martedì 14 agosto 2007

Repubblica 14.8.07
Con l’eroina la vita è nulla
Oggi parlare di morte , secondo Baudrillard, fa ridere di un riso forzato e osceno, è pornografia
di Umberto Galimberti

Dovevamo aspettare Irvine Welsh, l´autore del romanzo Trainspotting, per apprendere che l´eroina, considerata una droga "sporca", anestetizza tutti i dolori, e che una delle cause della sua diffusione è dovuta al fatto che l´informazione, mentre terrorizza i giovani illustrando le drammatiche conseguenze connesse all´assunzione della sostanza, trascura di dire che l´eroina procura anche uno sconfinato piacere. E così si confina il problema della droga nel recinto ristretto del piacere-dispiacere come si fa con il tabacco e con l´alcol, sottintendendo che, se la questione è tutta lì, per uscirne basta la forza di volontà. Ma la questione non è tutta lì, anzi non è proprio lì.
Alla base dell´assunzione di eroina, ma forse di tutte le droghe, anche del tabacco e dell´alcol, c´è da considerare se la vita offre un margine di senso sufficiente per giustificare tutta la fatica che si fa per vivere. Se questo senso non si dà, se non c´è neppure la prospettiva di poterlo reperire, se i giorni si succedono solo per distribuire insensatezza e dosi massicce di insignificanza, allora si va alla ricerca di qualche anestetico capace di renderci insensibili alla vita.
A differenza del piacere sessuale che è intenso, attivo e produttivo, il piacere dell´eroina è "anestetico". Chi lo cerca non vuol sentire di più, ma sentire di meno, non vuole partecipare più intensamente alla vita, ma prendervi parte il meno possibile.
Come i martiri, come gli eremiti che dicono no al mondo perché nel mondo non scorgono alcun senso e alcuna traccia di salvezza, così gli eroinomani si sottraggono alla vita quotidiana perché la successione dei giorni diffonde solo quella noia senza speranza che ispessisce l´aria che si respira fino al soffocamento. Di qui la ricerca spasmodica per tutto ciò che può anestetizzare.
L´anestesia concessa da "quella belva dispotica e indomabile", come vuole l´immagine di Platone, spinge ad aggrapparsi ad essa senza poter più tendere ad altro. E allora torna qui in mente la dialettica hegeliana servo-signore, nonché la metafora heideggeriana del pendio, in tedesco Hang, da cui hangen, essere appeso, e anhangen, dipendere. Torna il concetto lacaniano di manque, la mancanza come molla del desiderio, e la teoria freudiana del piacere narcotico come piacere affascinante perché doppiamente negativo: fa cessare il dolore fisico e fa da sedativo al male di vivere.
Sulla traccia dell´etica aristotelica, Freud ipotizza che il nostro cervello sia fatto per godere dell´inerzia e della noncuranza, assecondando le quali, non ci si cura di nient´altro se non di quell´oggetto che pensiamo possa dispensarci da ogni cura. Tale è l´oggetto tossico, nevrotico, onirico, in presenza del quale la pulsione si fa insistente, implacabile e coatta, dove il desiderio, come vuole il nichilismo denunciato da Platone e da Aristotele, è sempre vivo perché insoddisfatto, e insoddisfatto perché il piacere che cerca è negativo, è l´uscire dalla pena dell´insaziabilità del desiderio.
Per questo la droga che anestetizza ha un successo da far invidia al sistema moderno delle merci, dal momento che nessun bene di consumo può competere con essa in termini di soddisfazione e di piacere anestetizzante. Qui filosofia e psicoanalisi convengono nel dirci che quando la voluttà tende all´anestesia (e tutte le droghe, anche quelle euforizzanti che i nostri giovani consumano ogni sabato sera nelle discoteche, sono paradossalmente anestetiche perché anestetizzano dal prendersi cura degli altri e del mondo), l´appetito si fa divorante, ma il prodotto con cui si tenta di placarlo si rivela di volta in volta sempre più insoddisfacente.
Per questo, il piacere dell´anestesia è il più sottile dei piaceri, forse il più insidioso, senz´altro il più diffuso. Lo incontriamo ogni volta che accendiamo una sigaretta per attutire noia o stress, piccoli indizi della fatica di vivere, ogni volta che ci affidiamo all´alcol per liberare quanto siamo costretti abitualmente a reprimere. Tutto ciò avviene quando si è detto sì alla vita e ci si vuol solo sostenere per mantenere la promessa.
Quando invece alla vita si è detto no, senza neppure bisogno di dirlo, perché è la vita stessa a non essere mai sorta come una passione, allora si cerca un piacere anestetico più forte, che vuol dire cercare un modo qualsiasi per non esserci.
I recettori che l´eroina impregna fanno già da sé il lavoro anestetico, ma se questo non basta, perché la vita nella sua insensatezza oltrepassa i limiti di sopportazione previsti dalla nostra fisiologia, non resta che aiutare i nostri recettori a renderci più insensibili a tutto ciò che non si ha più voglia di sentire, né di vedere, né di sopportare.
E questo perché? Perché, spiega Freud, accanto alla "pulsione di vita", c´è in noi anche una "pulsione di morte" che sempre la fiancheggia, come sua ombra. Non solo nel caso dei tossicomani ma, come possiamo constatare se appena prestiamo un minimo di attenzione alla nostra esistenza, in ciascuno di noi. E´ questo un pensiero difficile da pensare, soprattutto nella nostra cultura dove, come scrive Jean Baudrillard: «Parlare di morte fa ridere di un riso forzato e osceno. Parlare di sesso non provoca più nemmeno questa reazione: il sesso è legale, solo la morte è pornografica».
Esorcizzata, messa fuori dal circuito dei nostri pensieri e delle nostre conversazioni, la "pulsione di morte" finisce con l´essere attestata ed evidenziata proprio dai tossicomani che la praticano come esercizio quotidiano. Infatti, come scrive Giovanni Jervis nel suo Manuale critico di psichiatria (Feltrinelli): «Nel comportamento dei tossicomani è possibile constatare con particolare chiarezza l´esistenza di un problema psicologico che costituisce uno degli enigmi fondamentali della psichiatria: la tendenza a tornare a ripetere molte volte schemi di comportamento chiaramente fallimentari. In termini un po´ tecnici, si può sostenere l´ipotesi che i tossicomani, come altri, abbiano la tendenza a meta-storicizzare una situazione di scacco, e di crisi, ritualizzandola attraverso la ripetizione. Ma in molti casi, soprattutto di alcolisti e di eroinomani, la tossicomania diventa, da un certo punto in poi, volontà di morte: cioè in pratica un progressivo suicidio». A questo punto il problema non è quello di far sapere ai giovani che, per evitare terribili conseguenze, bisogna saper rinunciare al piacere che l´eroina indubbiamente offre, perché chi prende a bucarsi, non ha in vista quel piacere, ma proprio quelle terribili conseguenze a cui desidera arrivare anestetizzato. Il no alla vita non è ciò che si trova alla fine di un percorso intrapreso per la ricerca del piacere, ma è ciò che si trova all´inizio del percorso, ciò che da subito ci si propone di raggiungere nel modo più anestetizzato possibile.
Questa è la ragione per cui quanti si fanno ripulire i recettori dai farmaci si trovano, a lavaggio avvenuto, davanti alla stessa insensata biografia del cui peso avevano cercato di liberarsi con l´anestetico. Ma questa è anche la ragione per cui quando la comunità terapeutica ha disintossicato il drogato con il calore della comunicazione non può che riconsegnarlo al mondo esterno, dove quel calore si raggela e il bisogno dell´anestesia ritorna più urgente, soprattutto quando, in assenza di qualsiasi progetto, la propria vita non si configura come "storia", ma come pura successione di "momenti", scanditi dalla sofferenza dell´astinenza che, spasmodica, chiede di essere placata con la periodicità delle assunzioni.
La disintossicazione farmaceutica e la disintossicazione comunitaria, l´una con la chimica l´altra con il calore della comunità, alla fine restituiscono l´individuo alla sua esistenza nuda e cruda, da cui un giorno quell´individuo si era allontanato perché la vita non aveva "fatto presa". E dove la vita non fa presa non c´è chimica né comunità che tenga, c´è solo la voglia di non vivere come puro quantitativo biologico. E se la biologia segue la sua legge o costringe a vivere quella vita in terza persona scandita dai ritmi dell´organismo, allora non resta che il piacere dell´anestesia, quel sì alla vita, purché in nostra assenza, che è il sì di ogni esistenza traghettata dalla droga.
I lettori di Trainspotting, e quanti sono accorsi a vederne la versione cinematografica, non si lascino ingannare. Sia il libro sia il film dicono che la droga è anche piacere, e chiunque è libero di cercare il piacer suo e di preferire una vita breve ma piacevole a una lunga ma insignificante.
Non è vero! Il piacere della droga non è la scelta di una maggiore intensità della vita al prezzo della sua brevità, è la scelta dell´astinenza dalla vita, perché questa, una volta apparsa in tutta la sua insignificanza, prosegua pure il tracciato della sua insensatezza, ma risparmiando almeno il dolore. A questo tende il piacere dell´eroina, ossia il piacere dell´anestesia, a null´altro.

(2-continua)

Repubblica 14.8.07
Il sesso dei libertini
Le perversioni morali dell'aristocrazia
di Benedetta Craveri

Come Montesquieu e Rousseau di cui era discepolo fedele anche Laclos adottò il romanzo epistolare e fece proprie le idee rivoluzionarie degli illuministi

Torna in una nuova traduzione "Le relazioni pericolose" di Choderlos de Laclos un classico settecentesco, una corrosiva critica sociale

La nobiltà, diceva lo scrittore, era troppo corrotta per potersi rigenerare da sola
I protagonisti formano una coppia unita dallo stesso nichilismo implacabile e feroce
Valmont e la Merteuil sono vittime di un delirio di onnipotenza che li distruggerà

Apparse nel 1782. Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos possono essere lette, assieme alle Massime, caratteri aneddoti, di Chamfort, come la desolante conclusione della grande inchiesta sulla società francese avviata sessanta anni prima da Montesquieu con le Lettere persiane. Nel suo capolavoro giovanile, l´autore dello Spirito delle Leggi aveva tracciato l´identikit di una società frivola, galante, imprudente, teatrale, eppure «capace di coraggio, di generosità, di franchezza, di un certo senso dell´onore». Una società sostanzialmente libera, vitale e aperta al futuro. Ma già a partire dagli anni 1760, ancora in pieno trionfo dei Lumi, quest´arte aristocratica del vivere assieme, che aveva fatto di Parigi la capitale d´Europa, trovava in Rousseau un censore implacabile. Discepolo fedele di Jean-Jacques, Laclos ne riprendeva, un ventennio dopo, le imputazioni, giungendo a conclusioni ancora più radicali. Nel denunciare, nella Nouvelle Héloïse, l´artificio, l´impostura e la volontà di dominio del bel mondo parigino, Jean-Jacques proponeva come contro-modello l´utopia salvifica di Clarins, una comunità basata sulla virtù e la trasparenza dei cuori. Per Laclos, invece, l´élite nobiliare francese appariva troppo irrimediabilmente corrotta per potersi rigenerare dal suo interno: aveva bisogno di una riforma morale imposta dall´esterno, di una «rivoluzione» che doveva presto diventare realtà e di cui lo scrittore, con il sopraggiungere del 1789, non avrebbe esitato a farsi parte attiva.
Preoccupazione centrale dell´Età dei Lumi, la riflessione sulla società e sulla natura dei rapporti che ne costituivano il criterio di valore, trovava in effetti nei tre grandi romanzi di Montesquieu, di Rosseau e di Laclos la sua espressione più suggestiva. Né era casuale che la formula narrativa adottata dai tre scrittori fosse quella del romanzo epistolare «polifonico». Essa permetteva, lettera dopo lettera, di illustrare con immediatezza la varietà dei caratteri e la diversità dei punti di vista dei diversi corrispondenti e, al tempo stesso, di servirsene per ricostruire un contesto sociale più ampio. E consentiva ugualmente di inscrivere la riflessione morale, politica, filosofica dell´autore all´interno stesso della logica narrativa, facendone parte integrante dello scambio epistolare.
Laclos per primo sembra invitarci a una lettura in chiave sociologica del suo capolavoro, definendolo una «raccolta di lettere di una intera società». E non stupisce che una specialista di Baudelaire come Cinzia Bigliosi Franck abbia privilegiato questa prospettiva critica nel presentare la nuova edizione de Le relazioni pericolose da lei curata per la casa editrice Feltrinelli (pagg. 373, euro 9,00). Negli appunti preparatori di un saggio che intendeva scrivere sul romanzo di Laclos, il poeta dei Fiori del male, non faceva forse sua l´indicazione dell´autore e non vedeva in questa storia che «brucia come il ghiaccio», «un libro di vita di società», un «libro essenzialmente francese», un libro «terribile ma sotto la frivolezza e le convenienze»?
Proviamo dunque, partendo dalle osservazioni dalla Bigliosi e della sua nuova traduzione italiana, piacevolmente scorrevole malgrado la sua estrema aderenza al testo francese, a riprendere in mano questo romanzo spietatamente lucido e al tempo stesso sommamente ambiguo.
Il grande tema del libro è il libertinaggio, un male mortifero che avanza mascherato e mina dal suo interno una società quella del «bel mondo» aristocratico così «calcificata» da essere incapace di riconoscerne la presenza, rendendo pericolose anche le relazioni apparentemente più innocenti.
Eppure non era sempre stato così. Per tutto il Seicento «libertinaggio» era stato sinonimo di libero pensiero e anche quando nei primi decenni del Settecento, il termine aveva perso la sua connotazione filosofica, per indicare semplicemente coloro che perseguivano senza remore morali il piacere dei sensi, non aveva per questo assunto un significato necessariamente negativo. Nei romanzi di Crebillon, ambientati al tempo della Reggenza, il libertinaggio appariva già come lo sport preferito di una società oziosa e narcisistica, ma segnava anche una vittoria della «filosofia moderna» sugli ipocriti formalismi di un´ideologia dell´amore diventata obsoleta.
Sotto il segno dell´"amour-goût", uomini e donne stabilivano un nuovo patto di complicità ludica che consentiva loro di conciliare desiderio e rispetto delle forme e di riconoscere la legittimità del piacere sessuale in armonia con il pensiero naturalistico settecentesco. E´ quanto avrebbe, d´altronde, teorizzato qualche decennio dopo Diderot nel Sogno di d´Alembert. E non si può non riconoscere che, al di là della monotonia e della ripetitività delle tematiche e delle situazioni, una stessa esigenza di libertà, una stessa sfida ai divieti della chiesa e dello stato assoluto sembra accomunare la maggior parte della produzione letteraria erotico - libertino - pornografica del tempo, facendone una alleata preziosa dei Lumi nella lotta ad oltranza contro ogni principio d´autorità imposta dall´alto.
Ne Le relazioni pericolose, invece, il libertinaggio descritto da Laclos non obbedisce più a un´esigenza libertaria, non promuove più una moderna morale del piacere volta ad esaltare l´autonomia dell´individuo, è dichiaratamente al servizio di un progetto dispotico. Per Valmont come per la marchesa di Merteuil la posta in gioco non è tanto il godimento sessuale quanto l´esercizio incondizionato di una perversa volontà di dominio.
Ricordiamo brevemente la trama. Per vendicarsi del conte di Gercourt, un bellimbusto alla moda che l´ha tradita, la marchesa di Merteuil chiede aiuto al cavaliere di Valmont con cui intrattiene, dopo esserne stata l´amante, una amicizia complice. Valmont dovrà fare di Gercourt «lo zimbello di Parigi», seducendone la giovane fidanzata, l´ingenua e inesperta Cécile, ed educarla o, per meglio dire, depravarla sessualmente, mandandola all´altare già gravida. Il cavaliere si cimenterà, oltre che in questo, nella ben più difficile conquista della angelica presidentessa di Tourvel con l´impegno di sacrificarla alla marchesa dopo averne ottenuto la capitolazione. A rendere questo progetto possibile non è solo la diabolica astuzia dei due libertini ma la loro perfetta padronanza di un codice di comportamento mondano che consente loro di ordire impunemente i loro intrighi criminali sotto gli occhi di una società fatua, dimentica dei suoi valori e attenta soltanto alle forme. Se la verità finirà per emergere è esclusivamente perché la Merteuil e Valmont, rotto il patto che li univa, sono passati a farsi una guerra all´ultimo sangue, perdendo così il controllo del gioco. La lezione che ne ricaveranno quanti se ne erano lasciati ingannare non lascia adito alla benché minima speranza di rigenerazione. «La nostra ragione» si limiterà a dichiarare l´improvvida madre di Cécile, «già così insufficiente a prevenire le nostre sventure, lo è ancora di più a consolarcene».
Il primo grande colpo di genio di Laclos è quello di rinnovare lo schema abituale della narrativa libertina mettendo in scena, al posto di un solo protagonista, una coppia. Un uomo e una donna, uniti dallo stesso nichilismo feroce, che incarnano la personificazione maschile e femminile del libertinaggio e mostrano come non ci sia pacificazione possibile ma solo accordi provvisori nella guerra tradizionale tra i sessi. Inutile chiedersi chi dei due risulti il più forte: credendosi entrambi padroni del proprio destino e accecati da questa illusione, ambedue finiranno per essere vittime di un delirio di onnipotenza che li porterà all´autodistruzione.
Vi è certamente la tendenza a vedere in Valmont una vittima della Merteuil. Succube della marchesa il cavaliere le sacrificherebbe la passione che ha saputo ispirargli Madame de Tourvel, provocando così la follia e la morte della donna amata e precludendo a se stesso la possibilità di essere felice nella pienezza della vita affettiva.
Questa interpretazione, tuttavia, come ha mostrato Pierre Hartmann in uno studio importante (Le contrat et la séduction. Essai sur la subjectivitè amoureuse dans le roman des Lumières, París. Champion, 1998) fa torto alla lucidità di Valmont e inficia la coerenza di un personaggio che Laclos ha eretto a simbolo di quell´ordine sociale obsoleto e corrotto di cui i Lumi non erano ancora riusciti ad avere ragione. Il cavaliere è una figura del passato, un eroe decaduto di Corneille, un superuomo narcisista che si possiede saldamente e basta a se stesso. In accordo con la morale della sua casta egli cerca «la gloria» non più, come ai tempi d´oro della nobiltà, sui campi di battaglia ma nel libertinaggio. E poiché la gloria è direttamente proporzionale alla difficoltà dell´ostacolo con cui misurarsi, la conquista di Madame de Tourvel gli appare doppiamente meritoria. Essa, infatti, deve fare i conti con un ostacolo esterno, la virtù della vittima prescelta, e uno interno, il sentimento inatteso che ha messo radice nel suo cuore. Perché Valmont avverte chiaramente che l´amore che prova per la Tourvel, l´amore autentico di cui fa per la prima volta esperienza è una relazione tra persone, un´apertura all´altro incompatibile con l´ideologia libertina di cui egli si vuole l´interprete supremo. Per salvare l´integrità del suo io minacciato, il cavaliere mette a punto una strategia implacabile di cui è pronto a pagare il prezzo. Dopo aver trionfato sui «pregiudizi» della sua vittima e averla indotta a darsi liberamente a lui per amore, le spezzerà il cuore con un congedo umiliante. Come lui stesso lucidamente dichiara «degradata dalla sua caduta, ella ritornerà così ad essere per lui una donna qualunque», consentendogli di trionfare definitivamente su se stesso. Un trionfo irreparabile di cui il cavaliere non sarà in grado controllare le tragiche conseguenze.
E´ precisamente per evitare la sorte in cui è incorsa madame de Tourvel, per non soggiacere alla iniqua condizione di sudditanza imposta alle donne dalla società patriarcale, che Madame de Merteuil ha imparato fin da giovanissima l´arte della dissimulazione. E´ per essere libera e «vendicare il suo sesso» che ella ha optato per il libertinaggio e ne ha fatto la sua scelta di vita.
L´attenzione che Laclos ha dimostrato in vari suoi scritti per i problemi legati alla condizione femminile potrebbero indurre a credere come propongono i women's studies - che a differenza di quella del tutto sterile di Valmont, la sfida libertina della Merteuil guardi al futuro. Ma è davvero così? La depravazione morale della marchesa, la sua stessa spietatezza non dipendono anche dal fatto che la sua è una rivolta solitaria e pur sempre servile? Solitaria perché lo sforzo di volontà che ella ha compiuto su se stessa per forgiare la sua corazza impenetrabile ignora la pietà e si basa sull´inganno. Servile perché per dominare gli uomini ella ha scelto di imitarne il comportamento, adottando in tutto e per tutto il modello del libertinaggio maschile, trovandosi così ad agire in una posizione di netto svantaggio. Se il libertino è un personaggio sociale perfettamente integrato nella vita di società e le sue conquiste sono fonte di prestigio mondano, la libertina, al contrario, è oggetto generale di biasimo: una donna perduta davanti a cui si chiudono tutte le porte.
In realtà è un sentimento tipicamente femminile, la gelosia per un´altra donna, a perdere Madame de Merteuil inducendola a vendicarsi di Valmont, ma lo smascheramento finale della sua impostura non farà che confermare la ragione della sua rivolta. Saranno solo le sue lettere, e non quelle di Valmont, a venire divulgate, sarà solo lei, resa ancora più criminale per essersi ribellata alle leggi del suo sesso, a fungere da capro espiatorio di una società ipocrita che non sa di avere le ore contate.

l'Unità 14.8.07
Inchiesta/1
Anni ’70, quando la politica non colse il cambiamento
Una cappa sulla politica
di Gianfranco Pasquino

Dei quattro decenni dal 1970 ad oggi, certamente il primo, che si conclude nel 1980, è il più tormentato e complesso, ricco di avvenimenti, di contraddizioni, di drammi, di conseguenze, di potenzialità, sciupate. I terrorismi, nero e rosso, stando ad una possibile interpretazione che condivido, sono sia il prodotto di progetti politici di sovversione, che poco o nulla hanno a che fare con il disagio giovanile e/o sociale, sia la conseguenza perversa della percezione di un blocco del sistema politico italiano che nella sua evoluzione ha raggiunto, alla metà degli anni settanta, con la quasi inclusione del Pci, il massimo che poteva dare.

COME ERAVAMO Il compromesso storico è stato l’anticipazione dell’Ulivo? Sarebbe stato una cappa di piombo su una società che, come ha mostrato il referendum sul divorzio e le lotte sui diritti civili, chiedeva più libertà. Davanti alla sfida i due maggiori partiti, Pci e Dc, non hanno saputo che ripiegarsi su se stessi
Quando neanche un Partito Comunista arrivato al 34,4 per cento dei voti, il livello più elevato mai raggiunto dai comunisti in libere elezioni nel mondo occidentale, e che si colloca al governo di tutte le maggiori città italiane, riesce a ottenere una svolta nel governo nazionale, non può esservi più nessun dubbio che le aspettative di cambiamento non saranno soddisfatte. D'altro canto, quello stesso Partito Comunista non appare perseguire nessun cambiamento profondo, nessuna svolta, nessuna alternativa. Fin da subito, la politica del compromesso storico venne variamente e diffusamente interpretata come dichiarazione di disponibilità a svolgere un ruolo parzialmente subalterno alla Democrazia cristiana per un periodo di tempo molto lungo. Quella disponibilità fu certamente una buona notizia per Aldo Moro che, consapevole, come dichiarò esplicitamente, che il futuro non era più nelle mani della Democrazia cristiana, colse l'occasione per puntellarne il potere anche grazie al sostegno dato dai comunisti ai due governi monocolore guidati da Andreotti (1976-1979).
Con il senno di poi, non soltanto è possibile, ma è doveroso chiedersi se il compromesso storico, qualora fosse stato spinto più avanti, non avrebbe potuto costituire, da un lato, l'anticipazione di un fenomeno come quello dell'Ulivo; dall'altro, la soluzione di una crisi del funzionamento, dell'evoluzione, della qualità della democrazia italiana. Tutti coloro che pensavano allora e ritengono oggi che l'alternanza al governo costituisce lo strumento più efficace per obbligare la classe politica ad essere attenta ai bisogni e alle preferenze dei cittadini e a comportarsi in maniera responsabile, debbono rispondere che il compromesso storico avrebbe portato l'Italia fuori dal solco delle democrazie europee, vecchie e nuove. Governi effettivamente di compromesso storico non avrebbero garantito innovazione; avrebbero imposto una cappa, di piombo, su una società che sembrava attraversare una fase di liberazione; non avrebbero permesso ricambio in classi politiche già invecchiate. Nel frattempo, anche grazie alla spinta possente dei radicali, il ricorso al referendum, a cominciare da quello sul divorzio, rivelò che esistevano due mondi separati non soltanto dalla velocità di cambiamento, ma dalla cultura. Il mondo della politica rifletteva, con poche eccezioni, una società provinciale e tradizionale che non esisteva più, tranne in poche zone periferiche e meridionali. Dal canto suo, la società italiana era pervenuta ad una sostanziale liberazione attraverso processi di istruzione, di mobilità sul territorio, di piena occupazione che la rendevano già alquanto insofferente di quei "lacci e laccioli" la cui persistenza negativa venne autorevolmente denunciata da Guido Carli con riferimento all'economia italiana.
Sarebbe, naturalmente, non del tutto corrispondente alla realtà sostenere che il gruppo dirigente socialista avesse acquisito piena consapevolezza degli avvenimenti, delle potenzialità, delle trasformazioni da incoraggiare, da facilitare, da guidare. Tuttavia, in parte per cultura in parte per la natura del partito, che era un'organizzazione debole e abbastanza permeabile, meno esigente in termini di disciplina nei confronti dei suoi iscritti, più accessibile agli intellettuali, il Psi ebbe alcune delle intuizioni giuste. Certo, la sua struttura non era neppure sufficientemente diffusa da attrarre tutte le energie che vennero sprigionate dal movimento studentesco, dal movimento sindacale, dalle associazioni femministe. Ma la sua cultura era ricettiva, moderna, europea come le pagine di "Mondoperaio" di quegli anni sono in grado di testimoniare convincentemente. E la soluzione europea, come sembrò argomentare il segretario del Psi Francesco De Martino, non poteva che essere quella dell'alternativa socialista. Overdose di wishful thinking per un Partito socialista di ridotte dimensioni, l'alternativa socialista suonava anche come severa critica al compromesso storico e come presa di distanza dalla Democrazia Cristiana, in special modo da quella di Moro, portato per temperamento e per cultura alla mediazione e all'assorbimento delle sfide, non alla competizione e alla decisione.
La divaricazione di strategie dei tre maggiori partiti italiani è il prodotto di differenze culturali profonde, probabilmente inconciliabili, ma il potere politico dei socialisti di imporre la loro strategia o la loro visione era semplicemente inesistente. Appena eletto, Bettino Craxi decise di procedere in due modi, entrambi importanti e controversi, ma, a determinate condizioni, complementari. Da un lato, sfidò il "bipolarismo" che, nel gergo politico degli anni settanta, era molto visibilmente costituito dallo strapotere di Dc e Pci i quali, congiuntamente, nelle elezioni del 1976 avevano ottenuto il 72 per cento dei voti (vale a dire che tre italiani su quattro avevano votato o per la DC o per il PCI). Dall'altro, Craxi giunse alla convinzione che, con tutta probabilità, a ragione, il sistema istituzionale italiano come delineato nella Costituzione e come fatto funzionare nella pratica, era diventato un ostacolo alle trasformazioni politiche, sociali e economiche di cui il paese aveva bisogno.
Da queste riflessioni nacque il lancio, con grande scandalo dei conservatori costituzionali che erano una cospicua maggioranza sia dentro la Dc che dentro il Pci, della Grande Riforma. Doveva essere il grimaldello istituzionale in grado di rompere il bipolarismo politico e di aprire la strada anzitutto ad un ruolo del Psi maggiormente corrispondente alle sue aspirazioni di rappresentanza dei ceti liberati dalla modernizzazione del paese e di maggiore decisionalità al servizio di una ancora più intensa e più veloce modernizzazione. A prescindere dalle debolezze intrinseche e forse anche strutturali della strategia di Craxi, è mia opinione che l'assassinio di Moro, che rappresentò la svolta degli anni settanta, bloccando una serie di evoluzioni possibili, sia verso l'alternativa sia verso il compimento del compromesso storico, e conducendo infine ad una vera e propria, lunga e triste fase di, regressione: il pentapartito.
Poiché è improponibile gettare la colpa del riflusso su una società che chiedeva spazi e li otteneva, mobilitandosi, quando i referendum gliene offrivano la possibilità, appare evidente che i veri responsabili furono, da un lato, l'inadeguatezza della classe politica comunista, troppo convinta della sua superiorità intellettuale, dall'altro, il riflesso di conservatorismo della DC che, senza la spinta ideale e la capacità progettuale di Aldo Moro, preferì ripiegarsi sulla difesa, di stampo totalmente doroteo, dell'ingente potere fino ad allora accumulato, un tesoretto che sarebbe poi comunque andato disperso, ma lentamente. Infine, la spinta non si tradusse in cambiamento anche a causa della comprensibile preoccupazione di Craxi che, in assenza di una affidabile e credibile sponda comunista, il Partito socialista non poteva svenarsi, ma doveva ottenere quel tanto di potere anche governativo che gli consentisse di tenere viva la speranza dell'alternativa.
Furono tutte occasioni perdute oppure fu soprattutto una incomprensione dei processi profondi per la quale le culture politiche democristiana e comunista non possedevano gli strumenti, poiché né il cattolicesimo democratico né il marxismo, pure vivificato dal pensiero di Gramsci, potevano arrivare all'altezza di sfide che, altrove in Europa, vennero affrontate con gli strumenti delle scienze sociali e del keynesismo? Poiché anche oggi discutiamo di che cosa possa essere una nuova cultura della sinistra senza preoccuparci di che cosa sia effettivamente, nella pratica dei processi politici e di governo, la cultura socialdemocratica europea, la risposta è facile. Posti di fronte a importanti sfide politiche e istituzionali, i due grandi partiti italiani dimostrarono di non avere la cultura adeguata per affrontarle. Dotato di una cultura potenzialmente superiore, il Psi non disponeva del potere politico per tentarne l'applicazione. Presto avrebbe scelto di rafforzare il suo potere anche a scapito (dei suoi intellettuali e) della modernità e dei dettami della sua cultura.
Poteva un incontro fra democristiani e comunisti fare abbastanza strada senza l'apporto di una moderna cultura laica e socialista? Questo interrogativo mantiene tutta la sua pregnanza e validità.