sabato 4 agosto 2007

Il Sole 24 ore 4.8.07
Marco Bellocchio: dagli strali del Pci al figlio di Mussolini
di Boris Sollazzo

Locarno - Marco Bellocchio, nonostante i capelli bianchi e quattro decenni di cinema sulle spalle, col tempo sembra ringiovanire. Ha imparato a sorridere, il talento quasi rabbioso è diventato più dolce, anche se non meno penetrante. Lo incontriamo a Locarno, dove in occasione della 60ima edizione, si è deciso di celebrare i grandi maestri scoperti dal festival: il regista piacentino qui portò lo splendido I pugni in tasca, esordio straordinario e dirompente di cui qui in Svizzera intuirono subito la grandezza. Nella retrospettiva Retour a Locarno è in ottima compagnia: Claude Chabrol, Marco Tullio Giordana, Mike Leigh, Istvan Szabo, Paulo Rocha, Diego Lerman, Catherine Breillat. Con il candore di sempre è sorpreso del tributo, come del successo inalterato del film all'ultima proiezione, e si lascia andare a riflessioni su passato, presente e futuro.
Marco, I pugni in tasca la riporta a ricordi importanti
Mi ricordo l'impatto socio-politico del film, da allora mi resi conto del ruolo anche pubblico del regista. Di me e del film si dibatteva e si discuteva, cosa che non avrei mai immaginato potesse accadere. Ricordo come mi contrastarono i togliattiani e il Pci, legati a un cinema viscontiano e neorealista e come, invece, Paietta fu dalla mia parte. Al festival di Mosca negarono la visione de I pugni in tasca al pubblico perché, mi dissero, "patologico", contrario all'uomo sano, all'uomo nuovo sovietico. L'unico aiuto dall'Est provenne… per la colonna sonora di Nel nome del padre. Presi una registrazione russa, perché allora i diritti per l'estero non si pagavano. Per quanto riguarda la critica cinematografica Rondi, coerentemente, mi attaccò duramente, ma mi sembra di ricordare che non ci fu grande attenzione. Ricordo Grazzini, però, che scrisse di me "Zanne di barbara forza". Un bel complimento, stupito come molte altre reazioni
Avrebbe senso ora un film come questo?
Mi stupisce che i ventenni, da Parigi a Firenze, ancora ora mi danno risposte di grande coinvolgimento emotivo, come se questo tema fosse rimasto della stessa attualità, ma non posso essere io a dirlo. Certo, sarei un pazzo suicida se lo rifacessi, la vita cambia: i miei pugni in tasca ora sono Il sorriso di mia madre, L'ora di religione, che, se vogliamo, ne è l'evoluzione. In parte lo fu anche Salto nel vuoto. Ricordo lo stupore per l'astrattezza del film, che molto colpì Lino Miccichè: la violenza non era esibita, in un contesto anche improbabile come la mia Bobbio. Era la forza del contenuto che superava il sociologicamente sballato: un film all'americana, con indagini sul delitto, il commissario e il colpevole, forse non sarebbe stato altrettanto interessante.
Pensa che ora in Italia non ci sia la stessa forza e vivacità?
Dipende. Chi consideriamo giovani? Muccino, Sorrentino? Ma loro ormai viaggiano verso i quaranta, sono già dei "classici". Mi diceva Enrico Magrelli (critico e selezionatore della Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia), piuttosto, che sono arrivati in laguna ben 40 film italiani girati in casa, in digitale. E' qualcosa di incredibile: io stesso che feci un film prendendo 20 milioni di mutuo dalla banca - fu il migliore, forse l'unico affare della mia vita - non potevo evitare un certo apparato. Ora ci sono molte più possibilità, c'è maggiore libertà. Il nuovo è questo e contagia le varie generazioni: ora un film si può fare con videocamere e pc, nessuno ha più l'alibi di non avere i soldi o le possibilità, anche se l'industria cinematografica non è cambiato molto. Pensa anche a questo festival: c'è quasi più materiale in beta che in pellicola.
E i Centoautori cosa vogliono fare in questo senso?
Cercare una crescita del cinema, un ritorno della cultura tutta al centro del dibattito politico. Non parliamo solo di un modello francese, che a parlare con molti autori transalpini non sembra così perfetto. Parliamo di risolvere i molti problemi che abbiamo, ad esempio una migliore distribuzione delle ricchezze. C'è un partito del nord, non leghista, che lamenta che il cinema italiano sia romano-centrico. Marina Spada, milanese, per esempio, ha fatto un bellissimo, Come l'ombra, con soli 30.000 euro. Le idee non mancano, piuttosto le risorse e la loro gestione. Mentale e finanziaria.
Ora si cimenterà con la figura di Mussolini
Esatto, e sembra che troverò le risorse. Molti dicono che ci sono poche "star" che attirano il nostro cinema: Mussolini, Berlusconi, Garibaldi e pochi altri. Non è facile, a partire dalla ricerca di location ormai scomparse. E' la storia di Benito Albino, figlio di Benito Mussolini e Ida Dalser, presunta moglie ripudiata dopo l'arrivo al potere di lui. Una storia d'amore drammatica, terribile, che finirà con figlio e madre internati in manicomio. Sto cercando gli attori, dovranno avere una personalità fortissima, non sarà facile. Spero di cominciare nel 2008 e si chiamerà Vincere. Titolo ironico e irridente ma anche inno alla passione suicida di questa donna che ha lottato per la sua verità senza mai alcun compromessa. Una donna finita male senza mai essere sconfitta. Dopo questo grande progetto tornerò a un cinema più indipendente, piccolo. Penso a Bergman: grandi capolavori con pochissime risorse, è una lezione preziosa.

l’Unità 4.8.07
Migliore: «Vogliamo contare di più»
Il capogruppo di Rc: giusto andare in piazza. L’agenda politica Prodi la deve concordare con noi...
di Maria Zegarelli

Di piazza e di governo. Le valigie sono pronte per le vacanze al mare con i figli. Una breve pausa dalla politica in vista di un rientro «caldissimo», dal patto sul welfare alla «Cosa rossa» in costruzione. Gennaro Migliore, capogruppo di Rc alla Camera,
ha letto la lettera del premier ma resta sulle sue posizioni: giusta la manifestazione del 20 ottobre. Anzi, Rc, come partito, sarà in piazza.
Migliore, illustri esponenti della sinistra invitano in piazza il 20 ottobre. Ci andrà?
«È il lancio di un’iniziativa che si propone come una vera e propria piattaforma, anche nelle persone che la promuovono, che è molto legata ai sette punti elencati nell’appello. Ci sono esponenti storici della sinistra, i promotori del Pride, le femministe...».
Ma non tutti partiti della sinistra cosiddetta radicale. O no?
«Credo che ci saranno sicuramente adesioni collettive».
Rifondazione per esempio?
«Certo. Ci aspettano due mesi e mezzo di lavoro impegnativo nel quale deve crescere la mobilitazione che in un certo senso è anche una costituente. Parlo di un modo nuovo di venire ad un appuntamento della sinistra, e non di un solo partito, che cresce e che poi coinvolgerà anche i partiti».
Fabio Mussi osserva che l’etica della responsabilità non può significare far parte di un governo e fare appello al popolo perché manifesti contro. Osservazione ragionevole?
«Questa è una manifestazione nella quale chiederemo che pesi di più l’opinione di coloro i quali hanno costituito parte essenziale del popolo dell’Unione, l’unione materiale. Avendo una piattaforma articolata ci proponiamo di intervenire sulla costruzione dell’agenda politica, questo è assolutamente necessario. Non vedo dove sia il problema dell’etica della responsabilità. La nostra responsabilità è di tenere conto di coloro i quali rappresentiamo. Ne discuteremo con Mussi, ma penso che sia un appuntamento al quale nessun uomo e nessuna donna di sinistra si chiamerà fuori. Non è una manifestazione tra le altre, è l’appuntamento centrale dell’autunno».
La domanda è d’obbligo. Sarà una manifestazione «pro» o «contro»?
«Sicuramente è «pro» una politica rispettosa degli impegni del programma, ma è evidente che si collega anche ad alcuni elementi di insoddisfazione che sono stati fin qui generati: noi abbiamo una piattaforma in campo all’indomani di una forte delusione sul protocollo sul Welfare. È evidente che dobbiamo far sentire la voce affinché sia possibile cambiarlo in Parlamento».
Dietro questa iniziativa non c’è il timore di una perdita di visibilità in vista del Pd?
«È un'iniziativa che in forme diverse parla direttamente al nostro elettorato, così come fanno le primarie. Potrei girare le domanda: le primarie sono pro - o contro il governo? Molti dicono che gli elementi generati all’indomani delle primarie metteranno in difficoltà il governo».
Che cosa ha pensato leggendo la lettera di Prodi?
«La prima cosa che ho pensato quando ho letto quella lettera è stata: “Ma chi gli avrà detto dell’appello a scendere in piazza?”».
Anche lei come i direttori di Liberazione e Manifesto ha visto un collegamento tra le due cose?
«Diciamo che quello che è accaduto nel corso di queste settimane ha comportato la necessità di prendere delle decisioni da parte di Prodi, compresa quella di riaprire una interlocuzione con la stessa maggioranza. Ora si tratta di capire se questa interlocuzione porterà dei risultati: se non dovesse essere così, si ribadiranno e semmai peggioreranno le condizioni precedenti. In questa fase, sinceramente, mi sembra fuori luogo il richiamo a sostenere il governo. Noi lo abbiamo sempre sostenuto, semmai è una parte consistente di questo governo che ha scelto di non aprire una interlocuzione con la sinistra ».
Battaglia in parlamento?
«Senza dubbio, a partire dallo scalone. Ci vogliono risorse per abbatterlo davvero, si deve far saltare l’obbligo dei 5mila lavoratori usuranti l’anno, e poi sul welfare è necessaria una revisione generale. Il punto non è principalmente quello delle risorse, si tratta di affrontare la questione della precarietà in maniera seria. Ciò che manca è una revisione della filosofia della legge 30. Non basta l’eliminazione dello staff leasing che riguarda 200 lavoratori in tutta Italia. C’è bisogno di rimettere in discussione il contratto di collaborazione a progetto, di rivedere le causali oggettive per il lavoro a tempo determinato, i fondamenti stessi della precarietà».
Da quello che dice non sembra pensarla come il premier a proposito delle misure “popolari” adottate in questi 14 mesi...
«Che sia prevalente il segno popolare nelle misure adottate fin qui mi sembra un po’ azzardato, visto il calo di consensi del governo. Se non diamo risposte adeguate molte persone potrebbero sentirsi tradite».

l’Unità 4.7.07
Manifestazione, Mussi frena. Diliberto ci sarà, Prc anche
Russo Spena: ma non è contro il governo, è contro una parte dell’Unione. I verdi parlano di Young Day

Chi ci sarà. Un appello a scendere in piazza il 20 ottobre perché «l’attuale governo non ancora ha dato risposte ai problemi fondamentali che abbiamo davan-
ti». A lanciarlo sono un gruppo di esponenti della sinistra, intellettuali, giornalisti, dalle colonne di Liberazione e Manifesto di ieri, sottoscritto dai due direttori Piero Sansonetti e Gabriele Polo e destinato a creare nuove e lunghe discussioni dentro l’Unione. Sette «le grandi questioni» poste sul tavolo di piazza, lavoro (salari), pensioni, welfare, discriminazioni, cittadinanza, pace, ambiente. Tra i firmatari Lisa Clark, Pietro Ingrao, Aurelio Mancuso, Rossana Rossanda, Nicola Tranfaglia. L’iniziativa è nata, per dirla con Gennaro Migliore, «dalla base», ma ha subito raccolto l’adesione di Rc e Pdci, mentre Sd è pronta a discutere. «Sd - dice il ministro Fabio Mussi - pronta a discutere di contenuti, forme e luoghi» della manifestazione. «Quella che mi interessa - aggiunge - è una chiara iniziativa politico-programmatica di tutte le forze di sinistra. L'etica della responsabilità poi recita: non puoi far parte di un governo e fare appello al popolo perchè manifesti contro».
Pro o contro Prodi? È riscattato il tormentone. «La manifestazione del 20 ottobre non è contro il governo Prodi - puntualizza Giovanni Russo Spena, presidente dei senatori del Prc-. Casomai prende di mira chi, dentro la maggioranza, cerca di spostare a destra l'azione di governo e pone ostacoli alla realizzazione del programma». Il segretario del partito, Franco Giordano, in una lettera ai due quotidiani spiega che «sì, bisogna provarci. Provare ancora una volta a cambiare. uniti nel restituire protagonismo a una sinistra capace di proporsi come soggetto di partecipazione e progetto di liberazione». «Il 20 ottobre ci sarò, ci saremo, saremo in piazza, insieme per continuare il processo di unità a sinistra e per rilanciare i temi dell’appello», scrive il segretario del Pdci Diliberto. «Al nostro governo chiedo il rispetto del programma, a cominciare dalle questioni per noi fondamentali: pensioni e lavoro precario sulle quali le risposte finora sono state insoddisfacenti». Dal tavolo dei ministri Pecoraro Scanio, che propone lo «Young Day» osserva: «È una lettera dialogante quella di Prodi, che riconosce anche la necessità che ci sia una partecipazione dei cittadini». Paolo Cento parla di una iniziativa che sappia «parlare a tutti».
Il ministro della Solidarietà Paolo Ferrero, esprime «apprezzamento» per Prodi, che ha ritenuto positiva la mobilitazione e quindi sarà in piazza. Cesare Damiano, lasciando l’ultimo cdm prima delle vacanze dice che il «protocollo sul Welfare non si può cambiare senza l’accordo con le parti sociali», dunque lui mantiene la rotta. Per Franco Turigliatto e Salvatore Cannavò «mobilitarsi per delle istanze civili e sociali è sempre giusto, ma se questo si riduce a tirare la giacchetta al governo allora diventa inutile». Meglio «la strada dell'opposizione sociale: facendo lo sciopero contro il governo e mobilitandosi per esigere il ritiro del pacchetto welfare». Loro, a partire da settembre, come Sinistra critica, si impegneranno per questo. m.ze.

Repubblica 4.8.07
Anniversari / Trent'anni fa moriva il filosofo tedesco Ernst Bloch
Il soffio dell’utopia
Credeva in un comunismo che oggi chiameremmo "dal volto umano"
di Antonio Gnoli

Quando nel 1949, dopo il lungo esilio americano, Ernst Bloch tornò nella Germania dell´Est, non immaginava che quel paese, costruito sui ferrei principi del socialismo reale, lo avrebbe prima accolto come il figlio intellettualmente prediletto e poi sepolto come il più indegno tra i suoi cittadini. Ma quella era la Ddr e le vite - come recita il film rivelazione di quest´anno - erano sempre quelle degli altri. Naturalmente messe a repentaglio, oltraggiate e vilipese. La vita di Bloch - di cui ricorrono i trent´anni dalla morte (morì a Tubinga il 4 agosto del 1977) fu tra le storie culturali possibili la più emblematica per grandezza e illusione, acume filosofico e miopia politica, complessità intellettuale e semplicismo ideologico.
La folta capigliatura, le spesse lenti degli occhiali, il volto arguto e massiccio e l´immancabile pipa facevano di lui un affascinante e serafico pensatore tedesco della prima metà del Novecento. Era, anche fisicamente, il contrario dell´ungherese Lukács che, proprio Bloch, descrisse come piccolo, esile, non bello, ma attraente per le sue capacità intellettuali. I due furono molto amici. A cementare il legame c´erano le opere di Marx, i seminari berlinesi con Georg Simmel e Max Weber; c´era il bisogno del cambiamento; c´era la rivoluzione d´Ottobre e c´erano i consigli operai che in Germania avevano aperto prospettive politiche reputate decisive per la rivoluzione in Occidente. C´era quell´eccitazione intellettuale che - tra gli anni Venti e Trenta - avvolse le menti migliori mentre guardavano ipnotizzate l´abisso che le macchine totalitarie cominciavano a scavare.
Del marxismo Bloch adottò la versione addolcita dalla speranza, riscaldata dagli ideali umanitari, resa molle dagli innesti con il cristianesimo di cui apprezzava il messaggio di pace e di giustizia in esso contenuti. Al realismo - nella doppia versione di percezione e spiegazione dei fatti senza le distorsioni prodotte dai sentimenti e come brutale e intrepida adesione alle forze della storia - preferiva l´impalpabile soffio dell´utopia. Come poteva intendersi con Lukács? La loro amicizia si ruppe e per anni si detestarono. Salvo ricomporsi verso la fine quando si rividero. Fu l´ironia tragica della storia a rimetterli per un momento insieme. A fargli vivere il pathos comune della sconfitta. C´era stata la rivolta ungherese nel 1956. Nagy era andato al potere e Lukács era diventato il suo ministro della cultura. Poi le cose si rovesciarono nuovamente. Nagy fu arrestato e assassinato e Lukács subì le conseguenze della repressione sovietica: a Budapest gli toccò ritirarsi a vita privata. Sembrava Bloch ma senza un cuore. Solo più impettito e molto più disincantato.
Bloch era il pensatore della speranza, l´acceso sostenitore delle avanguardie artistiche, era l´uomo che credeva nel comunismo dal volto umano. Non so se abbia mai formulato una espressione del genere, così promettente e azzardata: ma larga parte della sua opera impegnata andava fiduciosa in quella direzione. Lukács era un commissario della teoria marxista, un guardiano acuto ma intransigente delle arti e della letteratura; Bloch incarnava l´eterodosso. Era giunto alla conclusione che l´ateismo si potesse interpretare come una sorta di cristianesimo realizzato in terra. Bloch non aveva del tutto rinunciato alle lusinghe del messianismo. Le sue origini ebraiche lo spinsero a prendere in seria considerazione i testi sacri, e a vedere nel futuro una dimensione anche teologica, carica di attesa, salvifica e al tempo stesso liberatoria per l´uomo.
Le sue teorie mostravano qualche debole punto di contatto con quelle di Walter Benjamin. Si erano conosciuti in Svizzera nel 1918 e poi si rividero a Berlino negli anni Venti. Facevano entrambi parte di un gruppo niente male: c´erano anche Theodor Adorno, Siegfried Kracauer, Kurt Weill, Otto Klemperer.
Bloch aveva pubblicato Spirito dell´utopia nel 1918: un´opera ambiziosa, importante, posta esattamente agli antipodi di quell´altra grande impresa che quasi in contemporanea vide la luce: Il Tramonto dell´Occidente di Oswald Spengler. Quest´ultimo aveva messo una bella pietra al collo della civiltà europea, gettandola poi nel grande mare delle fatalità della storia, dei suoi cicli, delle sue ineluttabilità. Lo spirito dell´utopia era invece un´opera velata dall´ottimismo, che non si limitava ad assistere - come faceva Spengler - all´Occidente che affogava, ma gli tendeva la mano, gli indicava la direzione, gli toglieva quella smania di tramonto e di crisi che molti intellettuali in quegli anni usciti dalla guerra gli attribuivano.
Quando, anni dopo, Adorno e Bloch si misero a discutere di utopia, lo fecero come due vecchi amici rispettosi del loro passato, ma ostinati a conservare le loro posizioni. In quella specie di ferreo minuetto si vide con chiarezza che Bloch voleva togliere tutto il discredito di cui la parola "Utopia" si era caricata col tempo. Mentre Adorno - il tenue e scintillante Theodor Wiesengrund - aveva ancora la mente rivolta alla ferocia che il "paese dei sogni" a volte mette in moto. La storia si era incaricata di smentire abbastanza nettamente certe intuizioni blochiane. Parlare di utopia legandola a quell´illusione, chissà quanto necessaria, che ci proietta fuori dal nostro contesto e ci fa vivere il futuro come fosse un presente da realizzare, era una magra consolazione per chi, negli anni del soggiorno a Lipsia, stava assistendo alla demolizione sistematica dei propri ideali utopici. Ernst restò a Lipsia per dodici anni. Passava il tempo immerso nei pensieri filosofici, nelle fantasie del riscatto umano. Ma in fondo cercava solo di scacciare la paura e il dubbio che si facevano sempre più acuti, sempre più invadenti.
Fu lo stesso Adorno, nel dialogo menzionato, che con improvvisa ironia gli disse: «Credo di ricordarmi dei tuoi conflitti ai tempi di Lipsia e del fatto che Ulbricht ha sostenuto contro di te che tale utopia non si può realizzare». Ulbricht era il segretario del Partito Comunista della Ddr, nonché il Capo dello Stato. Era un dio losco sceso in terra per spadroneggiare. Ma nella mente di Bloch, Ulbricht era l´errore ancora rimediabile; era il tiranno che come una carta dei tarocchi Bloch si illudeva di poter scartare. Era l´effetto perverso e imprevedibile di una causa, quella del socialismo, considerata ancora giusta e buona. Adorno, credo, sghignazzasse in cuor suo. L´amico Ernst sperava. Sperava che le cose mutassero di segno. Ma le cose erano più dure e vischiose dell´illusione. Più pesanti e rozze delle levità dello spirito di un intellettuale costretto nuovamente all´esilio. Non più amato dal regime.
Fu nel 1961 - dopo anni di controlli, di soprusi, di spiate che il regime della Ddr gli aveva inflitto - che Bloch emigrò nella Germania occidentale. Fino all´ultimo aveva voluto restare nel suo paese. Fino all´ultimo era convinto che alla fine la giustizia avrebbe trionfato. Ci volevano gli arresti dei suoi allievi più fedeli, ci voleva il suicidio di uno di loro, ci voleva la cacciata dall´università, ci voleva la repressione verso la moglie Karola e il figlio Ian, ci voleva che lo privassero della libertà di pensiero, ci voleva che i suoi colleghi universitari lo attaccassero in pubblico, ci voleva che lo minacciassero di richiuderlo in qualche galera (ma la cosa avrebbe provocato troppo clamore) perché l´inerme signore dell´utopia cominciasse a riflettere su certe penose e incontrastate durezze della storia. Ci voleva tutto questo per tirare fuori il coraggio e prendere la decisione di abbandonare tutto quello in cui aveva creduto. Ma, ostinato com´era, non perse mai la speranza, che ormai era diventata il principio della delusione e del dubbio.
Certo, nessuno potrà rimproverare a questo intellettuale l´assenza di finezza, e la profondità di alcune analisi. Il libro più bello cominciò a scriverlo nel periodo americano. E anni dopo, ormai tornato in Europa, quel libro prese la forma definitiva de Il principio speranza. È un testo nel quale si sedimentavano molte cose. Si vedeva con chiarezza che la sua concezione della speranza non era da intendere solo come lo slancio verso un mondo migliore, ma anche verso tutto ciò che di bello e straordinario l´uomo era stato capace di realizzare. Inoltre, la speranza non la legava solo a ciò che consideriamo sublime o straordinario, ma la connetteva ai nostri desideri quotidiani. Bloch ha sempre avuto una sincera curiosità per il mondo quotidiano. Diversamente da Heidegger, che ne disprezzava la sostanza, egli ne intuiva la potenzialità, la ricchezza basica, l´energia. In questo c´era qualcosa che lo accomunava a Benjamin. Fu Karola Bloch che, nel ricordare il loro legame, scrisse nelle sue Memorie: che tra loro c´era stato un rapporto intellettuale molto intenso, «li accomunava l´amore per le cose apparentemente insignificanti dietro alle quali si cela qualcosa di profondo».

Repubblica 4.8.07
Un curioso saggio sui funerali rossi negli anni cinquanta
Così morivano i vecchi compagni
Nell'Italia spaccata dalla guerra fredda i parroci rifiutavano le esequie dei "senza Dio"
di Filippo Caccarelli

«Quanti morti per il vecchio simbolo...», sospirava avvilito al congresso di scioglimento del Pci (Rimini, febbraio 1991) il compagno Zucconelli, un omino calvo e gentile, addetto al Cerimoniale della Direzione. Nei corridoi delle Botteghe Oscure, dov´era primatista di permanenza (32 anni), lo chiamavano «Dall´Alfa all´Omega» perché organizzava i rinfreschi, ma anche le onoranze funebri. Personaggio chiave, come si comprende, insieme rispettato ed esorcizzato per quel suo inevitabile maneggiare catafalchi, drappi, tombe e bare: «Ohé - gli dicevano i compagni quando se lo trovavano davanti - non è che mi stai a prendere le misure?».
Chissà dov´è ora, il compagno Roberto Zucconelli. Certo i partiti della diaspora comunista non l´hanno sostituito. In compenso, nel 2004, il Messaggero ha scovato un´altra singolare figura. Da anni Erminia Gianfelice tiene in ordine il sepolcro di Gramsci al cimitero acattolico della Piramide Cestia e il mausoleo comunista del Campo Verano, dove con Togliatti e la Iotti, sono sepolti Di Vittorio, Grieco, Scoccimarro, Concetto Marchesi, Alicata e diversi altri. Qui Erminia sistema le urne, toglie i fiori appassiti, raccoglie e conserva come reliquie i bigliettini, le foto, i fazzoletti rossi, le vecchie tessere di partito che i visitatori depongono sulla pietra. Si definisce scherzosamente «la tombarola rossa» e lo fa per tenera militanza o, se si preferisce, come volontaria: «I compagni lo sanno e quando possono mi danno qualche soldo per comprare i fiori o qualche piantina nuova».
Questo per i ricordi e per la cronaca. Mentre per la storia, ma anche la cultura e l´antropologia della «morte rossa» la rivista di Studi Tanatologici (Bruno Mondadori) pubblica un saggio di Alessandro Casellato su «Riti di opposizione, riti di istituzione. Funerali di comunisti nell´Italia degli anni Cinquanta». Si tratta di un testo prezioso fin dalla personale esperienza che l´ha ispirato: «Tutto questo mio percorso, in fin dei conti, è partito da un´incertezza - si legge nell´ultima nota - quando è morto un mio caro amico, quasi un nonno acquisito, un vecchio comunista, ho dovuto inventarmi un funerale, non essendoci più un partito in grado di gestirlo; mi accorsi allora che mancavano un rituale e un luogo dove celebrarlo, e che facevo anche fatica a trovare delle parole per raccontare in pubblico la sua vita, le ragioni delle sue scelte e i motivi per cui, a lui e alla sua storia, nonostante tutto volevo bene». Ecco. Si accetta meglio, l´odierna incertezza, attraverso i miti e i simboli del passato. Nulla più dei rituali getta un fascio di luce sul nucleo duro e indicibile entro cui è stato a lungo custodito il senso del sacro nella Chiesa comunista italiana.
Erano davvero tempi duri. Tanto per cominciare, nell´Italia spaccata dalla guerra fredda non era affatto chiaro a chi - famiglia, partito o Chiesa - appartenesse la titolarità, per così dire, della salma. Non di rado, per via della scomunica, i parroci rifiutavano di ospitare in chiesa le esequie dei «senza Dio». A Cerignola le suore richiamarono addirittura indietro le orfanelle impegnate nel tradizionale accompagnamento al feretro. D´altra parte i prefetti stavano ben attenti a che i funerali, vissuti anche come manifestazioni di forza, non generassero problemi di ordine pubblico.
Vero è che fin da allora la contesa si risolveva con una specie di compromesso: la bara entrava in Chiesa e le bandiere rosse attendevano fuori. Ma diversi compagni scartavano in vita tale soluzione: «Muoio nella fede comunista...», scrivevano. Erano veri e propri testamenti, d´intenso valore, quasi un genere letterario. Così come le cerimonie che il Pci si trovò ad allestire nelle zone rosse per accompagnare i suoi morti al camposanto erano al tempo stesso simili, speculari e alternative a quelle della Chiesa.
Lo storico Casellato le ricostruisce con dovizia di particolari. Il panno rosso sulla cassa, e dentro la bara la tessera e una copia dell´Unità. Partiva il corteo, con la banda, e sostava davanti alla Casa del popolo. Si distribuivano i «santini» con la foto del defunto e la falce e martello. Quindi arrivava il momento dell´orazione, il racconto edificante delle virtù del compagno, la cui opera continuava «in eterno». La sua esistenza era così tramandata come destino. Di fronte al morto, i superstiti rinnovavano il patto stringendosi nel dolore, ma recuperavano anche un ordine e confermavano una identità. A parte le donne senza veli sul capo, tutto assumeva un senso religioso, escatologico. Questa dimensione ultima si riverberava anche nella forza. Dopo la strage di Modena, nel 1950, gli estremi onori resi ai sei manifestanti uccisi dalla Polizia chiamarono in città, oltre a Togliatti e all´intera nomenklatura, 300 mila persone in silenzio solenne e furono ripresi dalle telecamere per un filmato poi distribuito nelle federazioni di tutta Italia.
Rituali anche più complessi e densi di messaggi, «tra pietà e potere», si configuravano i funerali dei dirigenti nazionali. Nel caso di Ruggero Grieco, scomparso nel 1955, il protocollo fu stabilito in modo quasi ossessivo fin dalla camera ardente. Lacrime, ma anche elenchi e schedari a governare le esequie. Picchetti d´onore decisi per categorie omogenee, turni disciplinati al millimetro, orari inflessibili; quindi un articolatissimo dispiego di cuscini, corone, mazzi di fiori, bandiere rosse, tricolori, targhe recate dalle varie associazioni collaterali. Nel corteo, aperto da un carro tirato da due cavalli (poi sostituiti da un furgone), i parenti anche stretti vennero compresi entro la «famiglia allargata» del Pci. L´ordine di prossimità alla bara fu così rigidamente prestabilito da suscitare una pungente notazione di Pietro Secchia: «C´è chi ha preteso di avere la precedenza in base ai diritti del grado e della scala gerarchica. Inevitabili confusioni di questi momenti - si legge nei diari usciti postumi - piccinerie e meschinità degni di una confraternita di gesuiti».
Raffigurati in un celebre quadro di Renato Guttuso, i funerali di Togliatti, celebrati nel 1964, furono probabilmente la più grande manifestazione del genere nella storia d´Italia. Ma il saggio di Casellato ricorda soprattutto la spinosissima questione che si pose riguardo alla sepoltura del Migliore. L´idea era infatti quella di accoglierlo accanto alle ceneri di Gramsci, al cimitero inglese della Piramide. Ma l´ambasciatore americano, che ne era a tutti gli effetti il responsabile amministrativo, si rifiutò strenuamente. Invano intervennero Moro, Saragat, nonché i diplomatici russi, bulgari, rumeni e iugoslavi. Non ci fu nulla da fare e Togliatti finì all´ombra dei radi cipressi del Verano. Affidato, fino a ieri l´altro, alla professionale dedizione del compagno Zucconelli; e ora anche alle premurose cure di Erminia, l´ultima vestale della ex religione rossa.

Repubblica 4.8.07
Se usiamo la macchina del tempo
La genetica si sposa con l'archeologia
di Luca e Francesco Cavalli-Sforza

Nel ricostruire la storia si incontra una grave difficoltà: spesso mancano elementi per decidere sui punti oscuri, e non c´è speranza di fare come lo scienziato sperimentatore, il quale, quando ha un dubbio su un esperimento, può ripeterlo quante volte vuole, e se ottiene lo stesso risultato può sentirsi tranquillo di non essere caduto in qualche errore. Ma non possiamo ripetere la storia, e non esiste (almeno per ora) una macchina del tempo che ci porti indietro e ci permetta di osservare quello che è effettivamente successo, e poi ci riporti al tempo di partenza, per poter raccontare ciò che abbiamo visto.
Se non possiamo viaggiare di persona nel tempo, abbiamo un´altra possibilità di ricostruire la storia: sta nell´indagare le conoscenze acquisite da altre discipline sullo stesso periodo, luogo e personaggi, che abbiano qualche relazione con i fatti che ci interessano. La genetica può dire parecchio sul nostro passato, e in aggiunta possiamo ricavarne informazioni sul tempo in cui si sono verificati certi avvenimenti, per esempio la separazione fra due popolazioni o due specie. Ma anche l´archeologia può essere di aiuto.
Estendendo lo studio della storia a più di una disciplina lo si facilita, e si è inevitabilmente condotti a concludere, come avremo occasione di mostrare, che un approccio multidisciplinare permette di realizzare una sorta di "ripetizione della storia". È un po´ come se si ripetesse l´esperimento, come fa lo sperimentatore per convincersi di avere ottenuto il risultato giusto, perché uno stesso periodo viene considerato da più punti di vista indipendenti. Si giunge così anche allo scopo di ottenere maggiore credibilità nelle proprie conclusioni.
La paleontologia ha ricostruito negli ultimi centocinquant´anni la storia delle nostre origini a partire dalla separazione degli esseri umani dalla specie animale più vicina, lo scimpanzé, che attualmente si pensa sia avvenuta in Africa centrale, nel Ciad odierno, circa cinque-sei milioni di anni fa. Il primo passo fondamentale è stato il passaggio dalla camminata a quattro zampe alla stazione eretta, che ha aumentato la velocità nella corsa e ha liberato gli arti anteriori, permettendo di usare le mani per attività creative, quali l´impiego di strumenti.
Dall´inizio della separazione vi è stato un aumento più o meno graduale delle dimensioni del cervello. A questo si devono probabilmente le due grandi qualità che ci distinguono dalle altre scimmie: la maggiore inventività e lo sviluppo di una comunicazione sempre più ricca, attraverso il linguaggio. Nella nostra specie, il cervello è quadruplicato di dimensione negli ultimi cinque milioni di anni. Anche i Primati odierni hanno un cervello di dimensioni superiori a quelle dell´antenato comune a loro e a noi, ma la differenza non è così marcata. Il lungo e lento cambiamento che ci contraddistingue è stato quindi limitato al genere umano.
Nella nostra specie, detta Homo sapiens, l´aumento di volume del cervello, o almeno del cranio, si è arrestato fra i trecentomila e i cinquecentomila anni fa, mentre è proseguito in modo lieve fra i nostri cugini più prossimi: i Neandertal. Li troviamo diffusi in Europa e nelle parti d´Asia più prossime all´incirca fra i 350.000 e i 30.000 anni fa, dopo di che scomparvero quasi all´improvviso. Per parecchio tempo gli archeologi li hanno visti come gli antenati diretti degli europei, semplicemente perché vivevano negli stessi luoghi che abitiamo oggi, poi un´analisi più accurata, condotta in parallelo da archeologi e genetisti, ha rivelato che gli antenati degli europei vivevano fuori del continente e che vi giunsero poco prima della scomparsa dei Neandertal.
Chiamiamo questi nostri diretti antenati, e noi stessi, uomini anatomicamente moderni (o semplicemente moderni), in quanto siamo indistinguibili sul piano scheletrico. I reperti archeologici mostrano che i primi uomini di questo tipo sono comparsi in Africa orientale intorno ai 150.000 anni fa. Nella classificazione scientifica, che discende dalla tassonomia proposta da Linneo alla fine del Settecento, il nostro nome è: Homo (genere) sapiens (specie) sapiens (sottospecie). I nostri cugini neandertaliani sono invece designati come Homo sapiens neanderthalensis. Molti oggi omettono la parola sapiens, cioè considerano Neandertal una specie diversa.
Riprendendo dall´inizio la storia del genere Homo, il suo primo rappresentante (specie detta habilis) compare, sempre in Africa orientale, intorno ai 2,7 milioni di anni fa: ha già un cervello almeno doppio di quello degli altri Primati e ha avuto molto tempo a disposizione per usare le mani. Forse i primi attrezzi che ha elaborato sono di legno e non si sono conservati, ma in quest´epoca si ha la prova sicura dell´impiego di strumenti, perché si trovano le prime pietre sbozzate, usate forse per aprire le ossa degli animali uccisi o trovati morti ed estrarne il midollo, già allora molto appetito.
In tappe posteriori dell´evoluzione, i nostri antenati diretti, che oggi alcuni chiamano Homo erectus, altri ergaster, fabbricano strumenti litici più raffinati e differenziati. Intorno a 1,7 milioni di anni fa ha inizio un´espansione demografica, seguita da un´espansione geografica, come è inevitabile che accada quando si cresce troppo di numero e si superano i limiti di saturazione locali. L´espansione demografica e quella geografica procedono fino ad occupare il Vecchio Mondo (Africa, Europa, Asia), arrestandosi solo agli oceani. Con ogni probabilità la conquista del fuoco era già avvenuta (il primo reperto archeologico è di 1,6 milioni di anni fa) e aveva contribuito a occupare regioni più fredde, a migliorare la qualità e l´igiene dell´alimentazione con la cottura del cibo, ad assicurare la protezione dalle fiere di notte e a produrre strumenti migliori.
La seconda grande espansione ha inizio molto più tardi. È di nuovo in scena l´Africa orientale, ma questa volta il protagonista è Homo sapiens sapiens, uno fra i più tipi umani che si sono andati sviluppando nel continente. Questa piccola popolazione si espande all´Africa negli ultimi centomila anni, e fra i 60.000 e i 50.000 anni fa comincia a diffondersi nel resto del mondo. In parte si muove verso est, lungo la costa meridionale dell´Asia, giungendo fino in Nuova Guinea e Australia almeno 40.000 anni fa. Procedendo in un´altra direzione, verso nord, forse per la valle del Nilo o lungo la costa del mar Rosso, arriva in Medio Oriente (ove già l´uomo moderno si era spinto, per un breve periodo, verso i 100.000 anni fa, per poi ritirarsi all´inizio dell´ultima glaciazione, circa 80.000 anni fa) e penetra fin nel cuore dell´Asia. Dall´Asia centrale si spinge sia verso ovest, raggiungendo l´Europa già 46.000 anni fa, sia verso est. Lo si trova in Siberia 30.000 anni fa. Di qui entra in Alaska, almeno 15.000 anni fa se non prima, e già 11.000 anni fa raggiunge l´estremo sud dell´America meridionale, procedendo lungo la costa pacifica.
Fin qui il racconto dell´archeologia, ma la genetica produce una genealogia ancor più precisa attraverso lo studio di molti geni, compresi quelli di due cromosomi speciali, il DNA mitocondriale e il cromosoma Y, che ci permettono di ricostruire rispettivamente l´albero genealogico femminile e maschile. Le numerose date prodotte dalla genetica si accordano bene con quelle archeologiche, ma hanno una genesi distinta: nascono dal conteggio delle mutazioni che separano individui diversi e dalla conoscenza della velocità con cui le mutazioni si producono (detta frequenza di mutazione).
Sorge naturalmente la domanda: perché questa grande espansione dell´uomo moderno? Un´espansione geografica è di solito dettata da una crescita demografica locale, che costringe a distribuirsi su un terreno più vasto. Le forze che hanno promosso l´incremento demografico e hanno cambiato la nostra sorte sono due, entrambe di natura culturale. Forse la più importante è lo sviluppo del linguaggio, che ha certamente avuto inizio in un lontano passato, ma può avere raggiunto il livello attuale poco prima di centomila anni fa. Il linguaggio permette di scambiarsi informazioni su qualunque argomento ed è quindi di grande aiuto allo sviluppo della società, anche se è accompagnato da una quasi inevitabile ambiguità, che talora ci tradisce. L´altra forza, forse di origine ancora più antica, è quella dell´inventività e della curiosità che hanno caratterizzato lo sviluppo di invenzioni e scoperte umane per alcuni milioni di anni. Non è necessario che siamo tutti inventori, ma basta che ve ne siano alcuni nella popolazione, anche se in piccola percentuale, perché la capacità di imitazione, e ancor più la comunicazione attraverso il linguaggio, possano generalizzare le invenzioni compiute da uno solo.
La produzione di nuove invenzioni è poi aumentata con l´aumento del numero degli inventori, legato all´accrescimento della popolazione dell´uomo moderno, resa possibile prima dalla sua espansione a tutto il mondo, poi da ulteriori invenzioni, come la coltivazione di piante e l´allevamento di animali. Queste sono comparse intorno a diecimila anni fa per sovvenire all´incremento eccessivo della popolazione rispetto alle risorse disponibili in natura, e hanno a loro volta permesso una nuova fortissima crescita demografica. Nate in regioni a clima temperato, particolarmente favorevoli, si sono successivamente diffuse intorno ai punti di origine.
Oggi, nell´era di internet, la velocità di comunicazione è aumentata a dismisura: siamo entrati in una nuova epoca, sul cui sviluppo è difficile fare previsioni.

(6 – continua)

il manifesto 4.8.07
20 ottobre. Noi del Prc in piazza Vi spiego perché
di Franco Giordano

Sì, bisogna provarci. Provare ancora una volta a cambiare. Tutti insieme, ciascuno per quel che è e per come si mette in relazione col resto. Uniti per provare a cambiare davvero il passo e l'indirizzo del governo dell'Unione. Uniti nel restituire protagonismo a una sinistra capace di proporsi come soggetto di partecipazione e progetto di liberazione. Per questo Rifondazione comunista aderisce con convinzione alla proposta di mobilitazione per il prossimo 20 ottobre. Abbiamo sconfitto le destre alle elezioni e non era scontato, basta guardare cosa accade in Europa. Poco più di un anno fa abbiamo sconfitto il tentativo di rimonta berlusconiano grazie a una stagione straordinaria di mobilitazione e di partecipazione democratica; grazie al fatto che ciascuno, ognuno a suo modo, ha trovato in sé e nel rapporto con gli altri le motivazioni e gli argomenti per battere questa destra ultraliberista, populista, perbenista, autoritaria e repressiva.
Ora è venuto il tempo di ritrovare quello spirito, quelle motivazioni, quelle speranze per imprimere uno slancio nuovo ai movimenti e alla sinistra, per provare a cambiare davvero, per rispondere a quelle aspettative che insieme siamo stati capaci di suscitare. Finora non è stato così. Il governo di centrosinistra non ha fatto la sua parte fino in fondo come avrebbe potuto e dovuto. Ne abbiamo avuto la misura concreta negli interventi sulle pensioni, sul welfare, sul mercato del lavoro. Misure che non abbiamo condiviso e che vogliamo cambiare. Questo squilibrio è stato determinato dall'imporsi delle soggettività di Confindustria, delle tecnocrazie internazionali e della rendita finanziaria, che hanno condizionato sistematicamente il programma dell'Unione.
Nelle sue varie anime, il Pd è stato a suo modo permeabile all'influenza di tali soggettività, quindi a un'idea della politica come governo dell'esistente, come interrelazione tra i centri di potere tesa a stabilizzare la realtà e a temperarne - quasi fino a nasconderle - le contraddizioni. Per questo c'è bisogno di una ripresa di protagonismo sociale, quel protagonismo che è stata la vera risorsa alternativa non solo rispetto a Berlusconi ma rispetto alle politiche della destra. In questo senso la manifestazione del 20 ottobre è un'occasione di straordinario rilievo da intendersi prima di tutto come un appello a tutto il popolo dell'Unione. E in questo contesto è decisivo anche il ritorno in campo di una sinistra unitaria che si proponga per cominciare come soggetto partecipato, come luogo e pratica di democrazia. Perché altrimenti non è a rischio solo l'azione del governo, ma il senso stesso della politica e della democrazia, del nostro agire collettivo ciascuno a partire dalla propria condizione sociale e umana.
Ecco. Credo che ci sia bisogno in primo luogo di restituire un senso e anche un'anima alla politica. Credo ci sia bisogno di rispondere a una crisi della politica che si presenta in modo duplice, da un lato come rivoluzione passiva e dall'altro come smarrimento di ogni possibilità di trasformazione sociale. Una politica le cui utopie si inchinino di fronte al pensiero dominante e al processo di valorizzazione del capitale diventa infatti una parola vuota, meccanica della pubblica amministrazione, tecnocrazia e anche omologazione culturale. Per questo credo che dobbiamo guardare alla manifestazione del 20 ottobre in primo luogo come occasione di ritorno partecipato della politica; come luogo e pratica per restituire significato all'agire collettivo e alla democrazia, per restituire soggettività alla sinistra e per rendersi così capaci di intervenire sull'azione di governo. Dunque proviamoci. Tutti insieme, ciascuno a partire da sé. Proviamo a riaccendere la partecipazione, la speranza, la politica nel suo senso più alto di agire culturale, di progetto condiviso, di percorso di liberazione umana e sociale.
* Segretario Prc