mercoledì 8 agosto 2007

l’Unità 8.8.07
«Via Rasella legittimo atto di guerra»:
il Giornale condannato
La Cassazione, sì al risarcimento del gappista Bentivegna
diffamato da un articolo: non ha colpe per le Ardeatine
di Anna Tarquini

NESSUNO CALPESTI PIÙ la storia. E nessuno osi equiparare i nazisti ai partigiani. L’attentato di via Rasella fu un legittimo atto di guerra contro un esercito straniero occupante. Ci sono volute quattro sentenze, ma ieri la Cassazione ha messo la parola fine a una vecchissima polemica che vede chiamato in causa - da diversi giornalisti ma soprattutto da Il Giornale di Vittorio Feltri - il gappista Bentivegna. La chiude per sempre perché condanna chi in questi anni ha scritto che Rosario Bentivegna era «il solo responsabile» dell’eccidio delle Fosse Ardeatine in quanto autore dell’attentato in via Rasella. L’attentato del 24 marzo ’44 - scrive la Cassazione - attuato dai partigiani romani guidati da Rosario Bentivegna contro i tedeschi del battaglione «Ss Bozen» era diretto a colpire unicamente dei militari e per questo condanna al risarcimento per diffamazione (45mila euro) nei confronti del quotidiano Il Giornale che aveva pubblicato articoli denigratori, con fatti non veri, sui gappisti e Bentivegna.
La vicenda è tutta in un lungo editoriale di Feltri in occasione del processo a Priebke nel lontano 1996. Scriveva Feltri: «Priebke non è peggiore di Carla Capponi o Rosario Bentivegna... C’è poco da meravigliarsi se metto sullo stesso piano nazisti e partigiani. In via Rasella morirono all’istante trentatré soldati altoatesini anziani e inermi...e sette civili italiani tra i quali un bambino... ». L’editoriale finiva con una triste conta dei morti e con la convinzione che in fondo, i nazisti, avevano risparmiato circa 90 persone alle Ardeatine. Ora, dopo quasi dieci anni, la Suprema Corte entra nel dettaglio di quelle parole e di quell’editoriale sostenendo che «non era vero che i poliziotti tedeschi, come sostenuto da Il Giornale, fossero vecchi militari disarmati». Al contrario «si trattava di soggetti pienamente atti alle armi, tra i 26 e i 43 anni, dotati di sei bombe e pistole». E «non era poi vero che il Bozen era formato interamente da cittadini italiani in quanto facendo parte dell’esercito tedesco, i suoi componenti erano sicuramente altoatesini che avevano optato per la cittadinanza germanica». E ancora «non era vero che subito dopo l’attentato erano stati affissi manifesti che invitavano gli attentatori a consegnarsi per evitare rappresaglie». L’asserzione trova puntuale smentita - spiega la Cassazione - nella circostanza che la rappresaglia delle Fosse Ardeatine (335 morti) era iniziata circa 21 ore dopo l’attentato, e soprattutto nella direttiva del Minculpop la quale disponeva che si sottacesse la notizia di Via Rasella, che venne effettivamente data a rappresaglia già avvenuta».
Per la Cassazione, in maniera «motivata» la Corte di Appello di Milano ha riconosciuto che si sarebbero potute esprimere «dure critiche sulla scelta dell’attentato, l’organizzazione, i suoi scopi». Tutti questi fatti «non rispondenti al vero» - dicono i giudici - non possono essere considerati «di carattere marginale» ed è legittimamente da ritenersi «lesiva dell’onorabilità politica e personale» di Bentivegna. Che ieri, soddisfatto, ha commentato: «È la quarta sentenza di un’alta corte italiana, militare penale o civile che ci dà ragione con le stesse motivazioni. Norimberga ha detto la stessa cosa, il processo Kappler ha detto la stessa cosa, i processi intentati dagli alleati contro Kesserling, Meltzer e Mackensen hanno detto la stesa cosa. Tutto il mondo lo sa, solo i faziosi e gli imbecilli si ostinano a dire il contrario».

Repubblica 8.8.07
La suprema corte dà torto al quotidiano che nel '96 pubblicò una serie di articoli revisionisti sull'episodio della resistenza romana
"Via Rasella legittimo atto di guerra"
La Cassazione condanna "Il Giornale", diffamò il partigiano Bentivegna
Il patriota: "la sentenza ci dà ragione e conferma quanto sono imbecilli i faziosi"
di Carlo Picozza

ROMA - L´attentato di via Rasella, messo a segno il 24 marzo 1944 a Roma dai partigiani contro i tedeschi del battaglione "Ss Bozen", fu un «legittimo atto di guerra, rivolto contro un esercito straniero occupante, e diretto a colpire unicamente dei militari». Lo afferma la Cassazione che conferma così la condanna per Il Giornale al risarcimento danni per diffamazione (45 mila euro) a favore del partigiano Rosario Bentivegna. Il quotidiano di proprietà della famiglia Berlusconi, nel 1996 pubblicò articoli denigratori, con «fatti non rispondenti al vero», sui gappisti (gruppi di azione patriottica) e su Bentivegna che, con altri tredici partigiani romani, ideò e realizzò l´azione, travestito da spazzino, con un carretto dov´erano nascosti 12 chili di tritolo, bulloni e altri ferri.
La suprema Corte - ma questo era stato già richiamato nel processo del 2003 in Corte di Appello a Milano - ricorda che non è vero che le Ss fossero «vecchi militari disarmati», come sostenuto dal Giornale: «si trattava di soggetti pienamente atti alle armi, tra i 26 e i 43 anni, dotati di sei bombe e pistole». E non è vero neppure che il battaglione "Bozen" fosse composto da cittadini italiani: «Facendo parte dell´esercito tedesco», sottolinea la Cassazione, «i suoi componenti erano sicuramente altoatesini che avevano optato per la cittadinanza germanica». Dalla sentenza esce destituita di fondamento anche la tesi del quotidiano milanese secondo la quale, subito dopo l´attentato - che lasciò in terra 33 Ss (uno morirà in seguito) - «erano stati affissi manifesti che invitavano gli attentatori a consegnarsi per evitare rappresaglie». Una tesi che, per la Cassazione, trova «puntuale smentita nella circostanza che la rappresaglia delle Fosse Ardeatine (335 morti) era cominciata circa 21 ore dopo l´attentato e, soprattutto, nella direttiva del Minculpop la quale disponeva che si sottacesse la notizia di via Rasella, che venne effettivamente data a rappresaglia già avvenuta». Così, va ritenuta «lesiva dell´onorabilità politica e personale» di Rosario Bentivegna «la non rispondenza a verità di circostanze non marginali come l´ulteriore parificazione tra partigiani e nazisti con riferimento all´attentato di via Rasella e l´assimilazione tra Erich Priebke e Bentivegna».
«Anche questa sentenza, dopo altre quattro», commenta il partigiano, «ci dà pienamente ragione e conferma solo - ora posso dirlo senza incorrere in nessun reato - quanto siano imbecilli i faziosi e faziosi gli imbecilli». Per Bentivegna, «Norimberga ha detto la stessa cosa, come il processo Kappler e quelli intentati dagli alleati contro Kesserling, Meltzer e Mackensen. Tutto il mondo lo sa, solo i faziosi e gli imbecilli si ostinano a dire il contrario».

Repubblica 8.8.07
Lo storico Massimo Salvadori: l'azione fu condotta nella logica della resistenza
"Sentenza giusta e scontata che sconfigge il revisionismo"
Secondo lo studioso l'onorabilità dei partigiani non è in discussione
di Susanna Nirenstein

ROMA - Massimo L. Salvadori, docente di Storia delle Dottrine politiche all´università di Torino, studioso del Novecento, non ha dubbi, la sentenza che definisce l´attentato di Via Rasella del 24 marzo 1944 messo in atto dai partigiani romani guidati da Rosario Bentivegna contro i tedeschi del battaglione Ss Bozen un «legittimo atto di guerra rivolto contro un esercito straniero occupante e diretto a colpire unicamente i militari» è assolutamente legittima e in un certo senso «scontata». Salvadori non ha i dubbi che alcuni storici hanno manifestato negli ultimi anni non tanto sulla definizione di «atto di guerra» quanto sulla sua opportunità, né fa riferimento a coloro che hanno visto nell´azione una forzatura dei comunisti, un modo per causare sì una reazione forte ma in seconda istanza una insurrezione popolare.
«Non si può mettere in discussione» ci dice al telefono commentando il verdetto della Cassazione, «che Via Rasella si sia trattato di un attacco contro forze regolari germaniche, che fossero altoatesini o meno non ha nessuna importanza: erano soldati della Wermacht. L´attentato viene compiuto nel quadro di azioni di guerra che furono condotte nella tragica logica della Resistenza, ovvero di forze armate in conflitto con l´occupante».
E continua: «L´argomento usato in chiave revisionistica secondo cui l´onorabilità di Bentivegna e degli altri partigiani viene messa in questione dal fatto che non si consegnarono ai tedeschi per evitare una rappresaglia, è un argomento capzioso: voglio dire che se chi compie azioni contro l´esercito di occupazione dovesse poi arrendersi e mettersi nelle mani del nemico negherebbe il senso dell´offensiva delle forze partigiane. Se si usa una logica del genere i partigiani non potrebbero mai compiere atti ostili. La sentenza ha ristabilito delle verità che potevano ritenersi scontate».
Alla domanda se abbia mai pensato che una forza resistente debba o meno porsi il problema dei civili coinvolti, Salvadori risponde: «Una questione del genere non riguarderebbe solo la guerra partigiana in Italia. Resistere pone dei drammatici interrogativi. La rappresaglia è un pericolo grave. Ma rinunciare ad agire contro gli occupanti per paura delle ripercussioni sui civili, vorrebbe dire togliere il fondamento stesso della resistenza. Il problema si pone da sempre, si presenta anche nel mondo antico, pensi alle rappresaglie dei romani contro gli zeloti. Quando c´è una resistenza contro gli occupanti, la spirale attentati/rappresaglia è una spirale oggettiva che appartiene alla dinamica della situazione storica».

Repubblica 8.8.07
In origine c’era una sola lingua
La parola distingue l'uomo da ogni altra specie
La genetica ci riporta alla prima tribù
di Luca e Francesco Cavalli-Sforza

In latino, verbum è la parola, quindi l´elemento fondante del linguaggio, o il linguaggio stesso. In italiano ha conservato il significato di termine grammaticale per designare la parte del discorso che indica il divenire, l´azione o lo stato del soggetto. Nell´uso cristiano, indica la parola di Dio che crea il mondo, la seconda persona della Trinità, come nel Vangelo di Giovanni ("In principio era il Verbo"). L´equivalente greco, lógos, sta per parola, discorso, l´idea espressa dalla parola, ma ha anche il significato di ragione, ragionamento. Queste estensioni del concetto non stupiscono, se consideriamo che la parola è l´unità basilare del linguaggio, la maggior differenza tra uomo e animali. Anche gli animali comunicano tra loro, alcuni, come le formiche, con messaggi chimici, altri, come le api, con danze elaborate, altri ancora con versi, suoni e canti, ma nessuno di questi sistemi di comunicazione ha raggiunto il grado di ricchezza e versatilità caratteristico del linguaggio umano.
L´analisi del linguaggio è forse la più astratta delle scienze, perché è del tutto autoreferenziale. Per spiegare il significato di una parola un dizionario impiega altre parole, impresa molto difficile, soprattutto quando si tratta di parole astratte. In realtà, la massima parte delle parole designa oggetti, azioni, fenomeni molto concreti, come è naturale per uno strumento nato per aiutare le persone a scambiarsi informazioni e ad operare insieme. Se confrontiamo la ricchezza e la precisione dei termini che descrivono la strumentazione e le attività di un´officina meccanica, ad esempio, con la relativa povertà e l´imprecisione dei termini che descrivono nozioni e operazioni astratte, per quanto universali (come "amore", "pensiero", "curiosità"), ci rendiamo conto di quanto il linguaggio sia sempre stato essenzialmente uno strumento pratico, volto a favorire lo sviluppo delle interazioni umane. Nell´antichità era diffusa la convinzione che la parola fosse in qualche modo compartecipe di ciò che essa designa, che ne condividesse la sostanza. Oggi si giudica che il significato delle parole sia arbitrario, cioè che una parola designi ciò che designa per semplice convenzione fra i parlanti.
Sempre per ragioni pratiche, di economia delle parole, il linguaggio è ambiguo: una parola può avere parecchi significati, di solito abbastanza distanti fra loro perché non sia troppo difficile intuire, in base al contesto, in che senso una parola polisemica (cioè che ha molti significati, come è vero di molte parole) viene impiegata in una precisa circostanza. Se però si vuole eliminare qualsiasi errore di comprensione è necessario ricorrere ad un glossario tecnico specializzato, più ricco del solito, oppure alla logica o alla matematica. Anche per questo la scienza ha bisogno della matematica.
Non sappiamo quando e come sia comparso il linguaggio, ma deve essere passato per vari stadi e deve essersi trattato di un lungo processo, perché ha richiesto importanti cambiamenti biologici, che non compaiono dall´oggi all´indomani: la formazione dell´organo che permette di produrre la voce, dei centri nervosi capaci di dirigerlo ed anche di quegli organi e centri nervosi che ci mettono in grado di ascoltare e capire quanto ci viene detto. Si è riusciti a farsi capire dalle scimmie più vicine a noi, ma non a farle parlare se non attraverso simboli visivi e giochi, anche elettronici, tramite i quali ci comunicano i loro desideri e altri semplici sentimenti e informazioni. I risultati però rimangono solo molto lontanamente paragonabili all´uso che facciamo del linguaggio per comunicare tra uomini.
In realtà il linguaggio è il tratto culturale umano che meglio dimostra l´unità della nostra specie. Esistono almeno seimila lingue diverse - molte altre sono estinte - ma la traduzione dall´una all´altra è sempre possibile, con limiti dovuti soprattutto alle grandi diversità dei rispettivi stili di vita, per cui i linguaggi dei popoli che fanno una vita più semplice possono accontentarsi di non molte migliaia di parole, mentre le culture tecnicamente più avanzate ne richiedono centinaia di migliaia. Soprattutto, non vi è limitazione che impedisca ad alcun essere umano, che non soffra di gravi menomazioni innate o acquisite, di imparare perfettamente qualsiasi lingua esistente. L´apprendimento può essere imperfetto se non avviene nei primi anni di vita, perché il nostro cervello è fatto in modo che il linguaggio deve essere appreso nei primi tre o quattro anni di vita, in cui siamo predisposti a impadronirci rapidamente di quella che rimarrà poi sempre la nostra lingua materna. Nello sviluppo vi sono molti periodi critici, diversi per le diverse acquisizioni: per il linguaggio, un primo periodo critico è questo. Ve ne è poi un altro più avanti, o meglio un altro limite di età oltre il quale l´apprendimento non può più essere perfetto, che riguarda le lingue straniere e in particolare la loro pronuncia: durante la pubertà, quasi tutti perdono la capacità di apprendere correttamente i suoni di una lingua diversa dalla madrelingua. Purtroppo si direbbe che in genere i ministri dell´istruzione ignorino questa regola, per cui l´insegnamento delle lingue straniere inizia troppo tardi. Dovrebbe cominciare nella scuola elementare.
Le lingue evolvono rapidamente. Nel De vulgari eloquentia, Dante si mostra consapevole del fatto che il linguaggio evolve e che lingua madre e lingua figlia possono diventare reciprocamente incomprensibili in poco più di mille anni. Gli era ben chiara la differenza tra il latino e l´italiano che lui stesso parlava. Ma il primo studio sistematico delle lingue è stato compiuto alla fine del Settecento da un giudice inglese che viveva in India, Sir William Jones, che ebbe occasione di accorgersi della somiglianza tra sanscrito, greco, latino (comprese le lingue da questo derivate) e le lingue germaniche e slave. Cominciò così a prendere forma la prima famiglia linguistica, oggi chiamata indoeuropea, o indoittita poiché l´ittita è la lingua più antica del gruppo europeo. Nel 1865 il linguista tedesco August Schleicher ne diede un albero evolutivo, poco diverso da quello su cui vi è oggi un discreto consenso.
L´estensione di questa analisi ad altre lingue ha visto formare parecchie altre famiglie, ma con poco accordo fra i linguisti. Nel 1866, la Società di Linguistica di Parigi promulgava un tabù, vietando ufficialmente di occuparsi di evoluzione del linguaggio. Il divieto evidentemente ha avuto successo, perché solo nella seconda metà del secolo scorso vi è stato un progresso importante, grazie a Joseph Greenberg, dell´Università di Stanford, che giunse molto vicino a ricostruire un albero evolutivo completo delle lingue dell´umanità, ma disgraziatamente morì prima di avere completato il suo lavoro. Sfidando l´approccio più tradizionalista, il metodo sviluppato da Greenberg mette a confronto alcune centinaia di parole di uso molto comune in lingue diverse: termini che indicano parti del corpo, sostanze e fenomeni naturali universalmente presenti, pronomi personali, i numeri un due tre e così via: si tratta di parole che sono fra le prime che il bambino impara, e che meglio si conservano nel corso del tempo.
Il numero delle principali famiglie varia, a seconda dei tassonomi, da dodici a molte di più. Con il minor numero di famiglie formulate dai linguisti più avanzati, dodici, l´albero evolutivo delle lingue corrisponde molto bene all´albero genealogico delle popolazioni umane costruito in base ai dati genetici, con alcune eccezioni che hanno una chiara spiegazione storica.
In genere il problema dell´origine del linguaggio riscuote poco interesse fra i linguisti, molti dei quali lo considerano un problema insolubile, e ritengono che la ricostruzione della storia evolutiva delle lingue possa difficilmente risalire più indietro dei seimila anni ritenuti data d´origine della famiglia indoeuropea (che probabilmente è coeva all´origine dell´agricoltura, intorno ai 10.000 anni fa, e quindi ha un´età quasi doppia).
La genetica ha dato un importante contributo a comprendere l´evoluzione delle lingue. Un gene chiamato FOXP2, responsabile di un difetto ereditario complesso, che riduce le capacità di articolazione e determina carenze grammaticali, fa pensare che vi siano stati cambiamenti recentissimi che hanno permesso di raggiungere il grado attuale di sviluppo delle capacità linguistiche. L´uomo anatomicamente moderno ha non più di 150.000 anni di vita, secondo gli archeologi, ma le prime modifiche del cervello che hanno portato a sviluppare i centri motori del linguaggio, ben noti agli anatomisti e ai patologi, che occupano le circonvoluzioni nella parte media sinistra del cervello umano, potrebbero avere una antichità assai maggiore, di due milioni di anni.
Come detto sopra, qualunque uomo vivente oggi può imparare qualunque lingua esistente, e i dati archeologici e genetici concordano nel mostrare che tutti gli uomini oggi viventi discendono da una piccola popolazione che viveva in Africa orientale, delle dimensioni di una tribù. Gli antropologi sanno bene che tribù e lingua sono quasi la stessa cosa, e questa tribù da cui tutti discendiamo doveva parlare una lingua sola, da cui devono essere derivate tutte quelle esistenti oggi.
Già un famoso linguista italiano, Alfredo Trombetti, cento anni fa aveva proposto l´idea che tutte le lingue umane esistenti abbiano avuto origine da un´unica lingua. Il suo libro era stato ridicolizzato dai contemporanei, ma la genetica lo conferma in pieno. Vale la pena di ricordare che questa conclusione è in accordo con una profezia di Darwin (L´origine delle specie, seconda edizione, cap. XIV): "se possedessimo un albero genealogico perfetto dell´umanità, un ordinamento genealogico delle razze dell´uomo permetterebbe la miglior classificazione delle lingue che oggi si parlano nel mondo."

(7 - continua)

Liberazione 8.8.07
Atei e credenti innoviamo la laicità
di Domenico Jervolino

Confesso che non mi capitava da un pò di tempo di leggere con soddisfazione e consenso un editoriale di Eugenio Scalfari su Repubblica . E' accaduto domenica 5 agosto con quello che prende il suo titolo da una citazione dal più grande poeta: "Oh Costantin di quanto mal fu madre...". Le parole di Dante introducono un ragionamento articolato che mostra come sia stata e resti fondamentale per la nostra storia politica la questione cattolica, che potremmo anche chiamare con Gramsci la questione vaticana, che dipende appunto dal fatto che il nostro paese ospita la sede del successore di Pietro e che questa sede ha assunto nel corso dei secoli un potere politico consistente (appunto nel periodo che fu chiamato "epoca costantiniana", anche se - come è noto a partire dai tempi dell'umanista Lorenzo Valla - la cosiddetta donazione di Costantino a papa Silvestro è un falso storico cosa che non poteva quindi essere nota a Dante, il quale comunque la depreca, anche come credente). Il potere politico del papato è sopravvissuto in Italia, in forme nuove, grazie tra l'altro al regime concordatario che non dobbiamo solo a Mussolini ma anche, per il suo aggiornamento, a Craxi, con buona pace dei suoi epigoni. Scalfari illustra persuasivamente la specificità italiana della questione cattolica e la sua nuova attualità dopo la scomparsa della Dc, e mostra come essa anzi oggi viene rinverdita dalle persistenti tendenze temporaliste dei vertici ecclesiastici, dai privilegi di cui godono, e dal progetto di fare della specificità italiana la base di partenza di una riconquista di peso politico in altri paesi dalla Spagna al Portogallo, dall'Austria alla Baviera, ad alcuni paesi latino-americani.... Si potrebbe aggiungere che la questione cattolica è importante a livello del mondo globalizzato per l'organizzazione fortemente centralizzata del cattolicesimo romano, oggi persino più dei secoli scorsi, e per la tentazione di giocare questa influenza nel conflitto delle civiltà come appena ieri in chiave anticomunista. Ma, restando all'Italia, credo che si possa condividere il giudizio che la cultura e la politica laica siano inadeguate di fronte a questa tematica, e che non offrano soluzioni efficaci, né l´anticlericalismo di alcuni settori né l'acquiescenza e la subalternità dei più. Temo di dover essere d'accordo con Scalfari anche quando rileva lo scarso interesse della sinistra radicale per queste tematiche: nonostante il fatto, aggiungo io, che su questo punto essa potrebbe richiamarsi alla lezione di Gramsci (ma quest'aspetto dell'eredità gramsciana è coltivato solo da pochi studiosi, pur nell'attuale rinascita gramsciana, nel mondo, che ormai tocca anche l'Italia) e potrebbe rifarsi inoltre all'opera di grandi marxisti come Lelio Basso e alla militanza di tanti credenti nella sinistra politica, sociale e sindacale, in modo numericamente significativo proprio a partire dagli anni del post-Concilio. Anche Rifondazione ha un pò sprecato il fatto che nei suoi primi congressi essa abbia ripetutamente iscritto nelle sue tesi una opzione esplicitamente anticoncordataria, innovando in ciò la tradizione del Pci. Ma tutti, democratici, sinistra, intellettuali laici, dovrebbero imparare a conoscere meglio la complessità e l'articolazione del mondo cattolico (e di quello cristiano, in senso più generale, nonché della questione religiosa, in termini ancora più ampi), a non lasciare la rappresentanza del cattolicesimo ai vertici clericali (regalo enorme che fanno loro stranamente non solo gli obbedienti e gli ossequienti, ma anche gli anticlericali più accaniti) e a declinare un concetto di laicità comune a credenti, non credenti, diversamente credenti come elemento essenziale di un'autentica democrazia. Riusciremo a inserire questi temi nell'agenda della sinistra da unificare e da rinnovare?

Liberazione 8.8.07
Il nuovo libro di Lorenzo Del Boca stigmatizza il comportamento del generale durante la Prima guerra mondiale.
Mandò i soldati allo sbaraglio e quando non erano i fucili nemici ad uccidere ci pensava la corte marziale
Nome Luigi, cognome Cadorna, professione stragista
di Maria R. Calderoni

«La giustizia del senno di poi avrebbe suggerito di fucilare direttamente Cadorna e di mettere al muro anche Badoglio. Forse, era l'unica opportunità che l'Italia poteva giocarsi per evitare l'8 settembre 1943». Attenuanti, nessuna: non concede sconti di sorta questo nuovo libro di Lorenzo Del Boca - Grande guerra piccoli generali, (Utet, pp. 223, euro 14,00) - che non per nulla reca come sottotitolo "Una cronaca feroce della Prima guerra mondiale". Una cronaca feroce ma purtroppo vera; e che resta tale anche se il "lavoro" di occultamento e di rimozione è stato lungo e tutt'altro che vinto. Quasi cinquantamila libri, tanti ne sono stati scritti sul tema, non sono valsi a svelare fino in fondo, a far diventare senso comune, tutto l'orrore, dentro e fuori l'immenso fronte, della Prima guerra mondiale. Vale anche per quanto riguarda il solo versante taliano.
Delitti e misfatti di casa nostra, il macello arriva per ordini dall'alto. Il lavoro di Del Boca ne fa intravvedere un bello squarcio e lo spettacolo è del genere raccapricciante, color rosso sangue, sia pure ammantato di tricolore. Sotto accusa gli stati maggiori, i capi, i generali che hanno guidato - absit iniuria verbis - l'esercito italiano durante l'immane conflitto 15-18.
Cadorna appunto. «Al momento dell'entrata in guerra, l'esercito italiano venne affidato a Luigi Cadorna che, se avesse ottenuto risultati proporzionali alla sua presunzione, avrebbe conquistato il globo terracqueo. In realtà riusci soltanto a trasformare le sue prime linee in un lager dove gli uomini ai suoi ordini furono sottoposti a ogni genere di prevarcazioni anche psicologiche. Gli uomini potevano solo soffrire, dannarsi e morire». Gli uomini, sotto Cadorna, si tenevano col terrore. «Le corti marziali lavorarono a pieno ritmo e i magistrati spedirono davanti al plotone d'esecuzione una quantità di poveracci analfabeti che il fango delle trincee aveva mutilato».
"Muti passavan, quella notte, i fanti". Già, avevano poco da ridere. «I generali valgono poco». Parola di Giovanni Giolitti che, «in uno slancio di onestà intellettuale, fotografò lo Stato Maggiore per quel nulla che era capace di fare»: «Hanno il comando di un'armata il Brusati che basterebbe appena per un reggimento. Il Frugoni, abbiamo dovuto richiamarlo dalla Libia, di tante bestialità era responsabile. Lo Zuccari non è che un elegantone».
Molte pagine del libro sono un'esposizione cruenta delle operazioni-massacro condotte sotto l'illuminata guida di cui sopra. L'8 giugno 1915 è lanciato il tentativo di prendere il Podgora «e fu la prima carneficina dei nostri soldati falciati dalle mitragliatrici e lasciati ad agonizzare nella terra di nessuno».
Nemmeno quindici giorni dopo, il 21 giugno, comincia quella che nei testi di storia passa come "la prima battaglia dell'Isonzo". Nèssun obiettivo raggiunto, né sul Podgora né sul Kuk, e questo al prezzo di 2.000 morti, 11.500 feriti e 1.500 dispersi. La "tattica" usata per esempio sul Kuk venne così descritta da Ugo Oietti: «Ci gettammo a testa bassa, per i ripidi pendii scoperti. Quattro brigate tentarono di sfondare in un triangolo di poco più di un chilometro di base. Immaginarsi il carnaio davanti ai reticolati austriaci pressoché intatti»
Meno di un mese dopo, il 18 luglio, si lancia la "seconda battaglia dell'Isonzo": nonostante il valore dei soldati che per tre volte tentano di conquistare il San Michele, si risolve in un altro disastro, causa mancati aiuti: 42 mila uomini fuori combattimento.
«Rinforzi non ne arrivavano mai e, qualche volta, mancavano le munizioni per resistere». Nondimeno il Comando non vuol chudere il 1915 senza avere colto qualche bel risultato. All'uopo è pronta la "terza battaglia dell'Isonzo", questa volta si punta su Gorizia. Per tre giorni, dal 19 al 22 ottobre, le artigliere italiane martellano i reticolati austriaci senza riuscire ad aprire dei varchi. Non importa: il piano degli strateghi cadorniani prevedeva che il terzo giorno sarebbe dovuta intervenire la fanteria e così fu. «I comandanti diedero ai soldati l'ordine di attaccare. In poche decine di metri quadrati, "i nostri" furono maciullati. Impregnarono col sangue le zolle e coprirono la terra coi loro corpi. Letteralmente». Lì sacrificati 67 mila ragazzi.
Beh pazienza. Si può sempre lanciare la "quarta battaglia dell'Isonzo", ciò che avvenne puntualmente dal 4 al 12 novembre, teatro la zona di San Floriano e Oslavia, ancora una volta, i fanti mandati all'attacco sotto la pioggia di fuoco austriaco, giusto come voleva la tattica di Cadorna: vennero perduti altri 49 mila soldati.
Cadorna, lui. Del Boca gli riserba pagine spietate. «Il generalissimo Luigi Cadorna? Da poche ore era stato nominato capo di Stato Maggiore ma, prima di verificare i piani militari, si preoccupò di acquistare un buon pacchetto di azioni dell'Ansaldo», cioé l'azienda-leader nel campo dei rifornimenti bellici, cannoni e simili: pacchetto sicuramente ad alta remunerazione, dato il macello in corso.
Del resto, nel 1914, al momento di nominare il capo di stato maggiore, gli era stato preferito il gen. Alberto Pollio, «soprattutto per l'intervento di Giolitti, che si giustificò: "Ho scelto Pollio che non conosco perchè Cadorna lo conosco"» (Pollio morì poco dopo) .
Generalissimo? «Non conosceva il valore della fatica (degli altri). Riteneva che il sacrificio non fosse mai sufficiente (quello degli altri). Di fronte al martirio di interi reparti che si lasciarono massacrare per obbedire a degli odini strampalati, mostrò un apatico cinismo. Il 28 agosto 1916 lasciò che un'offensiva terminasse per sfinimento. Era costata 36 mila morti, 96 mila feriti e 25 mila dispersi». Tutto «per avanzare di quattro chilometri e conquistare qualche ettaro di pietraia».
Generalissimo? «E quando i fiaschi non bastarono più, entrarono in azione i plotoni di esecuzione che, in fretta e spesso senza processo, mandavano al muro chi si mostrava titubante nel correre a farsi ammazzare». E «dovevano essere esecuzioni "esemplari", in modo che servissero da esempio e da deterrente».
Generalissmo? Caporetto, «fu una sconfitta da far vergogna». Anche allora, Cadorna venne informato per tempo, «ma ritenne improbabile una offensiva austriaca. Provocò crisi di comando, diede ordini sbagliati, confusi e contradditori che non consentirono alle truppe di schierarsi razionalmente. Sbagliò nel valutare le nostra forze e quelle dell'avversario...».
Caporetto, «la ritirata stava diventando una fuga e la fuga stava assomigliando a una rotta. I più alti in grado si segnalarono per l'agilità con cui abbandonarono il loro posto». Furono perduti centomila uomini. Caporetto, Italia.

Redattore Sociale 8.8.07
India: 700 donne all’anno uccise dalla "caccia alle streghe"

Oltre 700 le donne uccise l’anno scorso, ma meno del 2% dei responsabili viene condannato per omicidio. La testimonianza di Tara Ahluwalia, assistente sociale: "Manca una legge nazionale".
In India sono numerosi i casi di caccia alle streghe nelle aree rurali di circa dodici stati, principalmente nel nord e nel centro del paese. Oltre 700 donne sono state uccise lo scorso anno perché sospettate di essere streghe, secondo quanto riportano i media nazionali. Swati Safena, giornalista indiana indipendente, dedica a questo problema un articolo pubblicato da "La nonviolenza è in cammino", quotidiano telematico del Centro di ricerca per la pace. "Sono zone in cui la povertà è estrema, e in cui le persone hanno scarso o nessun accesso ai servizi sanitari di base e all’istruzione", racconta alla giornalista Tara Ahluwalia, un’assistente sociale della città di Bhilwara, che aiuta le vittime della caccia alle streghe.
"In queste circostanze, la superstizione acquista forza. I problemi sono tanti: cattivi raccolti, morti in famiglia, la perdita di un bimbo, malattie croniche o il prosciugarsi dei pozzi, ma la soluzione resta identica: identificare la strega responsabile e punirla". Etichettare una donna come strega è il modo comune di avere più terra, cancellare le dispute o vendicarsi se lei ha rifiutato una proposta sessuale.
Ci sono anche casi documentati in cui una donna viene presa di mira perché ha un carattere forte ed è perciò vista come una minaccia. Nella maggioranza dei casi è difficile per le donne accusate ottenere aiuto dall’esterno, ed esse sono forzate a lasciare la casa e la famiglia o a suicidarsi, oppure vengono brutalmente assassinate.
"Molte vicende non sono documentate perché è difficile per le donne viaggiare da regioni isolate sino ai luoghi in cui possono fare denunce", spiega ancora Ahluwalia. "E poiché la violenza è diretta largamente contro le donne, la polizia spesso omette di prenderla sul serio. Nel migliore dei casi, la rubricano come un disagio sociale che deve essere risolto all’interno della comunità. Quando una donna ce la fa a raggiungere la stazione di polizia, l’atteggiamento apatico dei funzionari le rende ancor più difficoltoso il processo di sporgere una denuncia".
Una soluzione adottata da Ahluwalia è quella di non condurre le vittime alla polizia, ma di sollecitare la riunione del "jaati panchayat", e cioè del gruppo di persone più rispettate in seno ai villaggi a cui è demandata la risoluzione delle dispute. La pressione sociale assicura che le decisioni prese in questo modo verranno rispettate. L’assistente sociale usa questo sistema da venticinque anni. Solo pochi tra i 28 stati indiani, come Jharkhand e Bihar, hanno una legge contro la caccia alle streghe.
"È l’handicap maggiore", dice ancora Ahluwalia. "Nella maggioranza degli stati non c’è legge sotto cui la polizia possa rubricare il reato. Si tratta di tentato omicidio, ma in assenza di una legge specifica, la polizia registra la denuncia sotto la più mite Sezione 323. Che consiste in questo: diciamo che io ti dia uno schiaffo oggi, e il reato cade sotto la 323. Se dico che sei una strega, e quindi ti costringo a mangiare escrementi, ti faccio sfilare nuda in pubblico e ti picchio sino a che muori, questo va ancora sotto la 323". La pena massima che questa legge prevede è un anno di prigione o una multa di mille rupie (circa 25 dollari).
Nel Rajasthan, la Commissione statale per le donne ha presentato una proposta di legge che inasprisce le pene, chiedendo dieci anni di prigione per chi ferisce una donna durante una caccia alla strega. "Un notevole numero di casi avviene nel Rajasthan, eppure il progetto di legge sta aspettando da un anno, e ancora non è passato all’esame del governo", nota Kavita Srivastava, segretaria nazionale della più antica organizzazione per i diritti umani indiana, l’Unione del popolo per le libertà civili. Meno del 2% di coloro che vengono accusati di aver effettuato cacce alle streghe sono effettivamente condannati, secondo uno studio compiuto dal "Free Legal Aid Committee", un gruppo che lavora a favore delle vittime nello stato di Jharkhand.
"Le punizioni per questa orrenda violenza devono essere severe", dice la dottoressa Girija Vyas, presidente della Commissione nazionale per le donne. "Ed è di uguale importanza pubblicizzare l’esistenza delle leggi. Voglio dire, negli stati in cui abbiamo una legge contro la caccia alle streghe, quante sono le donne che ne sono a conoscenza?". La Commissione ha raccomandato la formazione per le forze di polizia, affinché i funzionari diventino più ricettivi nel considerare i casi di caccia alle streghe, e sta pensando a una legislazione a livello nazionale. Ma l’educazione e la consapevolezza sociale sono le vere chiavi. In numerose comunità rurali l’ohja, o medico-stregone/strega, è una figura potente, soprattutto in assenza di ambulatori e servizi sanitari di base. Nei casi riportati dai media, l’investigazione della polizia ha spesso rivelato che gli "ohja" accettano prebende per accusare una donna di essere una strega.
"Etichettare una donna come strega non solo la depriva economicamente, ma erode il suo senso di fiducia e autostima", dice ancora la dottoressa Vyas. "Anche se ottiene di salvarsi la vita, porta il peso del sospetto e dell’odio della sua comunità, e a volte persino della sua stessa famiglia. È un problema sociale a più dimensioni e richiede un piano d’azione complesso e a più livelli".