giovedì 23 agosto 2007

l’Unità 23.8.07
«Ipocrisia, male italiano». Firmato, Gramsci
di Nicola Tranfaglia

1937-2007 A settant’anni dalla sua morte restano dei caposaldi alcuni concetti contenuti nei «Quaderni del carcere». E aiutano a comprendere la storia intera del nostro Paese

Se si scorrono le pagine di quel gran libro di storia del mondo moderno che sono i Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, ora che un periodo lungo settant’anni è trascorso dalla sua morte, emergono alcuni concetti che ci aiutano a comprendere elementi centrali della nostra storia. Se dovessi indicarli per rilevanza storica partirei, riferendomi al nostro Paese ma più in generale all’Europa e all’Occidente, dalla rivoluzione passiva, per passare subito dopo al trasformismo, ai processi di restaurazione e di rivoluzione, al ruolo degli intellettuali, ai processi organici e congiunturali, all’analisi del fordismo e dell’americanismo.
Il trasformismo degli uomini e dei gruppi sociali nel nostro Paese ha caratterizzato il volgere delle stagioni in tutti i periodi dell’ultimo secolo e mezzo. Gramsci aveva colto un punto essenziale nel Quaderno 19 (scritto tra il 1932 e il 1935 ma steso in parte negli anni precedenti, e in particolare nel 1930, appena arrivato nel carcere di Turi), quando scriveva, a questo proposito, che «tutta la vita statale italiana dal 1848 in poi è caratterizzata dal trasformismo, cioè dall’elaborazione di una sempre più larga classe dirigente nei quadri fissati dai moderati dopo il 1848 e la caduta delle utopie neoguelfe e federalistiche, con l’assorbimento graduale, ma continuo e ottenuto con metodi diversi nella loro efficacia, degli elementi attivi sorti dai gruppi alleati e anche da quelli avversari e che parevano irreconciliabilmente nemici».
Il nostro presente offre, da questo punto di vista, conferma dell’attualità di queste considerazioni, pur essendo mutati i riferimenti legati, nell’analisi gramsciana, ai comportamenti delle classi sociali nella lotta politica nazionale.
È difficile oggi parlare di una contrapposizione, ottocentesca o novecentesca, tra una borghesia ricca egemonizzata da ceti moderati e masse popolari e proletarie, anche perché l’analisi sociale (pur lacunosa) degli ultimi anni tende, comunque, a dividere la borghesia in strati diversi e separati che politicamente si schierano in un arco di forze politiche egemonizzate, in parte, dal populismo patrimoniale, in parte da una piattaforma conservatrice di tipo tradizionale. Dall’altra parte si collocano prima di tutto forze che hanno accantonato i tradizionali ancoraggi ideologici del comunismo e del socialismo novecenteschi e contrappongono al populismo ricette provvisorie e oscillanti che provengono dalla liberaldemocrazia più meno adeguata ai tempi e da un socialismo riformista nelle sue varie tendenze storiche.
Ma, pur in un orizzonte profondamente diverso, il fenomeno del trasformismo continua a caratterizzare in maniera centrale la vita politica italiana, anche grazie alla crisi assai grave delle istituzioni repubblicane. Ha una funzione essenzialmente difensiva e non propositiva, almeno per ora, la resistenza intransigente esercitata da quelle poche forze politiche e sociali che cercano di sfuggire alla capacità egemonica esercitata nel capitalismo mondializzato dalle borghesie collegate all’azione delle multinazionali, in questo periodo protese all’attacco degli Stati nazionali nell’Occidente in crisi.
2. Le riflessioni di Gramsci sulle contraddizioni insite nel modello fordista americano e nella sua espansione sembrano, per molti aspetti, lontane dalla situazione attuale in Occidente come nel nostro paese. Ma, indagando sulla crisi nazionale, emerge, a mio avviso, la tendenza propria della «rivoluzione passiva» che presiede ai cambiamenti che hanno luogo nel nostro Paese. Cambiamenti che, a livello politico, si qualificano ancora con il termine generico e vago di «transizione» dagli anni Novanta al ventunesimo secolo. E che, a livello economico-sociale, oscillano tra il sogno di un’americanizzazione contraddittoria e quello di una via mediana tra il rinnovamento del modello europeo e l’apertura alla globalizzazione incalzante. Sicché sembra di essere all’esaurimento ancora non avvenuto di una formazione sociale novecentesca e in larga parte fordista e all’apparizione, soltanto accennata, di modelli inediti.
Riemerge il termine del transitorio, con la difficoltà di individuare le forze in grado di operare attivamente la trasformazione, di accettarle e di portarle avanti. Scrive Gramsci nel Quaderno 13 (1932-34): «Si verifica una crisi che talvolta si prolunga per decine di anni. Questa durata eccezionale significa che nella struttura si sono rivelate (o sono venute a maturità) contraddizioni insanabili e che le forze politiche operanti positivamente alla conservazione e difesa della struttura stessa si sforzano tuttavia di sanare entro certi limiti e di superare. Questi sforzi incessanti e perseveranti (poiché nessuna forma sociale vorrà mai confessare di essere superata) formano il terreno dell’occasionale sul quale si organizzano le forze antagonistiche che tendono a dimostrare che esistono già le condizioni necessarie e sufficienti perché determinati compiti possano e quindi debbono esser risolti storicamente (debbano, perché ogni venir meno al dovere storico aumenta il disordine necessario e provoca più gravi catastrofi)». Sembra il ritratto somigliante di una società come quella italiana negli ultimi anni che abbiamo vissuto. Una trasformazione complessiva che contiene al suo interno il vecchio e il nuovo.
Peraltro molti altri esempi potrebbero desumersi dallo stesso ordine di mutamenti auspicati dalle classi dirigenti e frustrati da un carattere costante degli italiani che lo stesso Gramsci, in un articolo pubblicato nel marzo 1917, richiamava sull’edizione piemontese dell’Avanti!. «Una delle forme più appariscenti e vistose del carattere italiano- scriveva allora il giovane Gramsci- è l’ipocrisia. Ipocrisia in tutte le forme della vita: nella vita familiare, nella vita politica, negli affari. La sfiducia reciproca, il sottointeso sleale corrodono nel nostro paese tutte le forme di rapporto: i rapporti tra singolo e singolo, i rapporti tra singolo e collettività. L’ipocrisia del carattere italiano è in dipendenza assoluta con la mancanza di libertà. È una forma di resistenza. L’ipocrisia nei rapporti tra singolo e collettività è una conseguenza dei paterni governi polizieschi che hanno preceduto e seguito l’unificazione del regno d’Italia. L’ipocrisia nei rapporti tra singolo e singolo è una conseguenza dell’educazione gesuitica che si è impartita e si continua a impartirsi nelle scuole e nelle famiglie, e che scaturisce spontanea dall’esperienza della vita quotidiana». Se pensiamo ad alcuni problemi che affliggono oggi la vita pubblica, come quella privata - dalla corruzione pubblica ai metodi mafiosi, dal degrado dei rapporti sociali all’incertezza dello Stato di diritto, all’eccessiva disuguaglianza nei rapporti economici che ci pone al vertice dei Paesi occidentali- possiamo forse dire che i «caratteri degli italiani» di cui novant’anni fa parlava il giovane Gramsci si siano evoluti e modificati in maniera evidente? Personalmente ne dubito assai.

l’Unità 23.8.07
In un bel giardino con ser Boccaccio
di Roberto Carnero

Non c’è forse classico più «vacanziero» del Decameron di Giovanni Boccaccio (1313-1375). Perché l’«onesta e lieta brigata» delle sette ragazze e dei tre ragazzi che, a turno, racconteranno le cento novelle di cui è composta l’opera, hanno proprio deciso di prendersi una vacanza. Mentre a Firenze - siamo nel 1348 - infuria la piaga della peste, con la corruzione fisica, morale e civile che questo male terribile porta con sé a tutti i livelli, i nostri dieci giovani hanno avuto la bella idea di andarsene fuori porta, in una villa lontana dalla città: «Era il detto luogo sopra una piccola montagnetta, da ogni parte lontano alquanto alle nostre strade, di varii arbuscelli e piante tutte di verdi fronde ripiene piacevoli a riguardare; in sul colmo della quale era un palagio con bello e gran cortile nel mezzo, e con logge e con sale e con camere, tutta ciascuna verso di sé bellissima e di liete dipinture ragguardevole e ornata, con pratelli da torno e con giardini maravigliosi e con pozzi d’acque freschissime e con volte di preziosi vini».
Non meno di un hotel a cinque stelle, questo «locus amoenus» che sarà la cornice del «novellare»! Un raccontare fatto, nelle intenzioni dell’autore, a parziale consolazione delle donne innamorate. «Consolazione» in latino si dice «solacium», la stessa parola da cui deriva «sollazzo», cioè «piacere». Perché, prima ancora che i vari e multiformi casi raccontati nelle novelle delle dieci giornate in cui è suddiviso il Decameron, fulcro dell’opera è proprio questo piacere del racconto, cioè il piacere vicendevole del raccontare e del farsi raccontare una storia. Tanto che alcuni anni fa uno studioso di Boccaccio, Mirko Bevilacqua, intitolò un suo aureo libretto sul Decameron Il giardino del piacere (Semar 1995): a significare proprio la primaria importanza, già in quest’opera scritta negli anni 1349-1351, di quello che in tempi a noi più vicini Roland Barthes avrebbe chiamato «il piacere del testo».
E leggere il Decameron è ancora più piacevole sfogliando la preziosa edizione nella collana «I Diamanti» di Salerno Editrice, in due volumi in cofanetto a cura di Valeria Mouchet e con introduzione di Lucia Battaglia Ricci. Due piccoli, deliziosi volumetti che stanno davvero in tasca. Ma se non vi accontentate di leggere per il piacere della narrazione e volete approfondire sul piano storico e culturale l’opera di Boccaccio, vi segnaliamo, appena pubblicato sempre da Salerno Editrice, un saggio firmato da uno dei più noti medievisti, Franco Cardini. Si intitola Le cento novelle contro la morte (pp. 160, euro 11,00). Scommettiamo che al ritorno dalle ferie la tesi dell’autore non mancherà di far discutere gli esperti. Se infatti il Decameron è stato letto tradizionalmente come opera celebrativa della nuova etica borghese e mercantile (contrariamente alla Commedia di Dante in cui si condannava «la gente nova e i subiti guadagni»), Cardini riafferma il forte radicamento di Boccaccio nella cultura medievale e ne fa il paladino di un recupero di valori cortesi quali l’amore disinteressato, l’amicizia sincera, la lealtà a costo della morte, la solidarietà, il disprezzo delle ricchezze materiali.

Repubblica 23.8.07
I cambiamenti biologici e quelli culturali
Come sono fatte le idee e come si trasmettono da un individuo a un altro
di Luca e Francesco Cavalli-Sforza

Genitori e insegnanti trasmettono ai ragazzi le norme del vivere civile
Al pari dei geni, anche la cultura può mutare nel corso del tempo
La comunicazione è il meccanismo che permette di riprodurre le opinioni

In Inghilterra, si sa, la guida è a sinistra, anziché a destra come nel resto d´Europa. Si dice che questo costume si sia tramandato dai tempi in cui si viaggiava a piedi o a cavallo: non si poteva sapere chi si sarebbe incontrato per strada, e nel dubbio ci si teneva pronti a incrociare, in caso di bisogno, la spada. Si sa che gli inglesi amano conservare le antiche tradizioni, ed è probabile che le cose siano andate proprio così.
Per noi italiani, o europei "continentali", come gli inglesi amano definirci, guidare in Gran Bretagna o nei paesi dell´ex impero inglese, come l´India, richiede un piccolo aggiustamento delle nostre abitudini, o meglio di quel flusso di pensieri che ci permette di mantenerci in carreggiata evitando incidenti, quando siamo al volante. In fondo, come usa dire, "è lo stesso, soltanto che è al contrario". Ma a molti sarà capitato, in un momento di distrazione, di trovarsi improvvisamente, e paurosamente, a procedere contromano.
Quando insegniamo a un bambino a traversare la strada, gli spieghiamo che deve guardare prima a sinistra e poi a destra (in Italia; in Inghilterra naturalmente gli si dice il contrario). All´inizio, il bambino potrà restare perplesso: perché questa prescrizione astrusa? le macchine vengono da tutte le parti; è ovvio che per traversare la strada bisogna guardare dappertutto. Poi, piano piano, la logica di questa prescrizione si farà strada nel suo cervello, fino a trasformarsi in una sorta di automatismo psichico, che lo aiuterà a sopravvivere al traffico cittadino. Un automatismo che dovrà imparare a rovesciare se vorrà sopravvivere, una volta cresciuto, ad una visita in Inghilterra.
Che si tratti di imparare a guidare su un lato o su un altro, o a guardare prima da una parte e poi da un´altra della strada, o di una qualsiasi delle centomila cose in cui veniamo istruiti vivendo, ciò che accade quando impariamo è che un´idea, una nozione, un´informazione presente nella mente di chi insegna si trasferisce nella mente di chi apprende: crea, insomma, una copia di se stessa, che continuerà ad esistere nella mente di chi impara anche quando chi insegna non è più presente.
Di cosa sono fatte le nostre idee? non lo sappiamo, o meglio non lo sappiamo ancora bene, perché è chiaro che deve trattarsi di associazioni fra le cellule del sistema nervoso, i neuroni. Non si parla di un pugno di cellule: ciascuno di noi dispone di cento miliardi di neuroni, e ciascuno di questi è connesso in media con mille altri neuroni, per un totale di centomila miliardi di connessioni, un numero mille volte superiore a quello delle stelle nella nostra galassia. Non dovremmo correre il rischio di restare a corto di idee!
Gli esseri viventi si riproducono perché il DNA forma copie di se stesso, quando trova le condizioni adatte all´interno della cellula. In modo analogo, anche le idee riproducono se stesse, quando trovano condizioni adatte all´interno di un altro cervello: semplicemente, si trasferiscono da un cervello a un altro. Come il genitore può trasmettere al figlio il proprio patrimonio biologico, così un individuo può trasferire a un altro il suo patrimonio di conoscenze, convinzioni, consuetudini: in una parola, la sua cultura, se con questo termine intendiamo tutto ciò che una persona può imparare e trasmettere a un´altra, quindi in generale ogni comportamento, informazione, creazione, credenza o attività umana.
L´esistenza dei geni, che sono le unità minime del patrimonio biologico, è stata individuata quasi cent´anni prima che si scoprisse la loro natura chimica. Sappiamo da sempre che esistono le idee: possiamo sperare che in questo secolo la ricerca neurobiologica ci illumini sulla loro natura. Forse si scoprirà che non sono, almeno non solo, un fatto chimico, come i geni, ma un fatto fisico. Forse ci renderemo anche conto che la nostra cultura è immensamente più complessa della nostra biologia: in fondo, un genoma umano si compone di poco più di tre miliardi di nucleotidi.
Come i geni, anche le idee possono cambiare nel corso del tempo. Un´idea nuova può affiancare e poi sostituire un´idea precedente. Tutta la storia del pensiero umano è lì a dimostrarlo. Mentre le mutazioni biologiche, però, sono un fenomeno del tutto casuale, le idee nuove nascono di solito intenzionalmente, e in genere con l´obiettivo di risolvere un preciso problema pratico. Sono strumenti di sopravvivenza e di adattamento: non diversamente, in questo, dai geni.
C´è poi un´altra differenza fondamentale. I geni possono essere trasmessi solo da genitori a figli, cioè in verticale (salvo eccezioni, specie nei batteri), per cui una novità può presentarsi solo al cambio di generazione. Di conseguenza, l´evoluzione biologica è lentissima. Anche le idee, e quindi la cultura in generale, vengono trasmesse in verticale, da genitori a figli, e passando di generazione in generazione si conservano per lunghi periodi di tempo senza subire mutamenti di rilievo, tanto che troviamo in popoli di tutto il mondo usanze, costumi, rituali che proseguono inalterati per secoli e millenni, anche quando più nessuno ne ricorda il senso. Le idee e la cultura, però, possono trasmettersi anche in orizzontale, cioè all´interno di una stessa generazione, e questo moltiplica la loro velocità di diffusione. Oggi, con le informazioni che viaggiano in tempo reale sulle reti informatiche che avvolgono il pianeta, è facile rendersene conto: basti pensare alla rapidissima diffusione di un´invenzione degli ultimi anni, il telefono cellulare. Ma anche in passato era così: la stampa a caratteri mobili, inventata in Germania a metà del Quattrocento, con la fine del secolo era già presente in tutta Europa. Tremila anni fa, vediamo l´alfabeto fonetico raggiungere in pochi secoli tutte le sponde del Mediterraneo. Ventimila anni fa, l´arco e le frecce si propagano in pochi millenni. Sono tempi brevi rispetto a quelli del cambiamento biologico.
Se la trasmissione verticale di idee e costumi è molto conservatrice, la trasmissione orizzontale può portare cambiamenti anche rapidissimi, ma solo nei casi in cui si diffonde da un unico trasmittente a molti riceventi, e quando il centro di trasmissione gode di particolare autorità o prestigio. Così, le decisioni dei sovrani del passato raggiungevano tutti i sudditi, come le leggi promulgate oggi dall´autorità centrale valgono per ogni cittadino; i pronunciamenti dei capi religiosi influiscono su milioni di fedeli; una nuova moda o canzonetta può diffondersi con velocità fulminea a un´intera nazione o continente; una barzelletta spiritosa si propaga in onde concentriche, come una malattia infettiva in un´epidemia. Quando, all´opposto, si verifica una trasmissione concertata da molti verso uno solo, la trasmissione della cultura è estremamente conservatrice e rafforza tradizioni e norme acquisite: così i genitori e gli insegnanti trasmettono ai ragazzi le norme del vivere civile; la società impone all´immigrato le proprie leggi; l´esercito le proprie regole alla recluta; la mafia ai suoi associati. In generale, il gruppo umano prescrive in questo modo ai suoi membri i modelli di comportamento collettivamente riconosciuti e accettati.
Un padre e una madre possono trasmettere i loro geni a più figli, ma si tratterà sempre di uno stesso patrimonio biologico. Un figlio, per la sua parte, può ricevere solo una copia del genoma di due genitori. Anche nella trasmissione culturale i genitori sono i primi maestri, ma presto intervengono parecchi altri emittenti: insegnanti, coetanei (fratelli, amici, compagni di scuola), e tutti i mezzi di comunicazione oggi disponibili. A nostra volta, possiamo comunicare le nostre scoperte e intuizioni a un numero virtualmente elevatissimo di persone, anche a chi non parla la stessa lingua. La circolazione delle idee e la disponibilità di informazioni, conoscenze, tecnologie, divengono un fenomeno di portata gigantesca. Si crea una grande varietà di atteggiamenti. La cultura batte sul tempo la natura, e il cambiamento culturale rende possibile in poche generazioni modifiche che in natura richiederebbero un numero enorme di generazioni, o non sarebbero possibili.
È così che la cultura si è andata affermando, nel corso della storia, come lo strumento più potente a disposizione dell´umanità: ha permesso non solo un eccellente adattamento all´ambiente naturale, nelle mille forme praticate dalle diverse culture, ma ha consentito di modificare la natura stessa. È sufficiente uno sguardo dall´alto al nostro pianeta per rendersi conto della portata dell´intervento umano sulla superficie terrestre. L´allungamento della vita media e gli oltre sei miliardi di persone che vivono sulla Terra, sia pure nelle più miserabili condizioni, ne sono la più evidente testimonianza.
Se le idee sono il DNA della cultura, la comunicazione è il meccanismo che permette di riprodurle. Nella trasmissione della cultura ritroviamo, con alcune modifiche, gli stessi fattori di evoluzione che agiscono in biologia: la mutazione (idee e invenzioni nuove); la selezione, che qui naturalmente è selezione culturale (la comunità umana decide quali idee promuovere e quali rifiutare); il drift, per cui quelle manifestazioni culturali che non hanno un forte valore adattativo fluttuano in modo casuale di generazione in generazione nei diversi luoghi (così varia la pronuncia di una stessa lingua nelle varie regioni dove la si parla); la migrazione, che fa sì che credenze, lingue, tradizioni, stili di vita siano introdotte nei luoghi raggiunti dai migranti. Dell´evoluzione culturale si può dire, come dell´evoluzione biologica, che porta aumento di varietà, differenziazione e trasformazione, e in generale migliora la capacità di interagire con l´ambiente.
Anche se la cultura è spesso in grado di esercitare vere e proprie forme di controllo sulla natura, come quando una terapia medica salva una persona altrimenti condannata a morire, è però pur sempre la selezione naturale, alla fine, a decidere del futuro delle nostre innovazioni. Così, per esempio, benché le nostre tecnologie ci permettano di produrre una straordinaria quantità di cibo, e benché il numero degli esseri umani sia cresciuto di un milione di volte in centomila anni, rimane comunque vero che nessuna popolazione può crescere al di là delle dimensioni consentite dal suo ambiente di vita: quando questo accade, entrano in opera meccanismi retroattivi di controllo, che per l´umanità si chiamano carestie, epidemie, guerre, come ogni giorno abbiamo modo di osservare.
Per quanto approfondite e potenti, le conoscenze e le tecnologie sviluppate nel corso di tante generazioni non forniscono alcune garanzia che le scelte via via compiute dalla collettività umana siano le più opportune per il futuro della specie: questo è molto evidente oggi, nel progressivo degrado dell´ambiente naturale da cui dipende la qualità delle nostre vite e la nostra stessa esistenza.
Pure, la competenza collettiva che si è andata accumulando nel tempo fornisce tutti gli strumenti necessari per fare fronte alle sfide dell´oggi, se li si vorranno usare con saggezza, e l´era elettronica rende ormai possibile la trasmissione da molti verso molti, una novità assoluta nella storia umana. È una comunicazione fondamentalmente bidirezionale, dove ciascuno può essere al tempo stesso emittente e ricevente. Forse la migliore speranza per il nostro futuro è che sia questa modalità originale di scambio e confronto a permettere alle intelligenze individuali di coalizzarsi e a mobilitare le risorse dei singoli, scavalcando gerarchie consolidate, generando modelli di sviluppo praticabili e indirizzando in modo consapevole l´evoluzione delle società umane.

(9 - continua)


Aprile on line 23.8.07
Per un nuovo socialismo e una sinistra finalmente unita
di Gianluca Scroccu

Dibattito Lo vogliamo davvero tutti questo processo di costruzione di una forza di sinistra unitaria che sia di governo ma che contemporaneamente non si rassegni al ruolo di notaio che certifica l'esistente?

In questi giorni ho riletto l'intervento di Massimo Luigi Salvadori all'assemblea di fondazione di Sinistra Democratica a Roma del 5 maggio scorso. Un intervento assai lucido e ricco di significativi spunti.

In particolare sono tornato sul punto in cui lo storico torinese invita a prendere atto che la caduta del comunismo ha ingenerato lo straripamento dell'offensiva neoliberista, comportatasi come una vera forza egemonica capace di dettare l'agenda politico-economica su scala globale e delegittimando così, agli occhi di vasti strati sociali, ogni prospettiva di critica e di mobilitazione politica e sociale per la costruzione di un nuovo e alternativo modello di società. Credo anch'io che questo sia un elemento fondamentale che sino a quando non sarà risolto impedirà un vero processo di rinnovamento della sinistra italiana che ha scelto di non diluirsi nel cocktail insapore del Partito Democratico. Perché il punto è questo: lo vogliamo davvero tutti questo processo di costruzione di una forza di sinistra unitaria che sia di governo ma che contemporaneamente non si rassegni al ruolo di notaio che certifica l'esistente (la soluzione che praticano i DS verso il PD, rappresentato al meglio dalla "politica liquida" che personalmente individuo pienamente nella filosofia di fondo del discorso di Veltroni del Lingotto, come ha ben individuato anche Francesco De Gregori nella sua importante e coraggiosa intervista al Corriere della Sera)?

Se dalla società emergono infatti domande importanti di cambiamento per un mondo che gira in senso "ostinato e contrario" rispetto ai diritti dei cittadini, ci appare parimenti chiaro come il frastagliato arcipelago della sinistra italiana non basti certo a rappresentare e a fare sintesi politica di queste istanze, e quando succede tutto questo accade con risultati assai minori rispetto alle potenzialità reali. È un problema di contenuti? Solo in parte, perchè in realtà sui problemi si delinea spesso una linea comune. È un problema di difesa di rendite di posizione e di nicchie di rappresentanza? Si, perché la cristallizzazione della politica in chiave personalistica ha fatto scuola anche nella sinistra italiana. È un problema di nomi? Si, anche se è doloroso scriverlo. Ma dobbiamo prendere atto che utilizzando il nome di comunista in Italia non si può andare oltre. Per tante ragioni, ma la prima di tutte è che quel nome è legato ad una stagione che non c'è più, a partire dalla dimensione internazionale in cui nacque e prosperò e che ne era l'essenza più significativa e ne garantiva l'esistenza. Io sono sicuro che anche i compagni del PdCI e di Rifondazione avvertono questo problema; in una bellissima intervista di qualche settimana fa a "Liberazione" lo diceva, seppur non in maniera così netta, anche Nichi Vendola. Chiediamoci tutti: sicuri che la lezione di Berlinguer venga cancellata se facciamo sparire la dizione "comunista" da simboli dei partiti? Proviamo ad immaginare la novità dirompente sullo scenario politico e mediatico se nascesse un grande partito della Sinistra Democratica Italiana: crediamo che Berlusconi, ma anche i cosiddetti riformisti del centro-sinistra, avranno vita facile quando dovranno dire che le proposte sul mercato del lavoro di un partito unitario che non si chiama "comunista" siano un residuo del passato? E i cittadini non sentiranno meno quel fastidio che talora oggi provano verso una sinistra che percepiscono (intendiamoci, spesso per colpa delle rappresentazioni caricaturali dei media) come radicale o passatista?
Naturalmente in questo discorso deve rientrare anche lo SDI di Boselli, anch'esso chiamato a fare passi in avanti significativi e coraggiosi specie in relazione al suo approccio sulla globalizzazione e il mercato del lavoro. Perché è connaturata al socialismo democratico (si rileggano Nenni, Brandt, Saragat, Pertini, Lina Merlin) la critica di un capitalismo che accresce le disuguaglianze e devasta in maniera predatoria l'ambiente e che in base a questo approccio sappia elaborare politiche di netto contrasto di tali tendenze e sia capace di invertire i processi storici in atto, uso proprio le parole testuali di Salvadori, «reagendo rivendicando il ruolo dei poteri pubblici democraticamente legittimati di fronte al crescente potere di una plutocrazia industriale e finanziaria che ha assunto direttamente nelle proprie mani le maggiori decisioni attinenti alla produzione e alla dislocazione delle risorse obbedendo alla logica dominante del proprio profitto e riducendo i governi a enti amministrativi oppure assumendone direttamente la direzione, come nel caso dell'amministrazione Bush».

C'è poco da fare, nella "turbopolitica" italiana, come l'ha chiamata efficacemente in un bel saggio Edoardo Novelli, i nomi contano: guardiamo a quanto è stata abile la destra chiamando legge Biagi quella che in realtà dovrebbe essere denominata più onestamente, come ha sottolineato Furio Colombo, "legge Maroni"; se si chiamasse come l'ex ministro del Welfare, probabilmente oggi l'Unione l'avrebbe già abolita. Ma non può farlo, perché il nome del povero Marco Biagi, assassinato dalla brutalità delle BR, rappresenta una barriera insormontabile che impedisce ogni discussione seria sulle riforme del mercato del lavoro (tipico esempio di un'egemonia costruita sulla base del tramite del messaggio mediatico).
Possibile che non si capisca come la società italiana chieda uno scatto deciso, un elemento di freschezza e di reale novità che faccia uscire dal chiacchiericcio delle dichiarazioni politiche del quotidiano? La sfida del PD sarà alla lunga perdente sul piano dei contenuti e del reale amalgama sulle cose dei suoi aderenti, specie di quelli in buona fede che verranno delusi da un progetto che non si rivelerà quello da loro prospettato; ma comunque rischia di essere preferita per inerzia da quegli elettori progressisti che restano diffidenti rispetto ad una sinistra che appare, anche per colpe non sue, prigioniera del vecchio. Ad esempio, sicuri che basterà una manifestazione come quella del 20 ottobre? Sono scettico, perché sul piano formale rischiamo di fare dei passi indietro e di prestarci al gioco dei teorizzatori delle "sinistre del passato". Meglio sarebbe, ad esempio, organizzare sul territorio delle assemblee di discussione aperte in cui i cittadini facciano sentire il loro disagio e propongano le loro istanze.

Ecco perché occorre impostare da subito, ad iniziare da Sinistra Democratica, una coraggiosa battaglia di rinnovamento della politica, contemporaneamente nelle forme e nei contenuti programmatici.
Per rovesciare la tendenza verso una cittadinanza sempre più frammentata e politicamente passiva, disillusi dai partiti elettorali dominati dalla "casta", e il progressivo impoverimento di ogni pensare collettivo che si rifugia nella retorica del consumo particolaristico. Solo con uno sforzo collettivo e di costruzione paziente, fatta di confronto libero e partecipato, si riuscirà a rovesciare il modello egemonico impostosi a livello mondiale con la presentazione degli attuali assetti capitalistici come immodificabili e che, come in occasione della vicenda recente dei "subprime" statunitensi e del crollo della Borsa, produce crisi che il modello neoliberista non riesce a risolvere anche se, grazie ai suoi mezzi di comunicazione, riesce ad impedire in parallelo ogni risoluzione alternativa. E quando qualcuno rompe il sistema, seppur con la forza di un socialismo democratico come quello di Zapatero, scatta la demonizzazione sui mezzi di comunicazione (gioco analogo è in corso contro Beppe Grillo per il successo del suo libro sul precariato scaricabile dal suo blog, prefato nientemeno che da Stiglitz). Perché è fondamentale porsi il tema del rapporto pubblico/privato all'interno dell'economia globalizzata che potrebbe garantire grandi benefici se la si declinasse, a differenza di quello che accade oggi, in chiave democratica e cioè riequilibrando il confronto tra le forze capitalistico-finanziarie e quelle del lavoro. Se ne è accorto anche l'ex presidente Ciampi, che in un'intervista apparsa giorni fa su "Repubblica" si è chiesto se non sia arrivato il momento di allontanarsi dall'economia finanziaria e privilegiare il ritorno a quella reale. Quella cioè che non può rinunciare, in un mondo caratterizzato contemporaneamente da una dimensione globale ed interdipendente e da un parallelo ridimensionamento delle prerogative degli Stati Nazionali, alle regole e alla ricerca di un giusto equilibrio tra il fattore economico e quello sociale, fra la crescita sul piano quantitativo e il contemporaneo sviluppo su quello qualitativo. È questa l'unica ricetta che può permettere alle varie tipologie di famiglie di conciliare lavoro e vita privata, immettendo nel discorso economico concetti cardine come diritti dei consumatori, azionariato diffuso e rifiuto delle speculazioni finanziarie che portano al controllo aziendale da parte di imprenditori irresponsabili. Ponendo al centro della proposta politica della sinistra del XXI° secolo temi come il conflitto di genere e la piena parità fra uomo e donna in politica, nel lavoro e in famiglia, così come la questione ecologica per la costruzione di un diverso modello di sviluppo ecocompatibile ad iniziare dal superamento dello spreco delle risorse energetiche non rigenerabili.

Una sinistra che non abbia paura del mercato e sappia tutelare e valorizzare il valore di quella che Luciano Gallino ha chiamato efficacemente "l'impresa responsabile"; l'impresa, cioè, che porta avanti le sue strategie di profitto secondo le regole democratiche e che non demonizza uno Stato che interviene per limitare il campo di una prepotente economia finanziaria, la quale si rapporta senza mediazioni, assicurandosi lauti profitti, con il singolo cittadino indifeso non garantendo peraltro né sviluppo né crescita concreta. Una sinistra socialista (perché aderente convinta al Pse e all'Internazionale Socialista ma con autonomia di pensiero) e democratica che in questo senso deve guardare con favore all'esistenza, non legata direttamente ad un tesseramento, di gruppi ed organizzazioni che si riconoscano in un comune orizzonte di progresso e modernità e in cui ci si possa impegnare in prima fila in battaglie importanti che mettano in primo piano una cittadinanza attiva che discute e partecipa nella trasparenza delle informazioni e nel rispetto dei tempi della vita privata e lavorativa di ciascuno.
Vogliamo provarci davvero a costruire questa sinistra italiana del XXI secolo?