venerdì 31 agosto 2007

Repubblica 31.8.07
Il cinema del futuro
di Marco Bellocchio
(seguono gli interventi di Galli della Loggia e di Lizzani ai quali Bellocchio risponde)

Caro direttore, se si deve parlare di identità (vedi Galli della Loggia sul Corriere della Sera di mercoledì e Carlo Lizzani su la Repubblica di ieri) riferendoci al cinema italiano e all´Italia più in generale bisogna distinguere l´identità individuale dall´identità collettiva (può nascere un genio anche in un paese in piena decadenza), in questo la politica italiana più del cinema ci dimostra ogni giorno la sua mancanza di identità.
La classe politica è molto al di sotto delle aspettative degli italiani. E´ sbeffeggiata, derisa, disprezzata come non ho mai visto nella mia vita. In passato c´erano i due schieramenti e il disprezzo e l´odio erano per lo schieramento avversario. Ora è per tutta la classe politica. Poi ogni italiano fa qualche eccezione, ma personalizzata. Io ho fiducia in Veltroni, io in Bertinotti, io in Bossi, io in Berlusconi, nonostante eccetera.
Ma sono singoli uomini. E personaggi televisivi che vincono in televisione (vedi Berlusconi) in un gioco delle parti che non riserva più nessuna sorpresa. Dico televisivi perché siamo oggi lontani anni luce dal Neorealismo e perciò la pretesa, che anche io ho manifestato spesso, di un cinema italiano che ricerchi nuove forme, perché troppo parlato, le cui immagini sono al servizio delle parole, un cinema «invisibile», è vera e legittima purché si rinunci a qualsiasi nostalgia verso il glorioso passato, che è finito per sempre.
Perché il nuovo va ricercato in una società irriconoscibile rispetto a quella in cui mi sono formato come cittadino e cineasta, dove improvvisamente tutti sono registi (non sono diventati, lo sono acquistando un cellulare di ultima generazione) le nuove tecnologie hanno democratizzato mondialmente il fare cinema e le «nuove forme» nasceranno da lì. In internet si possono già vedere migliaia di film di migliaia di registi a costo zero.
Chi si è formato con i carrelli, il dolly, la pellicola continuerà a farlo fino all´estinzione, ma le nuove identità, le nuove immagini nasceranno da una nuova cultura che non è quella dominante, cinica, fatua cocainizzata e perciò senza nessuna idea nuova («in Italia comandano» i morti al di là dell´anagrafe, è per me un esempio di «morto» anche Fabrizio Corona, e sono dei «morti» tutti coloro che ne scrivono o ne parlano in televisione giustificandosi con la curiosità morbosa del pubblico, come se non partecipassero, molto ben retribuiti, alla sua «formazione») innestata in una tecnologia sofisticata ed elementare alla portata di tutti. Tutti è una novità che non garantisce la bellezza, ma il bello e il nuovo nasceranno, stanno già nascendo, dai miliardi di cellulari con cui ogni terrestre oggi può fare il suo film.

Corriere della sera 29.8.07
Si inaugura oggi la Mostra di Venezia
Il Paese del cinema
di Ernesto Galli della Loggia

Ha ragione Carlo Lizzani quando a conclusione del suo bel libro di memorie appena edito da Einaudi (Il mio lungo viaggio nel secolo breve) scrive che il cinema italiano soffre, ormai da tempo, di «una crisi d' identità». Che però, a guardar bene, non è solo del cinema: è crisi, e di sicuro più ampia, dell' intero Paese, che esso semplicemente si limita a rispecchiare. Molto più che altrove il cinema ha avuto in Italia un' importanza grandissima. Per almeno due ragioni: innanzi tutto perché in Italia, anche a causa della sua debole scolarità, era assente una moderna tradizione di letteratura popolare. Dagli anni Trenta in poi il cinema, grazie anche al fatto di poter fare a meno della parola scritta, ha fatto le veci di questa letteratura, plasmando sentimenti, modi di vivere e atteggiamenti delle più vaste masse. Con i suoi volti e le sue trame il cinema è stato in Italia non solo l' unica e vera narrazione popolare, l' unico racconto con cui il Paese ha narrato se stesso, ma anche l' unico tramite grazie al quale il Paese stesso per così dire «si è appreso». Per decenni il cinema ha costituito per milioni di italiani il solo modo di percepire un' immagine dell' Italia al di là del proprio ristretto orizzonte di vita. Cos' era un grande magazzino, un villaggio di pescatori siciliani, o cosa erano Roma o Milano, moltissimi italiani lo hanno appreso per la prima volta dal cinema. La seconda ragione del rilievo che il cinema italiano ha avuto sta nel fatto che esso è stato una sorta di riassunto emblematico di uno dei caratteri generali della nostra modernità culturale (e non solo): il fortissimo rapporto dei ceti intellettuali con la politica (il già citato libro di Lizzani ne è una puntuale dimostrazione), e in particolare con le tre grandi ideologie che hanno attraversato e travagliato la storia dell' Italia del ' 900, e cioè il fascismo, il cristianesimo sociale, il comunismo gramsciano. Forse in nessun altro luogo come nel nostro cinema queste tre visioni del mondo si sono intrecciate e fuse, esprimendo compiutamente quella che è stata chiamata «l' ideologia italiana», con il suo fondo populista antiborghese di cui il neorealismo è stato un vertice, ma che continua a farsi sentire pure in tanta «commedia all' italiana», in tanto Pasolini, in tanto Moretti. L' ascesa del nostro cinema e il suo successo nel mondo fino agli anni 70 del Novecento hanno corrisposto al successo politico-culturale di quell' ideologia in casa e fuori (si pensi a come in tanti all' estero hanno guardato al comunismo italiano). Da allora la crisi di quella è stata anche la sua crisi (e di questa crisi ci hanno parlato Fellini e Antonioni). Nell' attuale Occidente globalizzato, dove non c' è più il popolo e la politica svanisce, il cinema italiano scopre quanto sia arduo l' abbandono del populismo e l' approdo alla democrazia, quell' approdo che da sempre, invece, è connaturato al cinema americano con la sua potente disposizione allo straordinario, all' avventuroso, e insieme al quotidiano, con la semplicità della sua ispirazione etica, con il suo favore per il punto di vista dell' uomo comune contro ogni intellettualismo. Al cinema italiano resta, certo, il lascito di una grande tradizione culturale che vive nell' abilità artigianale di tanti nostri scenografi come nella capacità di inventare e combinare forme e colori, di tanti nostri operatori. Ma nel complesso esso oggi ha bisogno di una nuova ragion d' essere, di un nuovo senso di sé, di un nuovo rapporto con la realtà che lo circonda. Anch' esso, proprio come l' Italia, è alla ricerca di una nuova identità.

Repubblica 30.8.07
Una rivoluzione per il cinema
di Carlo Lizzani

Sono stato molto gratificato dalla citazione del mio libro («Il mio lungo viaggio nel secolo breve») inserita da Ernesto Galli Della Loggia nel suo articolo di fondo pubblicato ieri dal Corriere della Sera. E concordo sul riferimento alla debolezza dell´identità del cinema italiano degli ultimi anni. Non mancano, come ho spesso ripetuto, i talenti. Ci sono esordienti di grande spessore e ci sono autori già collaudati, e con successo, in Italia e nel mondo (basterebbe citare Moretti, Benigni, Marco Tullio Giordana) che manifestano grande vivacità e riescono spesso a trascinare nella sala cinematografica un pubblico assai numeroso e attento. Ma, senza nulla togliere al loro valore, questi grandi talenti, così come gli autori più giovani non «fanno massa», non sono protagonisti di un movimento, di quell´azione innovatrice del linguaggio che si manifestò – pure con poetiche differenti – all´epoca del Neorealismo in Italia e attorno ai Cahiers du cinema in Francia, tanto per citare due esempi.
Mi pare anche giusto collegare, o quanto meno cercare un collegamento, come fa Della Loggia, del nostro cinema in quelle grandi stagioni degli anni 40, 50 e 60 con la forte presenza nel Paese delle grandi ideologie del secolo scorso, quella fascista, quella cattolico-popolare e quella comunista gramsciana.
Però, come mi sforzo di dire nel mio libro, il fenomeno neorealista non trova alimento soltanto nel versante populista di queste tre grandi ideologie ma, anzi, s´impone all´attenzione del mondo per i suoi aspetti di rivoluzione formale. Con l´irrompere del cinema neorealista cambia il modo di raccontare, cambia la sintassi stessa del cinema, si mescolano generi, cambia il rapporto tra figura umana e paesaggio. Senza queste premesse di carattere formale non avrebbero toccato i loro vertici espressivi neanche gli autori delle generazioni successive, formatisi comunque negli anni caldi del Neorealismo, e cioé autori come Antonioni e Fellini e giù fino all´emergere di quella che io chiamo la Seconda Generazione: da Maselli a Bellocchio a Bertolucci a Pasolini. E neanche gli autori della commedia italiana.
Il Neorealismo fu qualcosa di più del fenomeno analogo verificatosi nel campo della pittura figurativa e della nostra letteratura del dopoguerra.
Per intenderci basta riferirsi del resto al passato: anche Manzoni fu legato a correnti ideologiche dominati nell´800 ma la sua grandezza non deriva da questa identità culturale e sociale ma da come ha cambiato il linguaggio, cioé dal fatto di aver trovato una lingua «italiana» per gli «umili».
Quindi, senza nulla togliere all´argomentazione di Della Loggia né alla vitalità di tanti autori italiani ancora sulla breccia o emergenti, quella che oggi va invocata è una nuova rivoluzione del linguaggio, una nuova «idea» di cinema. Noi di possibili identità, come ho scritto nel mio libro e nei miei saggi, ne abbiamo perfino troppe. Due fondamentali: quella nazional-popolare e quella cosmopolita che deriva dal Rinascimento.
Nessuna cinematografia ha avuto tanti autori capaci di inserirsi in altre culture, basti pensare al Rossellini di «Germania anno zero» o di «La presa del potere da parte di Luigi XIV», all´Antonioni di «Blow-Up» e di «Zabriskie point», allo Zeffirelli scespiriano o a Bertolucci che con «L´ultimo imperatore» opera la simbiosi addirittura tra Hollywood (in senso alto) e la cultura mandarina. E Sergio Leone? Come ricordo spesso, quando domandai a Leone «come e perché sei riuscito a inserirti in un mondo così lontano dal nostro?» lui rispose: «E allora Ariosto con la chanson de geste?».
Aveva profondamente ragione.

Repubblica 31.8.07
Dio secondo Einstein
Il grande scienziato e la religione. La relazione di Odifreddi al Festival della Mente
di Piergiorgio Odifreddi

Il giovane Albert smise di essere credente quando si convinse "che le storie della Bibbia non potevano essere vere"
I giovani sono ingannati dallo Stato con insegnamenti bugiardi
Non so immaginare un individuo che sopravviva alla morte fisica
Nella sua "Autobiografia scientifica" emergono il sospetto verso l'autorità e lo scetticismo verso le convenzioni sociali

Il settantenne Albert Einstein iniziò nel 1949 la sua Autobiografia scientifica, scherzosamente definita «il mio necrologio», raccontando la sua giovanile scelta di campo. Dopo aver ricordato che fin da bambino «la vanità delle speranze e degli sforzi che travolgono incessantemente la maggior parte degli uomini in una corsa affannosa attraverso la vita» l´aveva colpito profondamente, egli ricorda che dapprima divenne religiosissimo, ma cessò improvvisamente di esserlo all´età di dodici anni, perché leggendo libri di divulgazione scientifica si era «ben presto convinto che le storie che raccontava la Bibbia non potevano essere vere».
Questa esperienza gli fece capire come «i giovani fossero coscientemente ingannati dallo Stato con insegnamenti bugiardi, e fu un´impressione sconvolgente», da cui il precoce pensatore trasse un atteggiamento di sospetto verso ogni genere di autorità, e di scetticismo verso le convenzioni sociali, che non l´avrebbe più abbandonato. Da allora egli trovò la liberazione nel «possesso intellettuale del mondo che esiste indipendentemente da noi, esseri umani, e che ci sta di fronte come un grande, eterno enigma, accessibile solo parzialmente alla nostra osservazione e al nostro pensiero». Naturalmente, conclude Einstein, «la strada verso questo paradiso non era così comoda e allettante come quella del paradiso religioso, ma si è dimostrata una strada sicura, e non ho mai più rimpianto di averla scelta».
Questa pagina dovrebbero leggerla tutti gli studenti, per capire come un loro coetaneo particolarmente dotato affrontò i dilemmi dell´adolescenza, e abbandonò la via della superstizione religiosa per intraprendere quella della ricerca scientifica. Non potendoci naturalmente attendere che sia la concordataria scuola dell´ora di religione a proporla, possiamo comunque leggerla dagli spalti della Fortezza Firmafede (sic) di Sarzana, insieme ad altre pagine significative delle preziose Opere scelte di Einstein (Bollati Boringhieri, 2004).
Anzitutto, quelle uscite dalla penna della prima persona della trinità einsteniana: il Padre della relatività (oggi), sua figlia prediletta, che egli concepì in versione speciale nel 1905, e in versione generale nel 1915, e divulgò in maniera impareggiabile nel suo unico libro popolare, la Relatività del 1917, all´insegna del motto: «i problemi dell´eleganza vanno lasciati al sarto e al calzolaio».
Quest´opera è la continuazione ideale dei Dialoghi sopra i due massimi sistemi di Galileo, e ne aggiorna le metafore per adeguarle ai tempi. E come Galileo aveva esposto la cosiddetta relatività galileiana con il famoso esperimento mentale della nave, così Einstein espone la relatività speciale con l´altrettanto famoso esperimento mentale del treno, introdotto dalle parole: «io sto al finestrino di un vagone ferroviario che viaggia a velocità uniforme, e lascio cadere una pietra sulla banchina senza imprimerle alcuna spinta».
Rispetto a Galileo, però, Einstein deve tener conto di un fatto nuovo: la costanza della velocità della luce, richiesta dalla teoria dell´elettromagnetismo di Maxwell e confermata dagli esperimenti di Michelson e Morley. Un fatto gravido di conseguenze, dal quale derivano in cascata la decostruzione del concetto di simultaneità, e la costruzione dei paradossali princìpi della nuova fisica: cioè, la contrazione delle lunghezze e la dilatazione dei tempi prodotte dal moto sui metri e sugli orologi di un osservatore in movimento.
Quanto alla relatività generale, Einstein la introduce con un altro ormai classico esperimento di pensiero: quello dell´ascensore, che se è in caduta libera verso il basso in un campo gravitazionale, annulla gli effetti del peso su un passeggero, mentre li crea se viene invece accelerato verso l´alto nel vuoto. L´indistinguibilità tra gravità e accelerazione, testimoniata dalla coincidenza sperimentale fra la massa gravitazionale (misurata dal peso) e la massa inerziale (misurata dalla resistenza al moto) di un corpo, costituisce l´assioma da cui si sviluppa una nuova teoria geometrica della gravitazione, la cui verifica sperimentale nel 1919 farà di Einstein un vero e proprio divo mediatico.
Ma, oltre al noto «Padre della relatività», esiste una seconda persona della trinità einsteniana: il Critico della meccanica quantistica (domani), che ricoprì in questo campo il tipico ruolo del Bastian Contrario. Agli inizi del secolo, quando tutti credevano che i quanti non fossero altro che un artificio tecnico, egli fu infatti il primo, e per molti anni l´unico, a credere alla loro esistenza reale. In seguito, quando ormai gli era stato dato il premio Nobel nel 1921 «per la scoperta della legge dell´effetto fotoelettrico», senza alcuna menzione della relatività, e tutti si erano convinti che la meccanica quantistica sviluppata tra il 1925 e il 1929 da Heisenberg, Schrödinger e Dirac fosse la teoria definitiva, Einstein rimase invece l´ultimo a credere che ci dovesse essere una teoria più fondamentale, da cui la teoria si potesse dedurre.
Per anni cercò, imperterrito, di dimostrare l´inconsistenza della meccanica quantistica, cercando un esperimento da cui si potessero ricavare più informazioni di quelle permesse dal principio di indeterminazione. Ma nel 1935, convinto ormai anch´egli che la teoria fosse corretta da un punto di vista pratico, diede comunque la sua ultima zampata: in un articolo scritto insieme a Boris Podolsky e Nathan Rosen e intitolato «La descrizione quantica della realtà può essere considerata completa?», pose le basi di un esperimento che fu successivamente affinato nel corso degli anni, da Bohm nel 1951 a Bell nel 1964, e in seguito confermato sperimentalmente da Aspect nel 1982, dal quale si deduce che la metafisica classica è insostenibile nella sua interezza, e che la meccanica quantistica ci costringe a cambiare radicalmente la nostra ingenua visione di un mondo locale, costituito di oggetti separati e reali.
Se gli scritti della seconda persona della trinità einsteniana sono forse i più tecnici e i meno leggibili, il contrario è vero per quelli della terza persona: il Profeta disarmato, maestro di saggezza e di arguzia.
Emblematiche della variegata personalità del massimo scienziato del Novecento sono due lettere: quella a Roosevelt del 1939, che consigliava di intraprendere la costruzione della bomba atomica, e quella a Russell del 1955, il suo ultimo atto pubblico, che aderiva alla costituzione di quello che poi divenne il Movimento Pugwash degli scienziati contro l´atomica, vincitore del premio Nobel per la pace nel 1995.
Ma la summa del suo pensiero è forse il saggio del 1931 «Come io vedo il mondo», che si conclude in maniera simmetrica a come si aprirà l´Autobiografia scientifica: «Io non posso concepire un Dio che ricompensa e punisce le sue creature, e che esercita una volontà simile a quella che noi sperimentiamo su noi stessi. Né so immaginarmi e desiderare un individuo che sopravviva alla propria morte fisica: lasciate che di tali idee si nutrano, per paura o per egoismo, le anime fiacche. A me basta il mistero dell´eternità della vita, la coscienza e il presentimento della mirabile struttura del mondo in cui viviamo, insieme con lo sforzo incessante per comprendere una particella, per piccola che sia, della Ragione che si manifesta nella natura».

Repubblica 31.8.07
Machiavelli. Nel clima della creatività rinascimentale
di Lucio Villari

L'autore del "Principe" scrisse con i registri della scienza ma anche dell'invenzione letteraria

Si fa risalire a Galilei la paternità della scrittura scientifica non soltanto per i contenuti quanto per la forma, cioè la chiarezza, la precisione sintattica, l´incisività espressiva e la costruzione letteraria - a cominciare dal dialogo - degli argomenti. La prosa scientifica galileiana nasceva nel tempo del lussureggiante barocco (in poesia, letteratura, storiografia...) e ne era il suo contrario: sostantivi essenziali, uso moderato degli aggettivi e delle metafore. Per i francesi la primigenia scrittura scientifica appartiene di diritto a Cartesio ed essi ne fanno tesoro ancora oggi. Il Cartesio del "clare et distincte percipere" e della "certitudo", che non era certezza da opporre al dubbio (che per il filosofo francese era, comunque, "metodico"), ma indicazione di concetti stabili.
La prosa galileiana ha, quanto alla "certitudo", un precursore illustre in Niccolò Machiavelli, se è vero che, come Galilei per la matematica e l´astronomia, Machiavelli ha scrutato la politica e l´agire politico come materiali mobili e variabili casuali, ma soprattutto come problemi da sezionare e sottoporre ad analisi scientifica. Quello di Machiavelli è il clima della creatività rinascimentale, quando emersero i linguaggi della filosofia (dal raffinato neo-platonismo al naturalismo di Pomponazzi e Telesio) che coinvolsero grandi pittori e architetti. Alla ragione filosofica rinascimentale, che fu anche scoperta di libertà e, come egli diceva, del "vivere civile", Machiavelli appartiene di diritto e nelle sue scritture i traslati, le allusioni, i modelli figurativi sono beni strumentali di un procedimento conoscitivo della realtà "effettuale". Termini per nulla scientifici, come virtù, astuzia, fortuna e immagini di comportamenti politici (volpe, leone e così via) escono dalla sua penna come solidi geometrici: oggetti e soggetti reali della politica, identificati e delimitati. Non sono - è una sua battuta pungente - dei "Paternoster".
Machiavelli scrisse con i registri della scienza e dell´invenzione letteraria; come tenterà di fare Galilei, che avrebbe voluto diventare critico letterario. Senza l´invenzione letteraria e la fantasia erotica della Mandragola, di Belfagor arcidiavolo (a proposito, rileggano questa favola gli esaltatori acritici della "famiglia"...), dell´Asino, di intermezzi e canzoni recitate in palcoscenico da attrici e cantanti di cui si innamorava, Machiavelli non sarebbe forse entrato nei territori della politica come arte e non avrebbe lasciato nel Principe, nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, nelle altre opere e nelle lettere, modelli di libertà letteraria e scientifica nella quale credeva fermamente. Nei "Discorsi" chiamerà "infami e detestabili" i capi politici incolti, "inimici delle virtù e delle lettere e d´ogni altra arte che arrechi utilità e onore all´umana generazione". Non a caso Guicciardini in una lettera del l521 definì l´amico Niccolò "extravagante di opinione dalle commune et inventore di cose nuove et insolite".
Si sa della relazione teoretica tra il Principe e l´esperienza breve e folgorante di Cesare Borgia. Ebbene, il Principe fu composto verosimilmente tra il 1513 e il 1517, dunque molti anni dopo la caduta del Valentino avvenuta nel 1503; si sa anche che, in una relazione diplomatica alla Signoria Machiavelli aveva mostrato delusione per la fine ingloriosa e patetica di un prezioso campione di Signore e geniale reggitore di Stato. Chiediamoci però quale fosse lo stato interno intellettuale più vero e credibile di Machiavelli di fronte all´avventura di Cesare: quello dell´ambasciatore deluso oppure quello, precedente, dell´ammiratore incantato? La risposta è anche nelle sue scritture letterarie: la maturazione teorica di Machiavelli, le sue inclinazioni psicologiche, la sua fredda razionalità lo portano al disincanto, ma i miti, le epopee, gli eroici furori lo hanno sempre affascinato ed emozionato. E in lui la fascinazione letteraria e poetica fluisce nella politica (e viceversa).
Sappiamo dell´ammirazione sconfinata per l´Orlando furioso, ma al tempo del Valentino il poema dell´Ariosto non era stato pubblicato. Quindi è del tutto autoctona e originale l´ispirazione che coglie Machiavelli, pochi mesi dopo l´eclissi di Cesare, a immaginare e scrivere su di lui e sugli anni agitati della storia contemporanea d´Italia e di Firenze, un poema, anzi, un poema epico. E´ il Decennale primo, scritto sull´onda di una emozione non più controllata dagli obblighi dell´ufficio diplomatico. Sono 549 versi gettati giù in quindici giorni nell´ottobre l504 e pubblicati due anni dopo. E´ in terza rima e racconta eventi storici appena accaduti o ancora in corso, e la presenza di Cesare Borgia crea una disarmonia costruttiva, un caos che è proprio della storia reale non della storiografia inventata. Questo poemetto della realtà e contemporaneità della storia fu una delle poche opere che Machiavelli diede alle stampe (il Principe, ad esempio, restò inedito tra le sue carte).
Siamo certi però che questa sfida letteraria non abbia rapporto con le sfide intellettuali delle opere teoriche? E´ evidente che l´epopea di Cesare Borgia infiammò la creatività di Machiavelli lasciandola da quel momento in poi in stato di ebollizione teoretica. Il pensiero di Machiavelli è dunque nutrito di una fantasia pragmatica e fecondatrice di idee e immagini, senza le quali, avrebbe poi detto Croce, le scienze positive, le "scienze baconiane" (come fu il "ragionare dello Stato" di Machiavelli) "si arresterebbero, illanguidirebbero, inaridirebbero, facendosi vieppiù estrinseche e meccaniche".

Liberazione 31.8.07
Ho assistito alla violenza su una donna che conosco
Lui picchia Elena, Elena sta zitta e io non posso denunciarlo
di Giusy Gabriele

Scrivo questa lettera perché vorrei che a partire dall'articolo di Luigi Attenasio apparso martedì su Liberazione si aprisse un dibattito che possa contribuire a"cambiare il corso degli eventi". Non volendo addentrarmi in una disquisizione giuridica racconto un episodio che mi ha coinvolto. Ero rilassata dalla mia parrucchiera quando all'esterno del locale attraverso i vetri ho visto un ragazzo che picchiava Elena (naturalmente è un nome inventato) la giovane ragazza che normalmente con grande affabilità mi lava i capelli. C'è stata da parte di tutte le presenti una corsa nel tentativo di sottrarla a quella violenza cieca con il risultato che il "bruto" l'ha costretta ad infilarsi in macchina ed è scappato.
Dopo un dibattito tra donne durato pochi minuti ho avvertito la polizia, che con estrema velocità ed efficienza è intervenuta, ma purtroppo ci ha fatto sapere che, pur avendo rintracciato la ragazza, non potevano fare nulla perché per una "violenza privata" ci vuole una denuncia di parte che la nostra Elena non vuole fare, essendo l'uomo la persona con la quale ha una relazione.
Ho passato la serata in preda ad una rabbia profondissima, la mia domanda è fin troppo semplice: se avessi assistito ad un qualsiasi altro reato mi sarebbe stato permesso di denunciare? Dobbiamo accettare che la donna debba essere lasciata sola a decidere? Quando con fiumi di parole si sostengono discutibili proposte per la sicurezza, come quelle di arrestare i lavavetri, è perché in questi casi è la nostra quiete ad essere disturbata, mentre vedere una donna picchiata non ci crea fastidio? Forse uno spazio dedicato a questi crimini, come avviene giustamente per quanto riguarda ad esempio le morti bianche, significherebbe fare qualcosa di concreto per porre l'attenzione su questo fenomeno aberrante che lascia le donne che subiscono violenza sole e tutte e tutti coloro che vorrebbero intervenire impotenti. So bene che su questo tema il confronto tra le donne è stato lungo e complesso. Ma, oggi, immagino che Elena non tornerà al lavoro per la vergogna ed è in balia di un uomo che magari crede di amare. Chiedo a tutte ed a tutti cosa facciamo concretamente per passare al "che fare" e prevenire che si perpetrino queste situazioni? E, se, come cita Attenasio nel suo articolo, già Basaglia aveva identificato alcune relazioni parentali come relazioni di dominio, come facciamo a dare impulso al percorso di liberazione? Parliamone, almeno parliamone.

Liberazione 31.8.07
«Creatività, un mito da sfatare quando è al servizio del marketing»
Intervista ad Anna Oliverio Ferraris, psicologa e autrice di numerosi studi sullo sviluppo e l'educazione. E' ospite del Festival della mente che apre da oggi a Sarzana. Scienziati, artisti e sociologi a confronto fino a domenica
di Tonino Bucci

Di creatività cominciarono a parlare negli anni novanta i profeti della fabbrica toyotista. Il lavoro, si diceva, non doveva essere più una cosa sporca, non doveva impegnare soltanto il fisico e il corpo. No, l'operaio avrebbe dovuto essere coinvolto anche con la mente, parte attiva nella comunità dell'impresa, come in una grande famiglia. Così la qualità sarebbe stata totale e i lavoratori avrebbero sviluppato uno spirito d'iniziativa senza più badare alla divisione burocratica delle mansioni. All'operaio non sarebbe stato più necessario attendere ordini dall'alto ma avrebbe, con la propria inventiva, preso a cuore il problema di come migliorare continuamente i metodi di produzione e la qualità dei prodotti. Non più "scimmioni addestrati" come diceva Gramsci ai tempi del fordismo, ma individui chiamati a dare il meglio dell'intellligenza umana.
Poi, con gli anni, abbiamo scoperto - come alla Fiat di Melfi, per esempio, costruita in pieno stile giapponese - quale fosse il prezzo da pagare per questa creatività: dedizione pressoché illimitata verso la direzione, stress mentale, precarietà, turni massacranti, assenza dei sindacati. Creatività coatta, forzata, estorta che contraddice gli slogan ideologici di questi anni di capitalismo trionfante. Creativi devono essere i pubblicitari, creativa l'economia ormai approdata a un'epoca immateriale senza merci, e creativa anche la finanza, arte esoterica di come produrre soldi con i soldi.
E, last but not least , sulle fondamenta di questa ideologia si apre lo scenario inquietante di una società divisa tra individui creativi e talentuosi che per natura hanno diritto ad accedere alla ricchezza e al comando, e altri ritenuti sprovvisti di quelle doti naturali e destinati a ricoprire ruoli inferiori - tant'è che certa psicologia s'è persino illusa di poter misurare l'intelligenza per mezzo d'improbabili test "scientifici".
Insomma, creativi non sempre è bello e se ne parlerà al Festival della mente di Sarzana, quest'anno alla quarta edizione. Si apre oggi e andrà avanti fino a domenica con un fitto elenco di presenze, scienziati e artisti, sociologi e filosofi: Giuliano Montaldo, Francesco Guccini, Marco Santagata, Piergiorgio Odifreddi, David Le Breton, Marco Aime, Guido Barbujani. Fra loro anche Anna Oliverio Ferraris, psicologa di lunga data, autrice di numerosi studi tra cui Le età della mente , Psicologia della paura e Piccoli bulli crescono . Domani terrà una relazione sulla creatività e il doppio volto della paura.

La paura può inibire la voglia di esplorare e spingere al conformismo. Ma può essere anche positiva. Perché?
Perché sotto l'effetto della paura una persona comincia a prendere in considerazione tutte le possibili soluzioni. In questo senso è una pulsione positiva. Anche nell'arte, nel cinema, nella letteratura ci sono moltissimi autori che hanno fatto della paura la loro musa ispiratrice. Non dimentichiamo che i bambini giocano a farsi paura.

Esiste un fascino estetico della paura?
C'è un'attrazione del brivido. La paura è un'antagonista della noia. Ma quando è eccessiva, quando è cronica allora può portare al blocco del pensiero, al conformismo. soprattutto la paura della disapprovazione. La paura di sbagliare blocca molte persone dall'esprimere il proprio punto di vista. Ci sono luoghi di lavoro in cui è molto pericoloso dire quello che si pensa perché si rischia l'emarginazione se non il mobbing.

Ma c'è, a voler generalizzare, una fase della vita in cui questo meccanismo della paura fa più presa? La paura subentra con l'ingresso nella socialità o, come si diceva, nel mondo del lavoro?
Naturalmente un bambino di età prescolare tende ad avere meno paura, è più spontaneo. Via via che cresce si rende conto che le esigenze che hanno gli altri pongono dei limiti, delle prove, delle sfide. Quando si entra nell'adoloscenza c'è questo bisogno di essere accettati che può rendere conformisti. E' uno dei rischi. C'è bisogno di appartenenza, di far parte di un gruppo e per questo si è talvolta disposti a rinunciare a a una parte di se stessi e a omologarsi. D'altronde, i grandi creativi hanno sempre dei momenti di grande solitudine nella propria vita. Quando vai controcorrente ti ritrovi da solo. E non tutti riescono a reggere questa solitudine. E' il prezzo da pagare. Lo si è visto studiando le vite dei personaggi che hanno realizzato qualcosa di importante. Se hanno vicino qualcuno che crede in loro riescono, anche se la maggioranza li ostacola. Ma da soli è difficile.

Ma la creatività è una tendenza innata appannaggio solo di alcuni o una dote che si conquista con l'educazione e per effetto dell'ambiente sociale?
Come per tutte le categorie psicologiche e per tutti i tratti della personalità anche la creatività è un tratto complesso che ha vari ingredienti. Sicuramente c'è l'individuo con le sue potenzialità e abilità. Ma c'è anche un grosso apporto dell'ambiente. Altrimenti le potenzialità rimarrebbero allo stato virtuale. Conta molto il bagaglio di conoscenze, di cultura, di pratica che una persona accumula nel corso della propria formazione. Gardner in un suo libro sulle intelligenze fa notare che anche grandi menti come Freud, Picasso, Einstein non siano stati geni per natura, ma abbiano passato tanti anni a studiare. Hanno avuto dei maestri di valore alle proprie spalle. Conta molto la formazione altrimenti non si raggiungono buoni livelli. L'ambiente, inteso come l'insieme delle istituzioni educative e culturali, può fornire stimoli importanti. Anche la persona più intelligente se cresce in un luogo isolato, se non si mette in contatto con la cultura del suo tempo e con persone che possano dargli apporti importanti, è difficile che possa affermarsi.

C'è una genialità anche negli atteggiamenti violenti e persino nel crimine. O no?
Sì, è vero. Io parlerò anche dei lati negativi della creatività, delle forme distruttive che può assumere. Non bisogna lasciarsi ingannare dal fascino del termine. Pensiamo alle armi nucleari e alle macchine di distruzione di massa. Lì dentro c'è racchiuso tantissimo lavoro umano speso per produrle, c'è tanta intelligenza accumulata, c'è il progresso tecnologico, c'è la scienza. C'è persino la creatività. Molte menti hanno dato il loro contributo, consapevolmente o inconsapevolmente. Ciò non toglie che siano spaventose e che facciano paura. E in questo caso la paura è salutare, è più che giustificata. Eppoi prendo in considerazione un altro tipo di creatività che abbiamo sempre sotto gli occhi. E' quella dei pubblicitari. Si definiscono creativi ma sono ambigui. Sono al servizio del marketing, fanno qualsiasi cosa pur di vendere, utilizzano condizionamenti, manipolano l'inconscio delle persone, cercano la vulnerabilità per lavorarci sopra. Anche la creatività ha un doppio volto, non sempre è bella.

Anche la violenza gratuita - certi casi di cronaca efferata fanno scuola - è estetica, raffinata, studiata. Non sarà che per cercare consenso bisogna sempre oltrepassare il limite, come in un meccanismo impazzito?
In genere vengono molto ammirati i violenti intelligenti. Un violento stupidotto viene disprezzato e isolato in un gruppo, il violento intelligente suscita approvazione. Bisogna vedere sempre di che segno è la creatività: se è al servizio della comunità o solo al servizio dell'individuo a scopi antisociali.

Ma è soprattutto la letteratura ad aver scoperto ed esplorato questo immenso territorio dell'intelligenza criminale...
La violenza ha un fascino sottile, si aggancia a quell'aggressività che ognuno ha un po' dentro di sé. Ecco perché può essere pericolosa. Alla fine può generare consenso.