mercoledì 1 agosto 2007

Repubblica 1.8.07
Il giornale partito di Luigi Albertini
di Eugenio Scalfari

A proposito dell´intervento di Galli della Loggia sul "Corriere" di Albertini
Ma si sorvola sulla politica interventista e sul consistente sostegno a Mussolini

Mi ha favorevolmente colpito l´articolo di Galli della Loggia pubblicato sul Corriere della Sera del 29 luglio con il titolo: «Einaudi, Albertini e gli inviti al silenzio». Ma mi ha anche alquanto stupito. Da molti anni infatti, direi da quando Repubblica iniziò le pubblicazioni e poi in breve tempo raggiunse il Corriere e spesso lo ha superato e lo supera per diffusione e numero di lettori, è stata lanciata polemicamente verso di noi l´accusa di essere un giornale-partito cui il Corriere contrapponeva il proprio modello «albertiniano» mutuato dalla stampa anglosassone, di un giornale al di sopra delle parti che di volta in volta emette i suoi giudizi di approvazione o disapprovazione per l´una o l´altra delle parti in causa, come Minosse che giudica e manda le anime dell´inferno dantesco attorcigliando la sua lunga coda tante volte per indicare in quale girone l´anima del peccatore dovrà scontare la sua pena. Insomma due modi molto difformi di praticare la stessa professione. Ma Galli della Loggia, che al Corriere non è l´ultimo venuto e nell´articolo in questione risponde a Piero Fassino sulla funzione del giornalismo e quindi scrive a nome e per conto della testata, ci dice invece che proprio il Corriere di Albertini fu un giornale-partito, che intervenne direttamente e incisivamente nella politica nazionale, facendosi portavoce degli ideali e degli interessi della borghesia lombarda e creando in questo modo un grande giornale d´informazione e di orientamento nell´opinione pubblica.
Mi rallegro che finalmente sia riconosciuta e storicamente certificata una realtà che per quanto mi riguarda ho avuto sempre chiara davanti agli occhi. Tanto più chiara in quanto tra il prototipo albertiniano e quello di Repubblica ci furono altre importanti coincidenze strutturali, a cominciare dal fatto che Albertini (come alla Stampa in quegli stessi anni Alfredo Frassati e come è accaduto anche a me) fu al tempo stesso direttore e comproprietario del giornale.
Una circostanza decisiva per fondare (o rifondare come avvenne per Albertini e Frassati) un giornale e farne il punto di riferimento d´una struttura della pubblica opinione con i suoi valori e i suoi legittimi interessi. La favola della neutralità della stampa anglosassone è sempre stata - a mio avviso - appunto una favola. Il solo vero modo di rispettare i lettori, secondo una regola che ho sempre cercato di praticare, è quello di presentarsi per ciò che si è e di stare ai fatti con la maggiore oggettività possibile. Ciò che si è, la struttura d´opinione che il giornale rappresenta, dalla quale prende vigore e spinta e con la quale interagisce quotidianamente. Senza camuffarsi da ciò che non si è, cioè da testimone imparziale, privo di passioni, di convinzioni e di ispirazioni profonde, culturali economiche e politiche.
Questo fu con lucida tempra Luigi Albertini. Questo fu Alfredo Frassati. Questi furono il Corriere della Sera e la Stampa da loro costruiti. E questa, in tempi e modi diversi, è stata ed è Repubblica.
Mi auguro che una volta per tutte la diatriba sul giornale-partito e il giornale-giornale sia chiusa. Un grande giornale è le due cose insieme. Il risultato dipende dalla misura e dall´onestà dell´intento.

***
L´articolo di della Loggia non si limita però al "format" che Albertini dette al Corriere nei venticinque anni della sua guida di editore-direttore. Passa dalla forma al contenuto, dall´impegno politico e civile agli obiettivi di quell´impegno e racconta quella complessa esperienza del giornale-partito albertiniano partendo da una constatazione storicamente inoppugnabile: il Corriere del primo quarto del Novecento fu la voce della borghesia lombarda, in particolare di quella manifatturiera e in modo ancor più specifico di quella tessile e meccanica, setaiola e cotoniera. E ovviamente del mondo sempre più articolato che ad essa faceva da corona, avvocati, medici, tecnici, inventori, pubbliche utilità e quindi trasporti, la nascente industria elettrica e naturalmente le banche. Le banche che manovravano i rubinetti del credito e finanziavano investimenti e speculazioni.
Il Corriere fu la voce di questi interessi e delle visioni politiche che ne scaturivano: il liberismo, il mercato, il profitto, l´efficienza dei servizi pubblici (ma meglio ancora se gestiti dai privati) e in genere la legge e l´ordine, da applicare in modo speciale nelle vertenze sindacali.
Scrive della Loggia che il Corriere di Albertini fu il giornale antigiolittiano per eccellenza (in opposizione alla Stampa che si schierò in quel quarto di secolo per Giolitti senza se e senza ma, come oggi si direbbe).
Fu esattamente così. Antigiolittiano e sostenitore tenace di Sonnino e di Salandra, un mediocre politico pugliese fortemente conservatore con robuste venature reazionarie. In un solo caso Albertini appoggiò Giolitti e fu nella guerra di Libia contro la Turchia. Perché - anche se della Loggia sorvola su questo punto - Albertini fu un convinto interventista. Non solo nel 1911 ma soprattutto nel 1914 allo scoppio della Prima guerra mondiale. Mentre Giolitti era neutralista, il Corriere gettò tutto il suo peso mediatico in favore dell´intervento a fianco di Francia, Inghilterra e Russia contro gli Imperi centrali. Si trovò accanto i nazionalisti, gli interventisti in genere e soprattutto lanciò Gabriele D´Annunzio in piena trasformazione da poeta a vate.
Le Canzoni d´Oltremare dannunziane avevano già accompagnato la "gesta" libica dalla terza pagina del Corriere, ma poi l´oratoria del vate esplose sulle pagine politiche, culminando nei giorni del maggio 1915 e nel discorso che D´Annunzio pronunciò a Quarto nell´anniversario della partenza dei "Mille" garibaldini alla liberazione-conquista della Sicilia e del Regno Borbonico.
La borghesia padana era tutta per la guerra. Si trattava di completare la conquista dei "sacri" confini della patria. Ma anche di equipaggiare un esercito di sei milioni di soldati: panni per le uniformi, coperte, scarpe, elmetti, ma anche cannoni, esplosivi, corazze per la Marina militare, attendamenti, automezzi d´ogni genere e tipo. E salmerie, viveri, generi di conforto.
La guerra costò all´Italia, ai suoi contadini e ai figli della piccola borghesia quattro anni nel fango e nel lordume delle trincee, seicentomila morti e oltre un milione di feriti, ma fu anche un grandissimo affare per l´industria leggera, per quella pesante e per le banche che le finanziavano.
Luigi Einaudi scrisse nell´immediato dopoguerra uno dei suoi libri più belli e coraggiosi, intitolato Le conseguenze economiche della guerra. Ma in quegli anni il giornale-partito albertiniano fu interamente mirato a sostenere lo spirito delle truppe e della popolazione civile che dalle città faceva pubblica opinione. Funzione sacrosanta, alla quale nulla fu risparmiato. Qualche volta tacque e si può capire. Delle esecuzioni sommarie che la polizia militare (i carabinieri) inflissero ai soldati in rotta a Caporetto non si trova traccia nei giornali dell´epoca e meno che mai sul Corriere. Anche allora l´empito maggiore fu dato da D´Annunzio, trasformatosi in «agit-prop» dello Stato Maggiore. E via con la beffa di Buccari, via col volo su Vienna. Via soprattutto con il sostegno incondizionato che il giornale di via Solferino dette all´impresa di Fiume.
Bisogna fermarsi un momento a riflettere su Fiume, anzi sulla marcia di Ronchi. Fu un atto gravissimo di sedizione che pose le basi per la marcia su Roma di tre anni dopo. Un atto contro il trattato di pace da noi firmato, contro il governo italiano, contro le truppe italiane che presidiavano insieme agli alleati Fiume e l´Istria. Conosco bene quella fase della storia nazionale anche perché mio padre fu uno dei giovani ufficiali che seguì il "Comandante" in quella sciagurata impresa. E me ne spiegò più volte le motivazioni che l´avevano mosso: la vittoria tradita, il governo imbelle, il Parlamento incapace di manifestare una qualsiasi volontà, la politica in mano a omuncoli rammolliti e corrotti. Un pilota coraggioso lanciò in quei giorni dal suo aereo un pitale su Montecitorio.
Questo fu Fiume. E il Corriere fece la sua parte intervenendo anche in quel caso. Così come fu interventista nel ‘21 quando spinse in tutti i modi Giolitti a far sgombrare dall´esercito la Fiat, allora occupata dagli operai. Giolitti per fortuna seguì la via opposta della trattativa.
Galli della Loggia ricorda nel suo articolo che Albertini «dopo un iniziale appoggio al fascismo» si schierò su posizioni antifasciste che portarono poi alla sua estromissione dal Corriere. Esatto, ma la verità storica è più complessa e non è proprio quella d´un «iniziale appoggio».
Il Corriere vide nel fascismo e nelle sue squadre una risposta opportuna al sinistrismo massimalista e bolscevico che minacciava il mercato e la libera impresa. Gran parte del ceto liberale condivise questa posizione, a cominciare da Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Giustino Fortunato. Poi, pensavano quei liberali, compiuta l´opera Mussolini se ne tornerà a casa, gli si darà un lauto benservito e l´Italia liberale riprenderà la sua marcia verso il progresso.
La borghesia lombarda fu compatta nel condividere l´ "Operazione Mussolini" e i suoi portavoce lo furono altrettanto. Distacco all´inglese? Non direi proprio. Basta leggere le lettere e le telefonate che partivano da via Solferino verso la Prefettura di Milano sull´impiego della polizia e della guardia regia per reprimere le manifestazioni della sinistra; basta consultare il carteggio tra Albertini e Giovanni Amendola che fu in quel periodo suo corrispondente da Roma per rendersi conto che il pericolo era il bolscevismo e i fascisti un supporto e uno stimolo a resistere. Opinione legittima, in quel contesto. Purtroppo sbagliata su un punto essenziale dal quale ebbero inizio vent´anni di regime e quel che ne derivò. Allora, come molti anche oggi, si invocava l´uomo forte che ripulisse le stalle e recuperasse «law and order».
***
Albertini era stato nominato senatore del Regno. E già dal ‘23 capì l´errore e ne prese coraggiosamente le distanze. Pronunciò alcuni discorsi e scrisse interventi memorabili in difesa della libertà e della democrazia. Il Corriere, allora diretto da suo fratello, non fu da meno.
Ma era tardi. Il 3 gennaio del ‘25, pochi mesi dopo il delitto Matteotti, il governo impose la censura, sciolse i partiti, abolì di fatto la libertà di stampa. Il Corriere fu dato in proprietà ai consoci di Albertini, membri per l´appunto della borghesia lombarda. In quegli stessi mesi Frassati fu estromesso con analoga procedura dalla Stampa che passò in proprietà alla famiglia Agnelli.
A conclusione debbo dire che la borghesia lombarda di allora non dette uno spettacolo particolarmente edificante.
Oggi la situazione è diversa. Di borghesia vera e propria ce n´è assai poca in giro e sembra un po´ più saggia dei suoi predecessori. Ma c´è un altro tipo di sedicente borghesia con analoghe lacune culturali e ossessiva attenzione alla «roba». Inclusa l´invocazione dell´uomo forte, fosse pure il recupero di quello che abbiamo visto alla prova nell´ultimo quinquennio, che poi si scoprì che non era forte affatto se non quando si trattava dei fatti propri.

Repubblica 1.8.07
Perché non possiamo non dirci pagani
I greci e l'uguaglianza di fronte alla legge
di Lucio Villari

Ripubblicata l'opera di Santo Mazzarino: l'antichista vedeva in Sparta e Atene e nella loro religione il fondamento della nostra civiltà
Da Epicuro a Seneca l'arte di credere in se stessi e l'idea di giustizia
Qui l'etica laica, in Oriente un fanatismo che è il simbolo della vita nazionale stessa

Una lieve ansia di rientrare in se stessi, il desiderio di qualche terapia intellettuale e di idee chiare e disarmate di cui si percepisce l´assenza, forse sono questi stati interni a far parlare di religioni e di religiosità e a far sospettare più che l´inquietudine di chi cerca una fede, la stanchezza e la noia del vuoto. Una medicina per questi sentimenti potrebbe essere, ad esempio, un richiamo al perché non possiamo non dirci pagani, al lascito eterno della cultura classica, della storia del mondo antico e persino dell´universo degli «dei falsi e bugiardi». Anche se quest´ultimi non pare fossero veramente tali. «Gli dei non sono dotati di nessuna trascendenza; - diceva Marc Augé nel 2005 a un convegno a Rimini sul mondo antico, sul tema Antico/Presente - appartengono allo stesso mondo degli uomini e rivestono essenzialmente un ruolo simbolico in senso letterale: mettono in relazione gli uomini tra loro. La "fede" negli dei passa attraverso l´accettazione del vivere quotidiano». Era in sostanza un rifarsi alla «concretezza storica» della mitologia di cui parlava Kàroly Kerényi nel l955 a proposito dei greci. Tesi ribadita l´anno dopo dal filologo e storico Walter Friedrich Otto nel saggio Il mito originario alla luce della simpatia di uomo e mondo. Ed era anche dalla differenza e opposizione tra la religiosità greca e quella orientale che si doveva partire per avvertire la contiguità della religione greca con il nostro Occidente, il solo spazio, aveva scritto Santo Mazzarino nel l947, «dove vibra l´anima della storia greca».
Un´anima che va percepita per contrasto con l´Oriente «e proprio per rivelare la sua originalità e fisionomia caratteristica».
Anche attraverso questa immagine umano-divina della religione greca (e romana) riemerge l´esigenza antica di razionalità di cui Marco Aurelio in uno dei «Pensieri» vede privi i cristiani, portatori di un culto orientale. E´ questa la Grecia che «entra» a Roma nella transizione tra repubblica e impero e, pur confrontandosi con tempi politici e sociali disumani e violenti, ha introdotto la limpida filosofia dello stoicismo.
Era un pagano pragmatismo morale che, da Epicuro a Seneca a Epitteto a Marco Aurelio, ha insegnato l´arte del credere in se stessi e l´idea di giustizia come fondamento della società civile.
La Stoà fu anche un movimento spirituale e filosofico, una etica laica che il monoteismo cristiano ha poi in parte inglobato nella sua dottrina e in parte sopraffatto innestandovi sentimenti e comportamenti sconosciuti agli antichi, come il timore verso un misterioso trascendente (gli dei sono invece umani, quindi non misteriosi) e la convinzione, come sosteneva Paolo di Tarso nella Lettera ai Corinzi, che «la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio».
Comunque la Stoà - ha scritto nel 1943 uno dei suoi maggiori studiosi, Max Pohlenz - «ha dato per mezzo millennio a innumerevoli uomini una base morale e la pace interiore». Il suo più agguerrito avversario, Agostino - lo ha ricordato Italo Sciuto ne L´etica del Medioevo (Einaudi, 2007) - rimproverava ai filosofi pagani, di cui però sentiva il fascino, di avere sì pensato ad una società giusta, ma di non averla saputa realizzare.
In realtà l´idea di giustizia, anche se la sua origine politica era greca, fu, accomunata dai cristiani al rifiuto della schiavitù, fu l´insidia più pericolosa il tarlo che indebolì mortalmente Roma.
Chi riconosce però nella filosofia pagana una delle premesse del pensiero moderno - dall´Umanesimo a Erasmo, Spinoza, Kant, l´Illuminismo - sa che questa pace interiore, il tecum fugis di Seneca, la moralità dell´esistenza, suggerite più che predicate o imposte, erano fondate sul piacere del vivere e sul vivere conoscendo; sentimenti che potevano essere sconvolti da eventi esterni (alcuni stoici erano attraversati da queste inquietudini preferendo alla violenza psicologica o politica un calmo suicidio) e quindi delicati, inermi. Un piacere fondato sul principio del «conservare il proprio essere», come dirà Spinoza, di «individuazione» dell´individuo, che in traduzione attuale potrebbe essere il principio della salvaguardia della «persona».
Era attenzione filosofica verso l´anima umana, anzi, la «therapia animae», di Panezio di Rodi, il filosofo greco che più influenzò gli stoici romani, a cominciare da Cicerone, sul problema dell´etica che aveva il segno aurorale della libertà dell´uomo.
Forse questa lezione l´avrebbe oggi ripensata un conoscitore della classicità come Santo Mazzarino, ma venti anni or sono, nel l987, la sua scomparsa ha privato la cultura italiana di una intelligenza straordinaria e di un indagatore dell´«Antico/Presente» che manifestava con franchezza anche la propria passione politica, sia nel giudizio storico preciso e filologicamente implacabile sulla classicità, sia nella interpretazione della classicità nella storia contemporanea del mondo occidentale.
Sono stato suo allievo nell´Università di Messina (insegnavano con lui Giacomo Debenedetti, Galvano della Volpe, Ruggero Moscati, Lucio Gambi, Giorgio Petrocchi, Rosario Romeo) e posso testimoniare che gli altri storici moderni (ma lo stesso succederà quando Mazzarino si trasferì all´Università di Roma) non si ponevano, né risolvevano, i problemi complessi della storia del Novecento come invece Mazzarino faceva spesso, con la naturalezza dello storico totale e il gusto di occuparsi di cose diverse. I problemi novecenteschi che lo incuriosivano - ne discuteva spesso con alcuni allievi in privati conversari - avevano una dimensione europea, occidentale ed erano di una «qualità» diversa dalle pur fondamentali questioni della prima guerra mondiale, del fascismo, del comunismo, del nazismo, con relative guerre e damnatio memoriae. Una storia politica e soprattutto sociale che Mazzarino invece sentiva intensamente e «vedeva» - scoprendo personaggi e eventi fondamentali che allora parevano sfuggire alla storiografia italiana corrente - dall´interno, con lo spirito critico con in quale investigava l´interno della classicità. In fondo applicava al tempo presente la «istorin» greca, cioè la «problematica illustrazione del fatto che si indaga» più che «raccontarne una serie», cioè «la narrazione continuata che è propria degli Orientali».
Quando, nel l959, apparve La fine del mondo antico, nella breve Premessa c´era l´indicazione del metodo: «Credo che il tema della "morte di Roma" presenti un particolare interesse: sentiamo così il bisogno di percorrere il cammino delle idee di "decadenza" e "fine" del mondo antico, come di chiederci ancora, per nostro conto, quale spiegazione di quella "fine" appaia, all´uomo di oggi, necessaria e sufficiente. Ma, proprio per questo, un "dialogo" siffatto è in realtà inesauribile...». Il dialogo, dunque tra antico e presente, parafrasi del dialogo fra Oriente e Occidente (dialogo e insieme distinzione) al quale nel l947 Mazzarino dedicò una ricerca fondamentale: Fra Oriente e Occidente. Ricerche di storia greca arcaica. Sessanta anni dopo l´opera è stata ripubblicata da Bollati Boringhieri (una edizione Rizzoli risale al l989) e ha una introduzione di Filippo Cassola e in appendice la recensione critica che del libro fece nel `47 Arnaldo Momigliano e la puntuale replica di Mazzarino al quale in realtà le polemiche accademiche non interessavano affatto, e che quindi non volle allora pubblicare. Con questo libro Mazzarino toccava infatti i nervi scoperti di alcuni storici della classicità e contestava nettamente l´opinione, di cui era portatore Momigliano, che il tema Oriente-Occidente fosse ormai storiograficamente risolto e che si trattasse di un «problema fantasma». Mazzarino sosteneva al contrario che «chi studia storia arcaica ha il compito di rievocare Oriente e Grecia e studiare in che modo "il tempo della storia orientale" si sia poi risolto nel "tempo della storia greca"».
Dalla ricchezza e pluralità della ricerca di Mazzarino credo sia possibile qui riproporre soltanto qualche spunto. Muovendo dalla Grecia arcaica, come dice il titolo dell´opera, Mazzarino voleva stabilire, sulla base di innumerevoli fonti poetiche, letterarie, politiche, linguistiche, archeologiche i confini dell´«Asia», il cui nome rinvia allo stato di Asswa in Lidia, e i confini della Grecia «barbarizzata», cioè incrociata dagli «stranieri», per identificare sia le relazioni e contaminazioni tra i popoli e gli Stati dell´Asia minore e la Grecia arcaica, sia il processo di distinzione tra i due mondi, appunto tra Oriente e Occidente. Alla fine la differenza è netta e non è soltanto la diversità tra la polis e il potere non democratico degli stati orientali, ma l´originalità di una via culturale e politica che Mazzarino individua nel «travaglio costituzionale» che connota la Grecia classica. Ma leggiamo questa pagina esemplare. «Il travaglio costituzionale ci è apparso come l´opera di tutti i Greci; ed è un travaglio gelosamente, diremmo, greco, senza alcun "emprunt" lidio o comunque straniero. In esso l´anima dell´Occidente si è, la prima volta, rivelata. Partendo da condizioni analoghe a quelle delle città-stato orientali, i Greci tuttavia hanno "scoperto" qualcosa che gli Orientali non sospettavano: l´esigenza isonomica. Questa fu la nascita dell´Occidente».
Isonomia è una voce della democrazia greca che significa uguaglianza di fronte alla legge. La rivoluzione francese l´ha consacrata per sempre fondando l´Occidente moderno. A Mazzarino questo era chiaro con in più la convinzione «illuministica» che un altra differenza c´era nel fatto che «mancava ai Greci quel fanatismo religioso che per gli Orientali è simbolo della vita stessa nazionale». Ma c´è un punto sul quale credo si debba riflettere che capire le dimensioni di questo storico straordinario. Mazzarino parlava di «travaglio costituzionale» della Grecia proprio nell´anno, il l947, nel quale l´Italia stava elaborando una nuova Costituzione. Mazzarino scriveva il suo libro seguendo i lavori dell´Assemblea Costituente, cioè il travaglio costituzionale di un paese che, come la Grecia classica, scopriva i valori della democrazia. A mio parere il rapporto cui egli era, come si è detto, particolarmente sensibile tra mondo contemporaneo e mondo classico, emerge qui con una grande forza ideale e morale. Solo questa sensibilità storica e politica può separare, senza contrapporli, l´Oriente e l´Occidente. Mazzarino ha spiegato, con molto stile, il senso di questa separazione - dialogo parlando di un tempo nel quale «si formò una cultura che è la nostra. E che, grosso modo, si può dire greca per la politica e orientale per la religione. Ma la stessa unità di questa nostra cultura è prova, dunque, che nell´anima occidentale (nell´anima greca, cioè) non c´era chiusa avversione all´Oriente, ma aperta ansia di comprensione e di assimilazione».
Varie volte torna la parola anima nella razionale scrittura di Mazzarino; forse era un segreto richiamo anche allo stoicismo e a pagani pensieri e sentimenti di un Occidente libero e aperto a tutti.