venerdì 24 agosto 2007

La Stampa e Repubblica 24.8.07
Sacco e Vanzetti, ferita aperta
di Andrea Camilleri

Il secolo che ci siamo da solo sette anni lasciato alle spalle è stato brillantemente definito da un grande storico inglese «il secolo breve». Ma forse una definizione più esatta sarebbe «il secolo compresso», perché mai in cento anni sono accadute tante guerre mondiali, tante scoperte scientifiche e tecnologiche, tante rivoluzioni, tanti eventi che «hanno sconvolto il mondo», per rubare un titolo a John Reed, tanti fatti epocali che si sono sovrapposti l’uno all’altro quasi togliendoci il respiro. Il secolo trascorso si configura come una valigia troppo piccola per contenere tutto ciò che è accaduto, è troppo stipata da abiti usati, alcuni dei quali ne ostacolano la chiusura facendo sì che non si possa riporre definitivamente in soffitta.

Uno di questi ostacoli è indubbiamente il caso Sacco e Vanzetti. Sono morti, nel secolo passato, centinaia di milioni d’uomini e donne per guerre, epidemie, genocidi, persecuzioni e la loro memoria purtroppo rischia di perdersi anche troppo facilmente. Ma di alcune singole morti, come nel caso di Sacco e Vanzetti o dei fratelli Kennedy o di Rabin e di altri, la memoria è destinata a durare. Forse perché non conta né la posizione sociale né il modo della loro morte (tanto per fare qualche esempio, Sacco era un calzolaio, Vanzetti un pescivendolo, e morirono sulla sedia elettrica, John F. Kennedy era il presidente degli Stati Uniti e morì ucciso a Dallas), quanto piuttosto il «perché» delle loro uccisioni. Si tratta di «perché» che aprono interrogativi ai quali è assai difficile dare una risposta definitiva e valida per tutti coloro che la domanda si pongono.

Nel caso specifico di Sacco e Vanzetti, apparve subito chiaro a moltissimi, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti, che col loro arresto, prima con l’accusa di detenzione di volantini sovversivi e di armi, quindi con quella di duplice omicidio nel corso di una rapina, i tre processi che subirono e la successiva condanna a morte si voleva dare un esempio al di là dell’assoluta mancanza di prove contro i due anarchici e anzi, malgrado la testimonianza a discarico di un partecipante alla rapina che dichiarò di non avere mai visto i due italiani. Si percepì subito che Sacco e Vanzetti erano vittime di un’ondata repressiva che investiva gli Stati Uniti guidati da Wilson e questo fece sì che sorgessero dovunque, in Italia, comitati e organizzazioni contro la condanna. Quando questa venne eseguita, nel 1927, il fascismo in Italia era al potere da quasi cinque anni e stava consolidando brutalmente la dittatura, perseguitando e incarcerando chiunque fosse avverso al regime, anarchici compresi, naturalmente.

Eppure quando i due vennero giustiziati, il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, non esitò a dare la notizia con un titolo su sei colonne e nei sottotitoli, messa in molta evidenza, la frase: «Erano innocenti». Dal 1945 a oggi, a ogni 23 agosto si può dire che non ci sia stato giornale italiano che non abbia dedicato articoli più o meno lunghi alla vicenda. Molto rilievo venne dato, nel 1977, alla notizia che Michael Dukakis, governatore del Massachusetts, aveva ufficialmente riconosciuto gli errori processuali e riabilitata la memoria dei due anarchici.

Ma la storia di Sacco e Vanzetti non è rimasta chiusa nelle pagine dei giornali. In Italia è diventata prima un dramma che conobbe un vasto successo sui palcoscenici e poi, nel 1971, un ottimo film diretto da Giuliano Montaldo, splendidamente interpretato, con la colonna sonora di Ennio Moricone e canzoni su testi di Joan Baez (e larga diffusione aveva avuto anche da noi la Ballads di Woody Guthrie). Recentemente la Rai (la tv di Stato) ha dedicato una lunga e ben fatta trasmissione ai due italiani giustiziati ma non ha mai mandato in onda, chissà perché, The Sacco-Vanzetti Story di Reginald Rose, diretto da Sidney Lumet, che pure ha acquistato da molti anni. Proprio in questi giorni un sito Internet aperto a tutti si è interessato alla vicenda dei due anarchici.

Sorprendente è stata la grande quantità di interlocutori che son voluti intervenire. Trascrivo alcuni pareri. Uno scrive: «Questi poveretti avevano come colpa quella di combattere il razzismo e la xenofobia». E un altro: «Cosa è cambiato? La pena di morte in America sussiste ancora anche per chi a volte è innocente, il razzismo e la xenofobia colpiscono sempre di più...». E un terzo: «Impossibile paragonare quel periodo a questo, ora ci sono errori giudiziari, gravi ma errori, allora si compivano omicidi veri e propri, solo a scopo politico. E anche se esiste ancora fortemente il razzismo, negli States si sono fatti enormi passi avanti».

E infine una conclusione: «Quella fu una brutta storia in un’epoca dura». Già, proprio una gran brutta storia. A sentire questi dialoghi, il dibattito è sempre vivo e aperto. Segno che la ferita ancora non si è rimarginata. E che la valigia non si riesce in nessun modo a chiuderla.

(Questo articolo di Andrea Camilleri è stato pubblicato ieri negli Stati Uniti sul «New York Times»)

l’Unità 24.8.07
«Una perdita indicibile, è stato tra i più alti protagonisti della lotta per la liberazione del lavoro»
La commozione di Ingrao: «È stato un rivoluzionario»
di Giuliano Capecelatro

«È una perdita indicibile». Raggiunto nella sua casa di Lenola dalla notizia della morte di Bruno Trentin, Pietro Ingrao non vorrebbe, sulle prime, dire di più. Li legava un’amicizia antica e profonda, che nessuna divergenza di vedute aveva mai potuto scalfire. Hanno attraversato insieme il secolo breve. Si sono trovati a militare sotto la stessa bandiera in periodi difficili, il dopoguerra, l’autunno caldo, la stagione del terrorismo, le modificazioni radicali del capitalismo, che avevano condotto il leader sindacale a parlare di crisi del taylorismo e tramonto del fordismo. La commozione è forte. Ma la figura dell’amico si impone un’ultima volta.
«Bruno Trentin... è stato tra i più alti protagonisti della lotta per la liberazione del lavoro, vissuta nel Novecento e alla soglia del nuovo secolo».
Sorge spontanea la domanda se si possa parlare, di conseguenza, di una lezione di Trentin? La risposta è affermativa. «Bruno ha evocato e sostenuto il significato rivoluzionario e sconvolgente dell’atto lavorativo nel nuovo secolo, ed è stato alla testa delle grandi battaglie che in Occidente hanno vissuto - nello scontro di classe - milioni di operai non solo in Italia. Mi auguro sia reso alto onore al suo slancio rivoluzionario e all’idea nuova del mondo che ha seminato in Italia e in Europa».
Negli ultimi tempi, spesso si erano trovati su posizioni distanti, contrapposte. E proprio Ingrao - era il 2003 - aveva criticato aspramente la scelta di Trentin, in accordo con altri esponenti del mondo sindacale e politico, di far fallire il referendum sull’articolo 18, che regolava la complessa materia dei licenziamenti. Il referendum in effetti, fallì per il mancato raggiungimento del quorum. Ma la discordanza non offusca il profilo del compagno di tante battaglie.
«Bruno l’ho conosciuto in tempi di lotte aspre e indimenticabili e da lui ho imparato a comprendere e a sostenere il ruolo centrale del lavoro nella vita umana. E non saprò mai come ringraziarlo di questo dono e di tutto ciò che ho imparato dalla sua umanità e dal suo pensiero in anni ed anni di passione comune».
Un leader, Trentin, di altissimo profilo. Della statura di un Di Vittorio, di un Lama. Logico quindi pensare a un suo lascito ideale, a un’eredità spirituale. Ingrao non ha dubbi: «Spero che sapremo tenere alto il suo ricordo e raccontare ai figli e ai nipoti le scoperte umane cruciali che abbiamo appreso dalla sua bocca e dalle sue battaglie. Onore per sempre a lui».