter Allgemeine, fa sì che l' intelligenza - questa forza che ringiovanisce e rivitalizza - appaia invece una realtà vecchia e stantìa.


l‘Unità 28.8.07
Che Guevara/2
Per guida una donna, Hilda
di Maurizio Chierici

Nel quarantennale della morte, continua il nostro viaggio nella sua parabola esistenziale. Da hippy generoso a «Comandante»: è lei a mutarlo, l’amata che sposa nel 1955

In Guatemala Ernesto Guevara diventa il Che che a quarant’anni dalla morte sventola nelle bandiere delle piazze 2000. Si dichiarava apolitico ma scandalizzato dalla miseria atroce della gente e si lascia conquistare dalla rivoluzione di Arbenz, generale- presidente nei guai per aver nazionalizzato 84 mila ettari della United Fruit, regina delle banane. Che domina il Guatemala dal 1936. Il dottor John Foster Dulles ne è uno dei fondatori. Fra i soci, il fratello: Allen W. Dulles. John si è dato alla politica; fa il segretario di Stato. Allen dirige la Cia. Ecco perché l’oltraggio alla United isola il Guatemala.
Ma il Guevara del Guatemala è un medico innamorato della ragazza che lo trascina in politica. Oscurata nelle biografie, è il nodo d’amore che cambia la vita dell’hippy generoso. Hilda gli presenta le anime inquiete accorse da ogni America Latina per respirare una fragile libertà: nicaraguensi, peruviani come lei, salvadoregni che recitano Sandino. Gli presenta gli attivisti del Pgt, partito dei lavoratori, insomma comunisti che non hanno il coraggio di avvolgersi nel nome proibito dalla guerra fredda. Militanti senza sfumature. Burocrati coi quali il Che si scontra non accettandone l’incongruenza dogmatica, soprattutto la noiosità. Quando si offre di fare il medico nei villaggi indigeni della regione sperduta del Peten, accolgono la proposta con una domanda: «Prima di partire devi iscriverti al partito». «Compagno», risponde il Che, «quando vorrò la tessera lo farò per convinzione».
Litiga spesso con Rojo, «grasso riformista». Discute con Hilda, soprattutto dei libri che stanno divorando. Sono d'accordo sull’importanza degli scrittori russi «prerivoluzionari»: Tolstoj e Dostojevski. Li dividono Freud e Sartre. Il Che li adora, Hilda ne ammira l’intelligenza «sprecata».
Il Rojo, del quale raccolgo i racconti, è un politico dalle spalle coperte. Amicizie che allarga ogni giorno. Anche Guevara ne trae beneficio. Il cancelliere Osegueda cancella i loro debiti con l’alberghetto; l’ambasciatore dell'Argentina peronista, Nicholas Sanchez Toranzo, li accoglie con una cordialità che intiepidisce l’odio verso l’uomo forte di Buenos Aires. L’ambasciatore li ospiterà quando Arbenz cade, e sarà ancora Sanchez a tirar fuori Ernesto dal carcere strappando ai restauratori della «democrazia occidentale» gli arresti domiciliari dei quali il Che se ne frega per andare a giocare a scacchi nel ristorante frequentato da Hilda. Anche lei trema. Va e viene dalla prigione fino a quando scivola in Messico.
Mi piacerebbe sposarla, aveva confessato Ernesto a Rojo poco dopo il primo incontro. Ma a Hilda non lo dice. Rapporti di simpatia formale. Una volta trova il coraggio di chiederle una cosa: se lei e la sua famiglia sono di costituzione sana. E Hilda un po’ si arrabbia e un po’ ride: vuoi la mia cartella clinica per chiedermi la mano? Il Che non la chiede. Brontola: «sarebbe una buona idea». Hilda ne è amareggiata. Quando l’ha incontrato le era sembrato troppo bello per essere intelligente e troppo vanitoso («come sono vanitosi gli argentini»). Lentamente scopre un ragazzo diverso, illudendosi di costruire la vita assieme. Alla fine il Che si lascia andare. Finalmente fanno l’amore. Nel diario precisa quando è successo: 18 maggio 1955. Hilda lo conferma col pudore di un’intellettuale che sceglie le parole: «abbiamo deciso di unirci di fatto». Vanno a vivere nella casa di una poetessa venezuelana - Lucila Velàsquez - in via del Rin, proprio la casa che Rosalina Tuyuc una volta ha indicato con un gesto della mano. Vanno a ballare il tango di Gardel nella festa che ricorda Sandino. Hilda sa ballare, Ernesto le cammina sui piedi. Come nel lebbrosario dell’Amazzonia durante il primo viaggio con Granado, conta i passi un-due-tre trascurando la musica.
Attorno, la repubblica dell’utopia sta crollando. Gli Stati Uniti decidono di accelerare la restaurazione. L’United Fruit pretende altri 300 mila ettari concessi dai governi che avevano preceduto Arbenz. L’esercito del Guatemala è composto di professionisti fino a quel momento fedeli agli ordini del generale presidente. Di fronte all’ultimatum Usa e alla denuncia pubblica di Arbenz che teme l’invasione americana gli alti comandi restano silenziosi.. Come è successo vent’anni dopo con i contras all’assalto del Nicaragua sandinista, l’operazione parte dall’Honduras. È una delle poche volte che Guevara dà ragione a Rojo disilludendo i giovani rivoluzionari. Se gli Stati Uniti decidono, i generali cresciuti alla scuola Usa de Las Americas di Panama, si arrenderanno. Washington dà il via e i volontari per la libertà del Guatemala, guidati dal colonnello Castillo Armas sconfitto da Arbenz nelle elezioni 1950 marciano sulla capitale. Non tanti uomini, ma armati fino ai denti mentre aerei con strane bandiere fanno la spola tra la frontiera e i suoi mercenari per spianare il terreno ai contractors guidati da comandanti con la croce sul petto. « Salviamo l’occidente cristiano dall’oppressione comunista». Nessuna resistenza. Tra i mercenari stranieri un giovanotto si prepara a diventare un attore famoso: Philipe Le Roy Beaulieu, pecora nera di una nobile famiglia francese. Veniva dalla legione in Algeria, paracadutista in Vietnam quando si chiamava Indocina. Vuol continuare a combattere e si offre a chi paga. Me lo racconta dopo il successo dei Sette uomini d'oro nella bella casa di Roma affacciata sulla cupola di San Pietro. «Non abbiamo incontrato nessuno. Forse ci aspettavano da un’altra parte. Una passeggiata». Poco convinto che il popolo avrebbe difeso Arbenz, il Che guarda gli aerei che bombardano indisturbati. «Con un po’ di vergogna devo confessare che mi sono divertito come un pazzo, mi sentivo invulnerabile», scoppi e fumo lontani. L’ambasciatore Sanchez apre le porte agli argentini in difficoltà. Rojo è già partito in corriera per gli Stati Uniti e il funzionario ridiventa il burocrate che fa rispettare la legge. Ogni rifugiato deve dichiarare d’essere perseguitato perché comunista. Nome, cognome e firma. Rojo racconta: chi è scivolato dal Guatemala con quel marchio, a Buenos Aires finisce nelle carceri della dittatura militare. Qualcuno non torna.
Guevara prende la strada del Messico, Hilda preferirebbe il Perù. Ernesto ha 26 anni, manca da casa da due. «Accompagnami fino alla prima fermata del treno…». E Hilda lo accompagna. Ultimo abbraccio senza la speranza di riabbracciarsi.
Il viaggiatore deluso ha in tasca una lettera del padre con l’indirizzo di un vecchio amico: Ulisse Petit de Murat. A Buenos Aires madre, padre e l’adorata zia Beatrix sono preoccupati per il futuro dello scavezzacollo. «Potrebbe fare l'attore…». De Murat è introdotto in quella che sta diventando la capitale del cinema con Bunuel e i registi russi, Pedro Amerndarez e Maria Felix. Chissà…
Va in Messico per far tappa e ripartire: l’Europa, questa volta. Bologna è una scuola di medicina famosa: vorrebbe approfondire i problemi dell’asma anche per ragioni personali. Invece il Messico diventa il passaggio che ne segna la vita anche se comincia con gli affanni di sempre: come sbarcare il lunario.
Un signore massiccio si mette in posa davanti alla macchinetta di un fotografo da strada: insegue come un mendicante i passanti nel parco di Chapultepec. «Perché no?», sorride il fotografo. Rojo è arrivato in aereo negli Stati Uniti per abbracciare Ernesto il quale si guadagna da vivere così. Ha tentato altre strade: archeologo, venditore di libri a domicilio. Con mille gentilezze l’amico del padre gli fa capire che la carriera di attore è complicata. Bisogna aver pazienza, ma il Che non può aspettare. All’improvviso Hilda bussa alla sua porta e dopo qualche mese annuncia di aspettare un bambino: «Lo chiameremo Vladimir Ernesto». Invece è una bambina: Hildita. L’annuncio di Hilda lo costringe a chiudere la vita senza radici: una compagna e una bambina, deve decidersi a tirare avanti col grigiore di tutti. E sposarsi. Hilda resta dubbiosa. A Città del Messico Guevara ha ritrovato i cubani incontrati in Costarica e i cubani che condividevano le speranza del Guatemala. Si accatastavano nel casermone degli Appartamenti Imperiali (racconta Rojo) confusi nella sterminata colonia habanera. Aspettano che Fidel Castro venga liberato dall’amnistia promessa dal generale Batista. Raul, il fratello, è già arrivato. Il Che sente la necessità di rompere gli obblighi delle contingenze - soldi per mangiare, dormire, vestirsi in qualche modo - e ricomincia ad inseguire «l’avventura positiva» che lo ha infilato nel treno della stazione di Retiro. L'avventura positiva che fanno balenare gli esuli cubani è liberare Cuba dalla dittatura. Hilda non sopporta che la sua testa voli sempre altrove. Quale fiducia può garantire chi vuol sempre scappare? Resiste fino a quando resta incinta. Si sposano nell'agosto ‘55. Fidel doveva fare da testimone, ma Fidel è negli occhi della polizia. Meglio non correre rischi. Arriva all’ora di pranzo. Assaggia l’asado del Che: «Credo di essere un cuoco più bravo…». E ricambia preparando personalmente il cenone di Natale, lusso che fa eccezione nella politica dei centesimi contati: sta raccogliendo dollari (con discorsi negli Usa e sostegno del partito ortodosso contrario a Batista) per comperare la «nave» che li sbarcherà a Cuba. E quando trova un vecchio yacht - il Granma - servono altri dollari per tenerlo a galla.
Ernesto frequenta Raul Castro. Biondino, silenzioso. Ha partecipato all’assalto fallito alla caserma Moncada. Ha frequentato i festival della gioventù comunista. Europa, sospira il Che ascoltandolo. È un marxista concreto che ravviva i fuochi teorici respirati con Hilda e i suoi compagni. Un giorno Raul gli presenta Fidel, graziato e in libertà. Altissimo e con la voce afona di un bambino, prima impressione del Che.
Un colpo di fulmine. A Castro piacciono le storie interminabili della sua traversata dell’America Latina; il Che è incantato dalla scommessa impossibile che l’avvocato con occhiali e baffi sottili come un ballerino di tango, disegna con la precisione di un sogno che vive ad occhi aperti. Parlano e parlano: ore, giorni. Diario di Rojo: «Riabbraccio Nico Lopez conosciuto in Guatemala. Morirà nell’avventura del Granma. La comunità cubana è una comunità loquace che sempre discorre a voce alta a cavallo delle sedie o rannicchiata sul pavimento. Brusio imperforabile ed Ernesto mi prende un braccio: andiamo a parlare in cucina. In cucina c'è Fidel. Sta cucinando una gigantesca pentola di spaghetti». Rojo vuol sapere tante cose, Castro risponde tenendo d’occhio la cottura. «Stanno preparando una gigantesca provocazione nei nostri confronti ( poco dopo verrà arrestato assieme agli altri, Che compreso), ma ti assicuro che appena avremo messo piede a Cuba, ogni bomba nascosta all’Avana brucerà le lingue di chi parla male di noi. La gente si precipiterà in strada con le armi in mano». Dal Messico Rojo passa per l’Avana nel viaggio di ritorno in Argentina. La trova assediata da un numero impressionante di militari. Gli raccontano delle navi che vigilano le coste e aerei spia Usa in volo. Ernesto pensa solo all’impresa che darà significato alla sua vita. Hilda parte per il Perù con Hildita e il Che resta solo. «Con gli occhi vuoti», racconta Gino Doné, l’italiano di San Donà del Piave che gli è al fianco in Messico.
( 2- continua )


l‘Unità 28.8.07
«Tutti pazzi per la Grecia ma ha anche facce oscure»
di Giuliano Capecelatro

NELLA PERCEZIONE COMUNE prevale spesso un’idea superata: la culla della civiltà, Atene dove fioriscono democrazia e bellezza. Ma la storia dell’Ellade non è priva di ombre: gli schiavi, la condizione di inferiorità della donna. Come spiega in quest’intervista la professoressa Eva Cantarella

«Olimpia? Ma è il simbolo stesso della grecità. Il luogo in cui i Greci si sentivano per una volta nazione». Risponde da una barca. Casualmente proprio davanti alle coste greche. Per sua fortuna, a considerevole distanza dalle terre devastate dalle fiamme. Eva Cantarella, ordinario di Istituzioni di diritto romano e di Diritto antico greco alla Statale di Milano, è in vacanza. Ma l’argomento, che da decenni è al centro dei suoi interessi, e su cui ha scritto libri importanti, la stuzzica troppo perché si sottragga alle domande che rimbalzano da Roma via cellulare. Olimpia simbolo della grecità, che informa la civiltà moderna. Come dire che è l’Occidente stesso che sta andando a fuoco.
«Io eviterei certi luoghi comuni. Sì, Olimpia rappresentava la grecità. Qui i Greci, impegnati di solito a guerreggiare tra loro, concludevano la pace olimpica per la stagione della gare, due mesi. Ma lo spirito con cui si andava ad Olimpia era del tutto differente da quello dei nostri giochi olimpici».
Vuol dire che non strombazzavano, come si fa oggi sotto la sferza degli sponsor, di sport che affratella?
«Al contrario. Si andava ad Olimpia ben determinati a vincere. La vittoria faceva addirittura parte dell’etica del cittadino. Vincere se stessi e gli altri rappresentava un valore positivo. Significava aver dato il meglio di sè. E le gare atletiche mostravano la virtù di un uomo. La percezione della Grecia è molto legata ad una visione storiografica superata. Il miracolo greco. Atene dove tutto fiorisce, la Grecia culla della civiltà. Una concezione romantica alla Winkelmann».
È indubbio, però, che quei valori sono arrivati fino ad oggi.
«In realtà quando De Coubertin ha rispolverato i giochi olimpici, ha inventato un motto che è proprio l’antitesi di quello che pensavano i greci. Per loro non era importante partecipare, ma soltanto vincere. Il poeta Pindaro scrive che chi perde a Olimpia torna a casa per sentieri obliqui».
Insomma i costumi erano alquanto degenerati rispetto ai tempi degli eroi di Omero.
«E perché? Gli eroi di Omero fanno a gara a chi ammazza di più. L’eroe è il più forte, quello che vince. Solo in seguito questa concezione sarà stemperata da valori collaborativi, come l’idea di giustizia».
Che peraltro non ha mai prodotto una costruzione monumentale simile al diritto romano.
«Il diritto greco è stato qualcosa di molto diverso. Non c’è stata una scienza giuridica. Soltanto pratica. Non si faceva riflessione teorica. Era un compito riservato ai soli filosofi. Quel poco che sappiamo, lo abbiamo appreso per lo più da opere letterario. Il che ha un suo fascino. La giustizia era il campo in cui si cimentavano i grandi retori. Che scrivevano discorsi, difese e accuse, che i loro clienti ripetevano poi a memoria davanti al giudice. Bisognava incantare i giudici popolari, che in qualche processo ad Atene arrivavano alla bella cifra di cinquecentouno. E i retori erano abilissimi a imbrogliare le carte. Anche perché i giudici non conoscevano la legge. Era la parte che doveva esporgliela, come elemento di prova».
Sembra di scorgere qualche ombra su quella che acriticamente viene considerata un’epoca dell’umanità luminosa.
«Tantissime ombre. Intanto era una società fondata sullo schiavismo. Con Aristotele che teorizzava convinto l’inferiorità naturale dello schiavo. Riservando lo stesso trattamento alla donna. Cui si assegnava una capacità di deliberare di poco superiore a quella di uno schiavo. Persino nella riproduzione le veniva assegnato un ruolo passivo. Un recipiente. Il vero genitore era il padre».
Non si può disconoscere, però, che la civiltà moderna debba tanto all’Ellade.
«Certo. Ma non era tutta farina del loro sacco. I Greci avevano debiti cospicui. Con la civiltà mediorientale. Fino a qualche tempo fa si ammetteva solo qualche lascito dagli ittiti, popolo indoeuropeo, perché dominava una concezione eurocentrica. Oggi sappiamo bene che i debiti c’erano anche con le civiltà semite, con l’Egitto. La mitologia riprende temi orientali. Crono che castra Urano è presente anche nelle mitologie mediorientali. Non sono figure che sorgono autonomamente dappertutto. E l’alfabeto fenicio viene rielaborato, reso più duttile, ma è sempre una derivazione».
Dunque, non una ma tante Grecie quanto erano le città-Stato. Cosa rappresentavano e cosa possono rappresentare per l’uomo moderno?
«Atene è senza dubbio la democrazia. E la democrazia è anche l’arte, la bellezza. Tanto grande da non farci vedere le ombre, che appunto ci sono. Sparta... Sparta è il simbolo dell’aristocrazia. ma anche del rigore morale. Delle madri che davano lo scudo al figlio che partiva per la guerra e dicevano: o con questo o su questo. Delfi si identificava con la Pizia, le profezie, l’al di là...»
Il lato oscuro che spesso trascurato, l’orfismo...
«Ma c’era anche un aspetto positivo in questo. Costruttivo. Si andava dall’oracolo per avere un responso su una città da fondare. Un elemento razionale. Non era tutto concentrato sui fumi che uscivano dalla terra».
E all’uomo moderno cosa può dire ancora quella civiltà, oltre alla visione dei suoi resti?
«Agli italiani, agli europei, che hanno una superiore cultura classica, molto. Il Partenone, anche se mitizzato, resta un simbolo unico della bellezza e della civiltà. Salire sull’Acropoli di Atene è sempre una grandissima emozione. Fa penetrare una luce nelle coscienze».

il manifesto 28.8.07
La politica che non abita in una casa di vetro
di Nicola Tranfaglia

È senza dubbio utile, e da consigliare a chi segua la politica italiana, l'inchiesta pubblicata dal Sole-24 ore venerdì 24 agosto scorso.
Da quell'inchiesta, in tempi nei quali gran parte della stampa italiana, per non parlare dei telegiornali, dedicano molto spazio e numerosi editoriali al protocollo sul welfare e alla manifestazione del 20 ottobre indicata di solito come l'inopportuna, se non pericolosa iniziativa della sinistra cosiddetta radicale, emergono alcuni dati della situazione italiana che altrimenti sono di rado conosciuti dai cittadini comuni.
Il primo è che una parte non irrilevante di presidenti di regioni e di province (Cuffaro re di Sicilia e Gasbarra presidente della provincia di Roma) come di sindaci di grandi città (tra loro Walter Veltroni a Roma e Letizia Moratti a Milano) dovranno pagare diecimila euro di multa allo stato perché dopo otto mesi non hanno rispettato l'obbligo, imposto dal comma 735 della Finanziaria del 2007, di pubblicare sul sito web della propria istituzione i compensi pagati agli amministratori delle società partecipate.
Nel caso del comune di Roma le società partecipate sono 83 e non sono disponibili sul sito web del comune. Non parliamo dei ministeri che in misura di due su tre non hanno pubblicato incarichi e consulenze di cui si servono.
Il secondo elemento leggendo l'inchiesta è che i compensi giungono a cifre non irrilevanti e riguardano economisti,giuristi e sociologi oltre che ex politici e si aggirano spesso su cento o duecentomila euro all'anno. Si tratta di persone che per così dire vivono di altro e aggiungono dunque al proprio reddito mensile un assegno annuale di un certo rilievo.
Infine colpisce la provenienza partitica degli incarichi che si collega nella maggior parte dei casi a persone che sono già stati sindaci, assessori, deputati. Che sono insomma professionisti della politica e che continuano a avere con il pubblico un rapporto destinato a non finire mai:semmai a cambiare di forma e di modalità ma a rimanere stabile, più di un contratto di lavoro a tempo determinato.
Sono quelli che si chiamano i costi della politica e non riguardano i costi delle due Camere o del Quirinale ma, in compenso, sono diffusi e presenti su tutto il territorio nazionale.
Sarebbe interessante conoscere anche stipendi e consulenze che riguardano una (se non la più grande) delle maggiori aziende pubbliche del paese, la Rai ma nessuno è riuscito a acquisire finora simili dati, neppure la commissione parlamentare di Vigilanza che ha poteri di controllo e di vigilanza in base alle leggi vigenti.
Resta il fatto che l'inchiesta del Sole 24 ore, rivela come la classe dirigente italiana sia pronta a protestare e a condannare qualsiasi critica mossa all'accordo che il governo Prodi ha concluso nel luglio scorso con i sindacati confederali, a condannare in anticipo qualsiasi dimostrazione popolare ma nulla ha da dire di fronte a una questione come quella di cui abbiamo parlato che mostra, mi pare,una notevole disinvoltura della classe politica, una tendenza a nascondere quello che tutti gli italiani dovrebbero poter vedere e giudicare.