domenica 19 agosto 2007

Liberazione 19.8.07
La destra e il suo "doppio": parte la gara all'anticomunismo
di Stefano Bocconetti

Il leit motiv di questa estate è sempre lo stesso: l'Italia è un paese in mano alla sinistra radicale.
Sarà per questo che Berlusconi si sente scippato della sua propaganda da esponenti dell'Unione?

Una sorta di battaglia per il copyright. Battaglia vera, anche se condotta a colpi di dichiarazioni agostane. Quelle che tradizionalmente, da che «politica è politica», vengono poi subito smentite alla ripresa autunnale. Stavolta, invece, qualcosa fa capire che non siamo alla solita "boutade" per conquistare un po' di spazio nei giornali a corto di notizie. Stavolta l'uscita del leader dell'opposizione - di lui si parla - svela che Berlusconi probabilmente ha chiaro il fatto che la destra - questa destra che ha perso le elezioni per 24 mila voti - rischia di essere tagliata fuori. Da tutto. Rischia di essere «scippata» addirittura nei suoi simboli, nelle sue parole d'ordine. Così, ieri è tornato a tuonare contro la sinistra - «sinistra estrema» - che di fatto controllerebbe l'operato del governo. L'ha fatto avvertendo innanzitutto gli annoiati cronisti - costretti a riportare quelle che a prima vista sembravano le "solite" frasi - che la sua era un'«analisi accurata e lucida della situazione». Non routine, insomma.
Il suo ragionamento è una sorta di conseguenza a catena. Tutto, più o meno, comincia con la manifestazione nel giorno dell'arrivo a Roma di Bush. Rifondazione organizza un appuntamento a piazza del Popolo, che va deserto. I «movimenti» fanno, invece, un corteo piuttosto partecipato, e da lì lanciano il primo avvertimento. Diretto proprio al Prc: state al governo, ma solo «come partito di lotta» (usa proprio queste parole). A questo punto, Rifondazione «gira» il diktat ai diesse e compagnia: fate come diciamo noi o saltate. A loro volta i dirigenti democratici prendono in ostaggio Prodi: accontentiamo la sinistra o si va a casa. E Prodi accetta.
Ad essere sinceri, molti potrebbero osservare che non c'è un granché di originale. Se non forse la valutazione di un elemento di cronaca (il flop della manifestazione di piazza del Popolo). In realtà, però, la frase non è quella di sempre. Perché arriva esattamente all'indomani delle sortite della ministra Bonino e del leader della Sinistra democratica, Angius, dirette entrambe a «ridimensionare» il ruolo di Rifondazione. Della sinistra. Anche le parole («il governo che rischia di essere in balìa...») sono quasi le stesse.
Da qui la guerra sul copryght. Con la destra all'opposizone che rischia di essere meno credibile della destra della maggioranza. Con un Berlusconi che rischia di essere meno «efficace» di una Emma Bonino che minaccia di mandare tutto a carte quarantotto, se il governo accetterà l'idea che possano esserci pensioni più giuste e un po' meno precarietà. Si spiega così la «lucida analisi» del leader della Casa delle Libertà. Si spiega così la sua prima sortita postferie.
Diifficile dire se la rincorsa sul terreno scelto dai moderati dell'Unione gioverà alla Casa delle Libertà. Ad occhio e croce non sembrerebbe, se ancora ieri un parlamentare - di secondo piano - di An, tal Nino Strano, spiegava che «o la destra ritrova compattezza e soprattutto idee» o Prodi può domire sonni tranquilli. E per ora di idee girano solo quelle di Berlusconi: che sempre ieri ha annunciato a settembre un vertice per riscrivere il programma delle Casa delle Libertà. Aggiungendo però che «non c'è nulla da inventare», lui ce l'ha già tutto in testa.
Probabilmente ha ragione, allora, chi sostiene che Prodi ha poco da temere da quest'opposizione parlamentare. Tutto fa capire che, stretti fra le battaglie sulla leadership, annunci di iniziative clamorose subito smentite e via dicendo, la destra resterà al palo. Col risultato che Prodi avrà una chance in più. Per provare a governare secondo il mandato che ha ricevuto. E lo dovrà fare da settembre, dalla discussione sul Dpef. Tutto fa capire che, volendo, Prodi potrà governare tranquillamente, rimettendosi in sintonìa con chi l'ha votato. Quattro, cinque punti che facciano davvero la differenza col passato governo. Lo potrebbe fare. Tutto sta a vedere se la destra - quella dell'Unione, stavolta, tutt'altro che fuori gioco - glielo permetterà.

l’Unità 19.7.07
Liberazione va all’attacco di Angius

«Vuol far deragliare l’unità a sinistra. E gioca per il suo futuro politico con i socialisti»
Ha fatto «infuriare i dirigenti del Prc», come racconta in prima pagina Liberazione. L’intervista al senatore Gavino Angius fa discutere a sinistra e il quotidiano del Prc la racconta così: «Bonino a Angius, la strana coppia. Un solo obiettivo: Rifondazione». A stringere l’obiettivo sul senatore il commento di Rina Gagliardi, che ricorda come Angius sia un politico intelligente e «non politicante», schietto e sanguigno: «uno che usa ponderare a lungo le sue posizioni, le sue scelte, ma poi le esprime apertis verbis, senza giri di parole o contorsioni dialettiche». Fu lu, racconta con qualche malizia, a brindare «alla faccia di Occhetto», quando mancò d’un soffio l’elezione a segretario al congresso Pds di Rimini.
Dunque, perché ora prendersela con Rifondazione? si chiede l’editorialista. La risposta è implicita nel titolo, più che uno scontato «La calda estate di Gavino», il seguito: «Agosto, sinistra mia non ti conosco». Perché - ragiona Gagliardi - forse Angius non conosce bene le leggi sul mercato del lavoro precario, la Treu e la Biagi, o forse non le considera una priorità politica; «fin qui, opinioni personali - sbagliate, ma pur sempre opinioni. Ma come fa poi Angius ad affermare che il Prc è contro la legge 30 per pure ragioni strumentali e con una degenerazione propagandistica che ha del grottesco? Qui, duole dirlo, c’è disinformazione o (come propendo a pensare) c’è pura malafede»
È chiaro, prosegue Liberazione, che il pericolo per il governo Prodi non viene da sinistra, ma dalle manovre centriste, dalla «voglia matta di Lamberto Dini di ridiventare presidente del consiglio sia pure per un giro di valzer. Tutto questo Angius lo sa bene. Vuol dire allora che il passionale dirigente comunista di vent’anni fa si è trasformato in uno spregiudicato uomo di manovra? Una quinta colonna del Pd che opera - pensa di operare più efficacemente - da fuori, da libero battitore, con l’incarico di far deragliare, se e come può, il treno dell’unità a sinistra. Uno che alle ragioni di Sinistra democratica crede come noi crediamo in Dio?».
Ma forse c'è un’altra spiegazione, suggerisce maliziosamente Gagliardi: Angius teme di tornare «nell’inferno del comunismo e della radicalità, e di privarsi di un dignitoso futuro politico, al punto da pensare che quello con Boselli e De Michelis sia davvero tale». Così, in filigrana, ecco tornare la vecchia accusa di traditore: perché se no, non è restato nel Pd? perché dunque attacca la Cosa Rossa «come ogni buon toro alla corrida di Pamplona»?

il manifesto 19.8.07
«Per Sd è il tempo delle scelte»
Intervista ad Alfiero Grandi di Matteo Bartocci

Per Alfiero Grandi, già dirigente Cgil e sottosegretario di Sinistra democratica all'economia, l'accordo sul welfare va modificato in tre punti. E il movimento di Mussi deve accelerare per l'unità a sinistra dallo Sdi al Prc. Dubbi sul corteo del 20 ottobre: lasciamo fuori il sindacato dalla polemica politica

«Per le modifiche alla legge 30 non siamo all'ultima battaglia, la sinistra non è a Fort Alamo ma ha il dovere di tenere aperta la questione e battersi per il rispetto del programma». Anche Alfiero Grandi, attuale sottosegretario all'economia, già dirigente della Cgil e oggi in Sinistra democratica, riconosce che per il partito di Mussi «il momento delle scelte è ormai impellente». «La modifica della legge 30 è nel programma - premette Grandi - è una legge che ha introdotto un supermercato della flessibilità che si è tradotto solo in precarietà. Ma per noi flessibilità e precarietà sono concetti ben diversi».
Eppure Angius, dirigente di Sd, ha difeso la legge 30.
Le sue parole lette fuori dalla contingenza dicono semplicemente che come Sd dobbiamo fare una scelta politica. Se siamo d'accordo bene, altrimenti ognuno andrà per conto suo.
E' una scelta tra la «costituente socialista» e il «cantiere della sinistra»?
Salvi ha ragione: Sd nasce per l'unità a sinistra. Noi non vogliamo fare un quarto partitino rosso-verde. E il Pd non potrà rapportarsi come Biancaneve con i sette nani, credo che da qui a ottobre si rafforzerà molto ed è necessario che la sinistra sia altrettanto forte e capace di motivare.
Ma è d'ostacolo il riferimento al socialismo europeo?
Secondo me no. Io sono d'accordo con Angius. Altri guardano più a Sinistra europea che, se ho capito bene, anche per Rifondazione è un punto di partenza. Noi dobbiamo impegnarci tutti insieme in Italia e possiamo spenderci in Europa come vogliamo. Sdrammatizzerei anche il rapporto con lo Sdi: su diritti civili, scuola e laicità siamo completamente d'accordo. Perché non avere un dialogo organico tra noi?
Agire insieme ma su che basi?
Su tre assi fondamentali. Uno sviluppo diverso in una globalizzazione che non può andare avanti così: un altro mondo sociale, economico e ambientale è possibile. Secondo: dare a chi lavora o vuole lavorare una forte dignità in risposta a una divaricazione sociale crescente. Anche Ciampi riconosce che la finanza si sta mangiando l'economia reale. Terzo: se il Pd si unisce partendo dal leader e il resto si vedrà, noi dobbiamo fare il contrario. Dobbiamo unificarci partendo dalla linea politica e da un'iniziativa di massa la più ampia possibile.
In cui rientra o no la manifestazione del 20 ottobre?
E' un appuntamento molto delicato. I tempi non mi sembrano felici, nel pieno della consultazione dei lavoratori e del dibattito sulla finanziaria. Credo che bisogna essere molto chiari sugli obiettivi che si porrà l'iniziativa. Intanto deve rispettare due condizioni: non può essere contro il governo o contribuirebbe ad eliminare la sinistra dalla maggioranza. Manovre neocentriste, anche se velleitarie, ci sono e non vorrei dare una mano a chi parla di alleanze di nuovo conio. E poi non può creare problemi ai sindacati. Per me deve essere un'azione a sostegno dell'iniziativa sindacale e quindi della Cgil, che ha firmato l'accordo ma chiede avanzamenti nella sua attuazione.
Cosa non ti convince dell'accordo del 23 luglio?
Contraddice il programma in almeno tre punti. Si doveva abolire il «tempo determinato» senza limite: 36 mesi di precarietà sono un periodo già abbastanza lungo e l'ufficio del lavoro non può prolungarlo all'infinito. Poi c'è l'abolizione dello staff leasing, su cui anche Damiano era d'accordo e su cui il governo ha fatto dietrofront all'ultimo minuto. Ma l'aspetto che a me preoccupa di più è la liberalizzazione degli straordinari. Indebolisce la contrattazione e aumentando le ore di chi il lavoro già ce l'ha non aiuta certo l'occupazione giovanile. E' un netto arretramento che va rivisto.
Ma visti i rapporti di forza in parlamento come ottenere ciò che chiedi senza mobilitarsi?
Non siamo all'ultima battaglia. Discutiamone serenamente. Chi parla di diktat non negoziabili contribuisce a far giudicare negativo tutto l'accordo. E così non è.
D'accordo, ma come ottenere le modifiche che chiedi?
Dobbiamo agire come con la lettera dei quattro ministri. Rispettare l'autonomia di tutti ma scegliere un asse comune e andare fino in fondo. Sarebbe terribile innescare una polemica nella maggioranza e diventare parte della discussione interna al sindacato. Mobilitarsi non mi scandalizza ma non possiamo fare due parti in commedia. Lasciamo stare il sindacato che è adulto e non ha bisogno di tutori.
Ti riferisci a Rifondazione o anche ad altri?
Anche ad altri. Per sua natura la sinistra deve essere amica del sindacato, dobbiamo aiutarlo a rafforzarsi, dare nuova speranza ai tanti che vi sono impegnati. E poi dobbiamo evitare di ricompattare un centrodestra totalmente disarticolato. Per favore, evitiamo il ritorno del «Caimano». L'alternativa a Prodi è andare a elezioni difficilissime e forse nell'impossibilità di ricomporre la coalizione. Avviamo una battaglia dura ma con questo limite in testa.

Repubblica 19.8.07
"Non mescolare le cose" il comandamento smarrito
di Umberto Galimberti

La differenza sessuale l´abbiamo già abolita con gli abiti unisex, grazie ai quali il giovane può cancellare il sesso a vantaggio dell´età, offrendo così alla retorica della moda quelle espressioni "ancora giovane, sempre giovane" che servono a conferire all´età, più che al sesso, i valori di prestigio e seduzione.
Oggi, la tendenza dei designer è quella di abolire la differenza tra adulto e bambino, arredando le camere dei bambini con oggetti dal significato adulto quando non velatamente sessuale, e i soggiorni degli adulti con arredi infantili che segnalano la fatica di crescere se non addirittura il rifiuto.
Come per i vestiti, così per gli arredi sembra di assistere a un ritorno all´"indifferenziato" da cui l´umanità un giorno si è emancipata attraverso regole, divieti, tabù, codici, rigidi comandamenti seguendo i quali era possibile distinguere l´alto dal basso, la destra dalla sinistra, collocare in alto le cose celesti, in basso quelle terrene, a destra il bene, a sinistra il male, sotto la terra il regno dei morti, sotto la volta del cielo i presagi per i vivi. Fu così che l´uomo fuoriuscì da quello sfondo pre-umano abitato dagli dei, a proposito del quale Eraclito dice: «Il dio è giorno e notte, inverno e estate, guerra e pace, sazietà e fame, e muta come il fuoco quando si mescola ai profumi odorosi, prendendo di volta in volta il loro aroma». A differenza del dio, prosegue Eraclito: «L´uomo ritien giusta una cosa e ingiusta l´altra e non mescola tutte le cose».
Non voglio elevare troppo il tono del discorso a partire da semplici oggetti di arredo, ma senz´altro segnalare che ogni abolizione delle differenze genera una sorta di disorientamento che non aiuta chi sta crescendo a raggiungere quello stadio della ragione che è articolazione delle differenze.
Quando un bambino usa un pennarello prima per disegnare, poi per succhiarlo, infine per metterlo nell´occhio del fratello, interviene la mamma che, con una serie di no, insegna che il pennarello serve solo per disegnare, perché non è un biberon e tantomeno un´arma impropria. Con i suoi divieti la mamma insegna al bambino il principio cardine della ragione che è il principio di non contraddizione, per cui una cosa è se stessa e "non altro". Insegna le differenze tra le cose e passo passo porta il bambino fuori dall´indifferenziato, dove pericolosamente abita e per cui richiede costante vigilanza.
Confondere i codici e far credere che non c´è nessuna differenza tra un tappeto e un uovo fritto, tra una poltrona e una bocca spalancata significa non aiutare il bambino a uscire dall´indifferenziato in cui abita prima di orientarsi nel mondo, e avviarlo a passi spediti nelle prossimità del delirio dove queste contaminazioni sono frequenti, e se non è il delirio, il mondo del sogno dove tutto si contamina in quel fluire e defluire di immagini, dove l´effetto precede la causa, dove il tempo si contrae e lo spazio si altera, dove neppure la mia identità resta stabile, ma prende a oscillare tra l´adulto e il bambino, tra il maschio e la femmina, perché quando la coscienza dorme è la follia a inscenare il suo teatro.
E i bambini vivono in un mondo folle che non è il caso di alimentare con oggetti che hanno più l´apparenza dei fantasmi onirici che la segnaletica di un mondo ordinato o in via di ordinamento. Quando poi sono gli adulti a circondarsi di oggetti infantili - come le poltrone che non finiscono con i braccioli ma con due mani prensili, o come gli arredi da bagno che, dal lavandino allo specchio, hanno la forma dei cuoricini che i bambini dell´asilo si scambiano quando, incapaci di scrivere, comunicano con disegnini i sentimenti delle loro amicizie e inimicizie - allora davvero si contravviene al sesto comandamento che, nella versione originale, non recita: «Non commettere atti impuri», ma: «Non mescolare le cose».
La cultura greca che tanto ha insistito sulla "paideia", ossia sull´educazione dei bambini, a più riprese ha messo in guardia sul rischio di mescolare le cose. Accadde ai troiani che confusero una macchina da guerra come il cavallo di Troia per un dono votivo, accadde ad Edipo che trattò sua madre come sua sposa, accadde ai tebani che quando Dioniso, il dio di tutte le contraddizioni, entrò nella loro città, videro le donne comportarsi come menadi scatenate, i vecchi come bambini, e soprattutto videro infrangersi l´ordine culturale che custodiva quei valori mitici e rituali che garantivano la buona convivenza nella città.
«Non mescolare le cose» significa che l´adulto deve fare l´adulto e non il bambino, e deve affidare agli oggetti che dispone nella casa le tracce ben visibili di questa differenza. Perché il bambino che si sta orientando nel mondo e faticosamente sta acquisendo la differenza tra le cose progressivamente liberate dalle contaminazioni fantastiche, oniriche e allucinatorie che prima possedevano, riceve un grande conforto se, in questo processo che lo libera dall´incertezza quando non addirittura dall´angoscia, è aiutato dall´adulto che non fa il bambino e non si confonde con lui mescolando per gioco tutte le cose, perché questo, anche se non sembra o non gli si dà troppa importanza, è un gioco davvero pericoloso, perché disorienta, perché non avvia all´età della ragione, che è articolazione delle differenze.

l'Unità 19.8.07

Inchiesta/2
La grande paralisi degli anni Ottanta

DALLA CRISI dei Settanta l’Italia non esce in avanti. Bloccata ogni ipotesi di alternanza - non bastò l’«alternativa democratica» lanciata da Berlinguer - il Psi di Craxi scelse un rampante individualismo, e furono gli anni della «Milano da bere». Il conto delle bevute fu un debito pubblico arrivato al 100% del Pil

Agli inizi degli anni Ottanta apparve immediatamente chiaro che qualcosa non funzionava affatto nella strategia comunista. Improvvisamente, Enrico Berlinguer annunciò l'abbandono del compromesso storico e, con la (seconda) svolta di Salerno, approdò ad una mai precedentemente formulata «alternativa democratica»: troppo tardi troppo poco. Troppo tardi, poiché il Pci aveva già iniziato la sua emorragia di voti che lo portò rapidamente dal 34,4 del 1976 al 29,9 del 1983. Troppo poco, perché non poteva bastare una confusa e improvvisata alternativa alla Dc, per anni annunciata come l'alleato privilegiato del compromesso storico, nella quale si mettevano tutti i partiti laici sullo stesso piano e, praticamente, si continuava a sconfessare e a osteggiare l'alternativa socialista, proprio quella voluta dal Psi con il quale, probabilmente, sarebbe stato opportuno riannodare le fila di un discorso politico.
Dal canto suo, Craxi decise rapidamente che se quello era il modo con il quale il Pci pensava di rompere il bipolarismo, allora tanto valeva che lo facesse lui in prima persona accettando di ri-allearsi con la Dc, ma esigendo la carica di Presidente del Consiglio (1983-1987). Non solo il bipolarismo era rotto, ma da quel momento Craxi si impegnò a dimostrare che il Partito comunista non meritava neppure più di essere considerato un oppositore temibile. Era diventato un oppositore semplicemente irrilevante. Non bisognava fare i conti con i comunisti neppure sulla politica economica, a cominciare dal taglio della scala mobile della notte di San Valentino 1984, a continuare con il referendum del giugno 1985, che Craxi vinse anche avendo minacciato le dimissioni («un minuto dopo la vittoria del sì, il Presidente del Consiglio si dimetterà») che un elettorato, cambiato, nel quale le famiglie operaie e contadine non erano più una maggioranza, e prioritariamente interessato alla stabilità politica decise di evitare.
D'altro canto, il Pci rendeva tutto più facile al Presidente del Consiglio socialista. Obbligati a scegliere un successore alla segreteria del partito dopo l'improvvisa morte di Berlinguer, invece di accettare una contrapposizione di linee e di persone - che avrebbe sicuramente prodotto scintille fra continuisti, centristi, riformisti, miglioristi, ma anche innovazione, e avrebbe sprigionato capacità di attrazione - i comunisti lasciarono burocraticamente cadere la loro scelta su Alessandro Natta, il presidente del Comitato Centrale, che già si considerava un pre-pensionato e che per ragioni d'età e di storia personale non avrebbe potuto in alcun modo essere un innovatore. Infatti, né lui né la rappresentanza comunista nella Commissione parlamentare per le Riforme istituzionali, presieduta dal liberale Aldo Bozzi (novembre 1983-febbraio 1985) si impegnarono a dimostrare che la Grande Riforma aveva cessato di essere l'obiettivo istituzionale di Craxi, a sua volta diventato «conservatore istituzionale» nei fatti, ma rimaneva necessaria, anzi, indispensabile per il paese.
Invece, di sfidare democristiani e socialisti, comodamente seduti sulle loro rendite di posizione, i comunisti preferirono difendere le loro rendite di opposizione, ancora politicamente apprezzabili, ma che si stavano irresistibilmente erodendo. A nulla servì una mia lunga passeggiata domenicale sui colli bolognesi, quando, convocato da Renato Zangheri, capogruppo del Pci alla Camera dei Deputati, tentai di spiegargli come e perché una buona riforma elettorale in senso non-proporzionale avrebbe potuto mettere in movimento il sistema politico, tagliando tutte le rendite: di posizione e di opposizione e consentendo nuove modalità di espressione ad un elettorato potenzialmente effervescente. Qualche giorno dopo, febbraio 1984, con grande e amara sorpresa, lessi la risposta di Zangheri nel suo editoriale pubblicato da "l'Unità" (giornale al quale avevo anche iniziato a collaborare): «La proporzionale è irrinunciabile». Naturalmente, tutti coloro che preferivano contare i decimali degli spostamenti di voto, ed erano allora come, temo, ora, consistente maggioranza, in Parlamento e in Commissione, ne furono molto sollevati. Il Pci metteva una pietra tombale su qualsiasi cambiamento della legge elettorale ma, probabilmente, si rendeva anche conto che si erano aperte le prime crepe nella proporzionale. Il massimo a cui la Commissione per le Riforme Istituzionali giunse fu, in chiusura, a votare un ordine del giorno a favore del sistema tedesco firmato, tra gli altri, da Mario Segni, da Pietro Scoppola, da Gino Giugni, da Augusto Barbera, ma solo a titolo personale, senza impegnare il Pci, e anche da me, con la motivazione esplicita «non essendo possibile niente di meglio» ovvero, in inglese, solo come second best. Per gli interessati, la mia proposta si trova per filo e per segno nella Relazione di minoranza della Sinistra Indipendente del Senato, firmata dal Sen. Eliseo Milani e da me.
A più di 25 anni di distanza, dopo due referendum elettorali coronati da successo (1991 e 1993) e due falliti per mancanza di quorum (1999 e 2000), dopo due riforme elettorali, una, la seconda, quella «porcella», peggio della prima, ci troviamo ancora tutti lì. Infatti, è ripreso da capo il dibattito ripetitivo e logoro, ma non certo per colpa dei referendari, su chi, come e quale legge elettorale fare. Allora, erano i tre maggiori partiti che non volevano rischiare nulla, meno che mai le loro rendite, ma nemmeno volevano spaventare i loro piccoli essenziali, comunque, subalterni, alleati che, a loro volta sono sopravvissuti e sopravvivono tuttora grazie alle minime, ma vitali, rendite di posizione (oggi, all'interno, in special modo, della coalizione di centro-sinistra).
Almeno a livello di elaborazione culturale, alla quale, poi, non diedero seguito, i socialisti tentarono qualcosa di propulsivo con il discorso «sui meriti e sui bisogni» di Claudio Martelli al Congresso di Rimini del 1982. Non ne seguì nessuna concreta risposta di governo. Più preoccupati di durare a Palazzo Chigi che di aprire spazi propri ai settori che avrebbero potuto ingrossarne le scarne file elettorali, i socialisti preferirono non fare nulla. E non vale nulla la giustificazione che non trovarono «sponde» nel Pci, dal momento che quelle sponde non furono mai cercate con coerenza e con determinazione.
Privata dello sbocco nella praticabilità di un'alternanza fra coalizioni che avrebbe offerto scontro di leadership, di programmi, di idee e di stile, la parte moderna e dinamica della società italiana scelse la strada dell'individualismo che, forse, premiava i meriti, ma sicuramente non soddisfaceva i bisogni. Sembrarono affermarsi in special modo i rampanti che alla politica chiedevano non interferenza, che alla politica non volevano dare nulla, ma che dalla politica non si aspettavano nulla se non favori. Furono gli anni della «Milano da bere». Dunque, c'era qualcuno che la beveva davvero: fortunatamente non il pool intorno a Francesco Saverio Borrelli, che venne rallentato nelle sue indagini dalla non concessione ad opera del pentapartito dell'autorizzazione a procedere contro lo sponsor di Craxi, il senatore socialista Antonio Natali. Il conto delle bevute, a Milano e a Roma, lo pagava il debito pubblico cresciuto da poco più del 60% del Prodotto Interno Lordo fino ad oltre il 100%.
L'impossibilità dell'alternanza, che era la conseguenza non soltanto dell'incapacità dell'alternando (il Pci) a tagliare gli ultimi suoi legami con il Partito Comunista dell'Unione Sovietica, ma anche a dimostrare che aveva idee, soluzioni, energie e persone in grado di produrre rinnovamento, venne anche, a mio modo di vedere, collegata correttamente con il sistema elettorale proporzionale grazie al quale il pentapartito si riproduceva senza difficoltà, a livello nazionale e a livello locale con esiti epici fra i quali l'epica ascesa del socialista milanese Carraro a sindaco di Roma nonostante il democristiano andreottiano Gerace avesse ottenuto 100 mila voti di preferenza e la Dc avesse tre volte più voti del Psi. In pratica, il pentapartito di Andreotti aveva smesso di produrre decisioni politiche, economiche, sociali di qualche validità tranne quelle poche utili alla creazione e all'espansione dell'impero mediatico della Fininvest. Sopravvivere senza governare il politologo Giuseppe Di Palma aveva intitolato il suo libro sui partiti italiani in Parlamento. Alla fine degli anni Ottanta questa era ancora la fotografia del sistema.
Si abbatté su quel sistema il crollo del muro di Berlino, sottovalutato da democristiani e socialisti, la cui reale portata fu difficile per tutti capire immediatamente nelle sue enormi conseguenze. Si aprì anche lo spazio per il primo tentativo di cambiare quel che si poteva delle regole del gioco, ovvero il sistema elettorale del Senato, in maniera limitata quello della Camera, in maniera molto incisiva quello degli enti locali. Parte almeno della società italiana, modernizzatasi economicamente e socialmente, persino arricchitasi, decise che era venuto il tempo anche della modernizzazione politica che, per non pochi elettori del Nord era già cominciata nella protesta strisciante con il voto a favore delle varie Leghe, lombarda, piemontese e veneta. Ancora una volta, i tre grandi partiti non soltanto arrivavano in ritardo, ma pensarono essenzialmente a come difendersi, non a come guidare il rinnovamento elettorale e istituzionale. Il decennio si chiuse senza idee e senza prospettive.
2 - continua. La puntata precedente è stata pubblicata il 14 agosto


l’Unità 19.8.07
Che Guevara/1
L’avventura iniziò con un viaggio
di Maurizio Chierici

Nel luglio del ’53 un ragazzo appena laureato in medicina, stivaletti e giacca militare, parte da Buenos Aires con un amico. Sognano di attraversare l’America fino a Caracas

La vecchia stazione Retiro a Buenos Aires non è cambiata. Malinconica come ogni stazione anni venti: qui come a New York, Milano. I biglietti si vendono dietro grate strette come un confessionale. Luci fioche nella sala d’aspetto per signore. Gli uomini non possono entrare. Gli uomini passeggiano sui marciapiedi o bevono qualcosa al bar del Gallo Azzurro sotto lo sguardo dei cartelloni che ogni governo argentino distribuisce attorno ai binari, pubblicità istituzionale in concorrenza con detersivi, saponi, automobili. È rimasta Evita Peron; si è aggiunto Maradona.
Ottobre 1987. Sul mio primo viaggio che insegue l’ultimo viaggio di Guevara soffia il vento dell’inverno australe: non si arrende alla primavera.
«L’ultima partenza di Ernesto è cominciata qui». Dopo due giorni di chiacchiere al settimo piano della bella casa in Avenida Callao, Ricardo Rojo, amico d'avventura del Che, mi accompagna al treno che attraverserà le Ande. Dovrò cambiare non sa quante volte e aspettare con pazienza nelle piccole stazioni dell'arrampicata. Gli orari sono di gomma, i ritardi diventano ore. Fra due giorni e mezzo arriva.
L’avvocato Rojo era tornato da poco da un esilio vagabondo. Per la dittatura dei militari appena scacciati era un sovversivo e Alfonsín, primo presidente della democrazia minacciata dai giochi della grande economia e dalle rivolte dei caras pintadas, non poteva permettersi di ascoltare le teste calde che avevano accompagnato la rivoluzione di Guevara. Come Alberto Granado nella prima traversata dell’America Latina, Rojo aveva diviso avventure e speranze di un Che che muoveva i primi passi nel capitolo decisivo della sua breve vita. Un treno senza ritorno. Fra i binari di Retiro non immaginava di sbarcare all'Avana.
Ernesto parte quando l’inverno rabbrividisce: 7 luglio 1953. Si è laureato un mese prima in medicina, 26 anni, stivaletti e giubba militare. Non si annuncia la vocazione: glieli ha passati il fratello in servizio di leva. «Comodi, caldi, si sporcano meno». Rojo non c’é. Compagno di Ernesto, Carlos Calica Ferrer, figlio del pediatra di Alta Gracia, attorno a Cordoba dove la famiglia Guevara si era rifugiata per curare «con l’aria sottile» l’asma del ragazzo. Compagno di giochi, di mare, di sogni. Uno dei sogni attraversare l’America per arrivare a Caracas dove li aspetta Alberto Granado.
Carlos è più giovane di un anno e da un anno lui ed Ernesto mettono da parte i soldi per il grande viaggio: 700 dollari in due In treno, perché costa meno. Si sistemano sui legni di seconda classe. Nella valigia lettere di raccomandazione per gli argentini da incontrare nei posti d’avventura. Li lega un giuramento orgoglioso: mai chiedere soldi a casa quando i settecento dollari sono finiti. «So come è andata dalle loro chiacchiere. Dovresti parlare con Carlos, ma chissà dov’è finito».
Nei due giorni di racconti, mentre cercava di convincermi della bontà del maté che non sopportavo, Rojo ricostruisce la partenza del Che. Era lontano quando Guevara e l’amico hanno preso il treno. Era nascosto a La Paz con documenti strani: «Per passaporto solo il salvacondotto dell’ambasciata del Guatemala a Buenos Aires dove avevo chiesto asilo. Ero radicale, amico di Frondizi. Sono stato in galera con l’accusa di aver preso parte al complotto di chi voleva assassinare Peron. Le raccomandazioni mi aprono la libertà provvisoria. Ma devo andare via dall'Argentina». Salta il cancello dell’ambasciata del Guatemala e chiede asilo politico.
Nel ’53 ha 29 anni, figlio di un proprietario rurale, avvocato alle prime armi. I soldi non gli mancano. Massiccio, baffi da pirata. Per il Che e per tutti è solo el gordo, l'amico grasso.
Il Che e Carlos partono con le borse gonfie di dolciumi. Per i genitori restano ragazzi. Dopo qualche ora la golosità si trasforma in appetito: scambiano le prelibatezze con cosce di pollo. Gli altri viaggiatori sono contadini, indios dell'altipiano, concretezza di piccoli commercianti. Li osservano con lo sguardo ironico di chi guarda i figli di papà: pitucones, fichetti.
Come Rojo (Mi amigo el Che), come ogni persona sfiorata da Guevara, Carlos ha scritto il suo libro di memorie, De Ernesto al Che: il Diario di Enrico Deaglio lo ha intervistato sperando in un'edizione italiana. Arrivano a La Paz. Una notte, nella casa dell'argentino più ricco e autorevole, esule volontario in Bolivia, il Che incontra Rojo. «Isaias Noqueque aveva lasciato il posto di deputato dell’opposizione. Si era trasferito in Bolivia dove la famiglia aveva proprietà. Nel quartiere residenziale di Calacoto, attorno al tavolo della cena raccoglieva gli argentini scontenti. Ernesto non mi ha fatto grande impressione quando ci siamo conosciuti. Taceva, ascoltava per fulminare chi parlava con battute al cianuro. Siamo risaliti in città camminando nella notte. La strada era lunga. L’amicizia è cominciata così. L'ho accompagnato nella stanza che divideva con Carlos, casermone di un squallore che stringeva il cuore. Carlos ed Ernesto trascuravano le forme, la compostezza del vestire. Tasche quasi vuote».
Eppure, con naturalezza, si sedevano ai tavoli del caffè del Sucre Palace Hotel, il più lussuoso della capitale. Al di là delle vetrata i contadini sbarcavano il lunario vendendo cianfrusaglie, pelli di animali; donne e bambini «ortolani», coi sacchi di foglie di coca aperti sul marciapiede. «Il Che guarda sconsolato. Approvava la proibizione del Movimento Nazionalista Rivoluzionario boliviano, partito al governo: proibiva ai tesserati di frequentare i locali notturni. Vita monacale. Dovevano riservare ogni sensualità al trionfo della rivoluzione. Si cenava tardi nella casa di Noagués. Il Che mangiava senza alzare la testa. Divorava ogni cibo che gli passava davanti. La chiamava operazione riserva. Fare il pieno per resistere tre giorni senza masticare un pezzo di pane». Una volta, nella notte, mentre tornano in città, una raffica li sfiora. Ronda della polizia che controlla i documenti e li lascia passare. Sta proteggendo il night El Gallo de Oro. L’insegna al neon illumina operai e viandanti avvolti nei poncho: si riparano dal gelo dei quattro mila metri uno addosso all’altro, stesi a terra. Ma il neon illumina belle automobili, autisti che sonnecchiano aspettando i padroni.
«Il Movimento Nazionale Rivoluzionario si sta divertendo», brontola amaro Guevara. Il quale chiede un colloquio col Ministro degli Affari Contadini: «Il ministro Nuflo Chavez aveva più o meno la nostra età. Sembrava aperto, intelligente, ma evitava le domande nascondendosi nel burocratese di chi non vuol parlare. L' ufficio riproduceva lo squallore di ogni edificio pubblico boliviano. Indios aymara e quetchua, pantaloni grezzi, giacche colorate, facce bruciate dal sole: in fila, con pazienza, con la supplica in mano. Povera gente, il Che si commuove. A quel tempo non era marxista e non aveva nessuna vocazione politica. Disprezzava la politica argentina, non solo dei peronisti. Quando il nostro anfitrione Nougués raccontava la disperazione per l'esilio e la persecuzione che l’opprimeva, Ernesto brandiva il cucchiaio e lo puntava come un fucile. “Ti capisco. Adesso racconta un po' quanto guadagni a fabbricare zucchero”».
La meta da raggiungere resta Caracas. Rojo li accompagna verso il Peru. I ricordi di Carlos sono diversi. Vuol fare la doccia: «Siamo sporchi come maiali». Quel giorno la cassa comune è nelle mani di Guevara. «Se vuoi mangiare ti do i soldi. Lavarsi non serve». Carlos insiste e quando torna profumato trova il Che che divora tartine e frutta. «Fra due ore non dirmi che hai fame».
Le strade di Guevara e Carlos si dividono. Il Che vuole rivedere le rovine atzeche, Rojo scende a Lima. Si danno appuntamento nella caa di un’infermiera, ma in quella casa Rojo aspetta inutilmente: i due amici non arrivano. Continua il viaggio da solo. Ma il destino li riavvicina a Tumbe, laguna-frontiera con l'Ecuador. L'avvocato vede un giovanotto che fuma una sigaretta osservando distratto la folla che preme lungo il confine. «Ernesto!», si abbracciano. In corriera verso Guayaquil. Doveva essere una tappa sulla strada di Caracas. Ma i soldi sono finiti, cominciano i problemi.
Quando il mio viaggio che insegue il viaggio del Che arriva a Guayaquil, il caldo scioglie i pensieri e impallidisce la curiosità. L’equatore taglia una città umida come Honk Kong. Non si respira. Incontro avvocati, politici, qualche storico. Voglio capire dove hanno dormito assieme ad altri argentini incontrati per strada, il Che e i compagni d'avventura. La descrizione di Rojo non coincide con la nuova mappa di una città dove cresce la classe dirigente che ha in mano il paese. Quito, la capitale sulle Ande, è solo la scatola dei burocrati obbedienti agli ordini che arrivano dal mare bollente.
Anche Correa, presidente di oggi, viene da Guayaquil avendo battuto ai voti un impresario alla Berlusconi, anche lui di Guayaquil. «Dormivamo in una casa di legno, cadente, topi ed insetti. Pensavo di impazzire. Osservavo Ernesto. Ne ammiravo la serenità. Per le mie abitudini borghesi i primi giorni di un luogo estraneo sono deprimenti e devono passare settimane prima di abituarmi alla nuova realtà». Guevara e Carlos sembra che abbiamo sempre vissuto nel tugurio. Finiscono i soldi. Vendono gli stracci delle valigie. Il Che resta «con pantaloni così infangati che stanno in piedi da soli e la camicia una volta bianca. Borsa a tracolla. Cercano lavoro fra gli scaricatori del porto».
Anche Rojo è rimasto a secco, ma non ha giurato di chiedere aiuto a casa e aspetta i soldi. Al telefono risponde lo zio maestro massone a Buenos Aires. Vi serve un passaggio sulle navi che partono da Quayquil? La seconda telefonata è allegra. Ha parlato con Allende, vice presidente del senato, gran maestro della massoneria cilena. Allende manda un telegramma ad un avvocato di Guayquil, amico e confratello, e l'avvocato trova un passaggio ai ragazzi argentini sul cargo che fa rotta verso Panama e Guatemala. Ospite dell’United Fruit che scaccerà da Cuba, il Che mette piede in America centrale. Rojo lo convince e non andare da Granado a Caracas: «Vieni in Guatemala.
Il presidente Arbenz ha proclamato la riforma agraria nazionalizzando le proprietà delle multinazionali. È il primo paese latino dove la democrazia sembra a portata di mano. Ernesto risponde: “Andiamo a vedere se hai ragione, a un patto: sei un politico di quelli che si mettono d'accordo coi riformisti. Della politica non voglio sapere. Mi interessa la gente. Guai se vai a lisciare a questo o quel ministro”».
Rojo monta sul primo cargo. Aspetta venti giorni il Che e gli altri. Spariti. È uomo di larghe amicizie. Va a trovare il cancelliere del piccolo paese: Raul Osedega era un pedagogo che aveva insegnato a Buenos Aires e condiviso la bohème degli allievi con un abbandono «che certe sere faceva arrossire», ricorda l'avvocato. Non solo lo sistema a spese dello stato in una piccola pensione, trova un passaggio sulla Ford di due fratelli scappati da Buenos Aires per negli Stati Uniti.
Nel dicembre delle grandi piogge, a Rivas, frontiera tra Nicaragua e Costa Rica, Rojo vede sotto un’acqua torrenziale, due ragazzi che camminano parlando. «Ernesto!», grida per la seconda volta. Anche il Costa Rica sta vivendo una specie di primavera. Il presidente Pepe Figueres, uomo d'affari, agente esclusivo di Mercedes e Coca Cola, ha sciolto l'esercito con la scusa che costava troppo e San Josè diventa la sola capitale al mondo senza uniformi agli angoli delle strade. Sull'esempio degli internazionalisti che hanno combattuto contro Franco nella guerra di Spagna, ragazzi di ogni america latina si arruolano nella sua «legione dei Caraibi» con l'utopia di un mondo disarmato. Fra loro cubani che raccontano dell'avvocato Castro, dell'assalto al Moncada, degli amici che lo aspettano in Messico. «Impariamo tante cose che non sapevamo. Il Che fa domande; vuol sapere. L'incanto per Fidel comincia a San Josè».
In Guatemala cerco la casa dove Guevara ha vissuto con Hilda Galea, economista peruviana, rifugiata politica: lavora per un ente dello stato, dipartimento per la produzione agraria. Insomma, ha uno stipendio. «Non bella, ma intrigante», ricorda Rojo con un velo di malinconia. Mescolava sangue indio a sangue cinese. Piccola, grassa eppure interessante. Rojo non ha problemi di soldi: «Ogni rifugiato politico era ospite dello stato. Ed avevo tanti amici». Viene meno alla promessa fatta al Che e prova a mescolarsi a chi governa il paese. «A poco a poco anche Ernesto cambia. La rivoluzione di Arbenz gli piace. Ha fatto arrabbiare gli Stati Uniti e gli sembra un miracolo. È sbalordito dalla libertà di stampa. I giornali scrivono tutto di tutti, senza censura». Il legame con Hilda comincia con la politica. Parlano per ore. «Ernesto non tace ma anche Hilda non scherza. Il suo marxismo di trincea lo conquista». Come tutti ha battezzato Ernesto el Che. Ogni argentino diventava Che nelle anticamere, nei discorsi, nelle polemiche dei caffè. La ripetizione ossessiva di quel «cioè». Rojo gli presenta Hilda in un caffè frequentato da esuli peruviani. Qualche tempo dopo è il primo a sapere che stanno per sposarsi.
Ho trovato la loro casa tra il palazzo del Congresso e la scuola abbandonata che la vice presidente del parlamento, Rosalina Tuyuc, ha trasformato nella sede del piccolo partito indigeno che le si stringe attorno. Il suo aspetto e la sua vita somigliano all'aspetto e alla vita di Rigoberta Menchu. Soffice, l'occhio strabico dei maya. Quand’era buio arrivava stanchissima in sale dove giocavano turbe di bambini: le aveva trasformate in un asilo per i figli delle indigene che vendono fiori agli angoli delle strade. Una sera, uscendo dal portone, alza la mano verso una casa che perde i pezzi: «Guarda lì, abitava il Che».
(1-continua )