giovedì 9 agosto 2007

Repubblica 9.8.07
Il tossico parla in greco antico
La voluttà nichilista che assedia i giovani
di Umberto Galimberti


"Il piacere è negativo e il desiderio è insaziabile" è una formula che deve molto al pensiero di Platone
Freud invitava a piegarsi al principio di realtà : per godere bisogna fare uno sforzo
Chi si inietta eroina parla di "bucarsi", il corpo si fa abisso il cui etimo è "senza fondo"

Il consumo della droga è in continuo aumento. I danni, anche se non immediatamente avvertiti, sono spaventosi. Una voluttà nichilista sembra pervadere la nostra società, soprattutto nella sua fascia giovanile, senza che adeguati rimedi appaiano disponibili e soprattutto efficaci. Siccome sono persuaso che l´uso ormai così diffuso della droga non dipenda tanto da un disagio «esistenziale» quanto «culturale», in questa serie di articoli vorrei affrontare il problema della droga con gli strumenti che la nostra cultura, anche se appare ormai esangue, sembra ancora in grado di offrire.
Incominciamo col dire che, non solo nel caso della droga, ma in generale, «il piacere è negativo e il desiderio è insaziabile».
Questa formula, che ogni tossicomane conosce, riproduce esattamente quanto la filosofia dell´Occidente ha pensato intorno al piacere e al desiderio. Già Platone, indagando la natura del desiderio, ne ha colto l´essenza nell´«insaziabilità», perché il desiderio è «mancanza», è «vuoto», da pensare non come uno stato stabile contrario al pieno, ma come uno stato insaturabile che si svuota man mano che cerchiamo di riempirlo, come la «giara bucata», per stare alle immagini di Platone, o come il «piviere»che è quell´uccello che mangia e nello stesso tempo evacua.
Iniettarsi eroina si dice in italiano «bucarsi». Il corpo si fa «abisso» che etimologicamente significa «senza fondo». Allo stesso modo in francese «essere alcolizzato» si dice «bere come un buco (boire comme un trou)». Tossici e alcolizzati parlano in greco antico e descrivono la loro incapacità di «contenere» con immagini platoniche.
La tossicomania sembra infatti incarnare alla lettera la teoria platonica del desiderio che fa della mancanza non il motore della ricerca della felicità, ma quella «belva dispotica e indomabile che spinge ad aggrapparsi ad essa senza poter più tendere ad altro». Sotto questa forma il desiderio ci fa provare un dolore insopportabile eppure irresistibile, e il piacere che ne segue è cessazione di questa pena, anestesia, piacere negativo, come dopo la prima dose, quando quella successiva non porta voluttà, ma evita la caduta nella sofferenza, perchè fa cessare il dolore fisico e fa da sedativo al male di vivere di cui non ci si prende più cura.
«Cura» in tedesco si dice Sorge, e Freud, dopo aver fatto uso per diverso tempo di cocaina, chiama la droga Sorgenbrecher, ciò che consente di «scacciare i pensieri», di non «prendersi cura» e, come lui stesso scrive, «il più antico rimedio contro il disagio della civiltà». Così dicendo, Freud, dopo aver indicato con tanta precisione la malattia chiamata «uomo», include il ricorso alle droghe in una prospettiva culturale, e in proposito scrive: «Gli effetti prodotti dagli inebrianti nella lotta per conquistare la felicità e per difendersi dalla miseria vengono considerati talmente benefici che gli individui e i popoli hanno loro riservato un posto ben preciso nella loro economia libidica. Con l´aiuto dello scacciapensieri (Sorgenbrecher) sappiamo dunque di poterci sempre sottrarre alla pressione della realtà e trovare riparo in un mondo nostro, che ci offre condizioni sensitive migliori. E´ noto che proprio questa caratteristica degli inebrianti ne costituisce in pari tempo il pericolo e la dannosità. Per colpa loro in talune circostanze si sciupano inutilmente grandi ammontari di energia che potrebbero essere utilizzati per il miglioramento della sorte umana».
Come per Aristotele, anche per Freud, infatti, il piacere è il primo principio della vita psichica, nonché il movente più forte dell´azione umana, ma sia Aristotele sia Freud distinguono il piacere «immediato» dell´infanzia, dal piacere adulto che nasce dal «differimento» del godimento, spostato su oggetti compatibili con il mondo, con gli altri e soprattutto con l´autoconservazione.
Qui cade la differenza instaurata da Freud tra il principio di piacere (infantile) e principio di realtà (adulto) che non è negazione del piacere, ma suo «differimento», perché non tralascia la cura di uomini e cose, ma cerca il piacere attraverso questa cura, fattore essenziale di ogni vicenda umana. Quindi congedo dalla «non-curanza», per abituarci a «prenderci cura» dei nostri piaceri, non nella forma «an-estetica» della soddisfazione immediata come fanno i bambini, ma in quella «estetica» nell´accezione greca dell´«aisthesis» o sensazione, che percorre la gamma che dal «sensibile» giunge al «bello».
Il tratto «anestetico» non è tipico solo delle droghe, ma anche degli psicofarmaci per il loro valore anestetizzante e quindi «nichilistico». In questo modo la differenza tra droghe e farmaci sfuma, perché la neurofarmacologia ci invita a pensare che esiste una corrispondenza qualitativa tra i composti chimici che assumiamo e quelli che fisiologicamente agiscono sulle cellule cerebrali per regolare le nostre gioie e i nostri dolori. Così la neurofarmacologia razionalizza i comportamenti tossicomani e, a sua insaputa, contribuisce alla loro sdrammatizzazione, perché riconosce l´intenzione ragionevole del gesto medico o autoterapeutico che consiste nel modificare la sensibilità del corpo.
In questo modo, come scrive lo psichiatra Edward Khantzian: «Il tossicomane non appare più come un immaturo che regredisce e si comporta in modo irrazionale, bensì come un adulto che individua un disagio, sceglie un rimedio specifico, si cura e si limita ad anticipare il medico con un prodotto il cui unico difetto è di essere inadeguato in quanto mal dosato».
Dello stesso avviso è il neuropsichiatria Peter Kramer per il quale: «Il paziente anedonico, così chiamato per la sua incapacità di provar piacere, che assume il prozac e il cocainomane che assume la droga tentano entrambi di compensare la loro mancanza di capacità edoniche. La finalità del loro gesto è identica».
Entrambi, infatti, vengono a compensare un´incapacità di felicità, non attraverso un coinvolgimento nel mondo, ma attraverso un godimento appetitivo e consumatorio della vita, che Platone rubrica tra le esperienze «miste e impure», caratterizzate cioè dall´insaziabilità del desiderio e dalla negatività del piacere.
La «macchina del nulla» che avvia questo circolo vizioso inabissa il tempo in un´ossessione volta alla ricerca del prodotto che promette la liberazione da ogni «cura», innescando quella meccanica della ripetizione, che Freud chiama «coazione a ripetere», dove l´insaziabilità della pulsione si scontra con l´inadeguatezza dell´oggetto e quindi con l´impossibilità del godimento.
A questo punto il desiderio che, come ci ricorda Platone, è fatto di «mancanza» e di «nulla», chiede che si aumenti la dose, per cui in un certo senso la tossicomania riprodurrebbe, come nessun´altra cosa, il perfetto funzionamento del desiderio, che non cerca il piacere nel mondo, ma l´estinzione rapida e immediata di quella «mancanza» che è la sua struttura costitutiva. Nessuno infatti desidera ciò che ha, ma solo ciò che non ha. Il nulla è l´anima del desiderio che, nella sua versione anestetica, rende l´appetito irresistibile e il piacere insoddisfacente.
Sulla natura «insaziabile» del desiderio, i tossicomani sono d´accordo. Lo sanno anche se non hanno letto Platone. E´ la droga ad averglielo insegnato. E a proprie spese hanno imparato che «ci si droga per essere assuefatti» come scrive William Burroughs ne La scimmia nella schiena (Rizzoli), e che darsi alla droga è un «full time job, un lavoro a tempo pieno» come dice Mark Renton in Trainspotting. Ma siccome il tempo è la nostra vita, e la nostra vita siamo noi, la tossicomania, come rimedio al dolore, invoca per sé un altro rimedio.
Platone contro l´insaziabilità del desiderio consigliava il pensiero, Freud invitava a piegarsi al principio di realtà, nel senso che per godere bisogna fare uno sforzo. E allora contro la voluttà degli «scacciapensieri» o Sorgenbrecher, come li chiama Freud, che sono tanto le droghe quanto i farmaci così agognati dal nostro cervello che sembra ce la metta tutta per diventare cronicamente desiderante, l´antropologa Giulia Sissa consiglia: «Mettiamoci a sedurre uomini, conquistare donne, guadagnare denaro, scrivere un libro. Passiamo attraverso le persone e le cose. Dopotutto - ed è appunto il "dopo" che conta - si gode di più».
Un modo per dire: «non ripudiamo il nostro desiderio», ma per evitare che, dall´abisso della negatività che lo costituisce, il desiderio si faccia insaziabile e cerchi nella droga o nel farmaco quel piacere negativo che consiste nel riempire la «giara bucata», facciamolo passare attraverso le persone e le cose. Il piacere, infatti, va assecondato, non negato. Si tratta solo di indicargli la via come l´auriga di cui parla Platone la indica al cavallo indomito.
E questo va raccomandato soprattutto alle campagne pubblicitarie che, con le loro minacce e le loro raccomandazioni tautologiche del tipo «just say no (dì di no e basta)», mancano di efficacia perché, trascurando la natura del desiderio e la qualità del piacere, dicono cose in cui sono del tutto trascurati gli incanti della vita. E ognuno sa che, senza incanti, la vita non ha più voglia di vivere.

(1-continua)


Repubblica 9.8.07
D'Alema sprona i giovani "Lottate come noi nel 68"
Capanna: "Bravo Massimo". Ma Revelli: "Abbiamo fallito"
Le critiche di Sansonetti: "Generazione di arroganti"
di Alessandra Longo

ROMA - I giovani del ´68 accettarono la sfida fino in fondo, il cambiamento se lo conquistarono sul campo, «rumorosamente». Ma quelli di adesso? Stanno facendo altrettanto? Massimo D´Alema riconosce che «l´Italia è abbastanza off limits per loro sia in politica che in economia» ma dice anche: «Devono farsi avanti e combattere per il loro futuro, come ha fatto la nostra generazione». Sono riflessioni contenute in un´intervista a «Gente» e suonano come un invito a buttarsi di più, a non mollare la presa, ad imitare la grinta, la determinazione dei cinquanta, sessantenni di oggi. Insomma, il messaggio è: fate come abbiamo fatto noi, «abbiamo lottato a partire dal´68 e, nel bene e nel male, abbiamo fatto, rumorosamente, strada».
Il ´68 vissuto ancora come il modello più riuscito di ribellione alla società dei potenti e alle sue ingiustizie. E´ così? Se chiedi ai sessantottini di commentare la frase di D´Alema non trovi cori unanimi di nostalgici. Marco Revelli, per esempio, docente di Scienza della Politica all´Università del Piemonte orientale, uno che il ´68 l´ha fatto a Torino, «e non rinnego niente», scuote la testa: «Non penso che la nostra generazione abbia avuto un grande successo. Il fallimento, la responsabilità, li sento sulla pelle. Non siamo stati un gran modello, l´Italia che abbiamo prodotto è un´Italia che fa schifo, un´Italia di potere che non invoglia un giovane a mobilitarsi. Motivi di rivolta, di ribellione, ci sarebbero. Ma penso anche a come è andata a finire a Genova, al G8. Il primo battesimo pubblico per molti ragazzi è finito con le torture e dopo quegli episodi, e nonostante il cambio di governo, nessuno è stato punito. Che messaggio è arrivato alle nuove generazioni da un´esperienza così traumatica?».
Il ´68 grande occasione perduta, secondo Revelli, e i giovani di oggi lasciati soli, "disattivati" quando rompono troppo gli schemi. «No, non è vero, al mio amico Revelli rifarei la domanda - sbotta Mario Capanna - sei sicuro che quest´Italia che fa schifo sia stata prodotta da noi e non, piuttosto, dalla reazione a noi, al nostro mondo?».
D´Alema ha toccato un tema che vibra ancora, 40 anni dopo. «Sottoscrivo questo suo richiamo alla capacità di lotta del 68», dice Capanna, che spiega: «Dialogo molto con i giovani, nelle scuole e nelle università. Da una parte, è vero, ci sono i bolliti, impregnati di un microconsumismo volgare, irrecuperabili, anche se non è colpa loro, ma dall´altra ci sono ragazzi inquieti, che s´interrogano. Movimenti come quello dei new global, che si batte per una globalizzazione democratica, sono l´emblema di questa reattività e dentro c´è tanto ´68». Ammette Piero Sansonetti, direttore di «Liberazione»: «Anche a me vien da dire: "Ragazzi, forza, sconfiggeteci!" La frase di D´Alema mi tenta ma, alla fine, sento un fondo di arroganza». Arroganza, «baldanza»: ecco il difetto, secondo Sansonetti, di una generazione «fortunatissima, nata fuori dalla barbarie di Auschwitz, Hiroshima, Stalin, generazione reattiva, sconvolta dalla storia dei nostri padri. Generazione che ha fatto piangere tutti, i preti, i banchieri, la polizia. Generazione che, però, pensa di essere perfetta, di aver concluso la storia e dunque se ne fotte del futuro dei giovani». «E´ proprio così - concorda Nicola Fratoianni, 32 anni, segretario regionale di Rifondazione in Puglia - Sono convinti che con loro sia più o meno finito tutto. E invece ogni generazione ha le sue modalità di protesta, fa la sua strada. I movimenti antiglobalizzazione sono una grande esplosione di vitalità».
«Non esistono generazioni migliori delle altre, pensarlo sarebbe razzismo», dice Sansonetti. Vinicio Peluffo, diessino, responsabile del Comitato romano per Veltroni leader del Pd, è nato tre anni dopo il ´68. «Non sono più giovane da un po´ - precisa - ma questi giovani li vedo. Fanno la loro battaglia, che è diversa. La generazione del ´68 si è affermata collettivamente. Erano in tanti, anche dal punto di vista demografico. Quelli dopo hanno fatto percorsi diversi, hanno spesso scavato il proprio spazio in solitudine». Lottano a sufficienza? «Lottano per far saltare una società a numero chiuso, dove si entra solo per cooptazione e, quando si entra, lo si fa uno alla volta. Vogliono nuove regole più giuste, più aperte. Anche se le regole non bastano, ci vuole il coraggio di far saltare il banco». Più o meno quel che suggerisce D´Alema.

Liberazione 9.8.07
99/99/9999 la data impossibile della vergogna dell'ergastolo
di Sandro Padula

In Italia, già qualche anno prima del 2000, il Ministero della Giustizia usava un determinato software per elaborare il modello del certificato di detenzione.
Per il fine pena dell'ergastolano fu trovata una soluzione numerica che potesse apparire equivalente alla parola mai usata prima dell'informatizzazione. Da qui nacque il fine pena 99/99/9999.
99/99/9999 presuppone che un mese sia composto di almeno 99 giorni e l'anno abbia almeno 99 mesi e quindi, come minimo, 9801 giorni.
Ma quando i presupposti sono falsi e sconcertanti, tutto diventa falso e sconcertante.
Di fronte al certificato di detenzione con il fine pena al 99/99/9999, immagino la faccia di quegli italiani condannati all'ergastolo in Germania che, dopo una decina di anni nelle carceri tedesche, hanno avuto la malaugurata idea di farsi trasferire in qualche carcere italiano.
Il fine pena dell'ergastolano in Italia, a differenza di quello relativo all'ergastolano in Germania che con la buona condotta finisce generalmente dopo 15 anni e costituisce una data vera e precisa, è una non-data, l'apoteosi della metafisica del diritto penale.
Nel nostro paese, con la buona condotta l'ergastolano potrebbe ottenere la libertà condizionale dopo 26 anni, ma solo a discrezione dei magistrati di sorveglianza. Per questo motivo fondamentale esiste il fine pena 99/99/9999 e ci sono tanti ergastolani che stanno in carcere da oltre 30 anni!
Perché l'Italia è sempre in ritardo politico e culturale sulle questioni del diritto rispetto alla stragrande maggioranza dei paesi dell'Unione europea?
Tempo fa ho ricevuto una lettera in cui mi veniva rivolta questa critica: tu dici che l'ergastolo andrebbe abolito, ma ci sono reati come il sequestro e l'uccisione di un bambino che fanno venire dubbi sulla necessità di abolire l'ergastolo.
Ebbene, diciamolo una volta per tutte. Come dimostra la sentenza del 18 giugno 2007 relativa al processo con "rito abbreviato" per il sequestro e l'uccisione del piccolo Tommaso Onofri, chi accetta le logiche mercantili del " do ut des " del diritto penale vigente viene condannato a pene detentive di circa 20 anni per i reati di sequestro e uccisione di un bambino. Non viene condannato all'ergastolo.
Se la pena detentiva per il sequestro e l'uccisione di Tommy è stata di 20 anni, per quale motivo esistono pene detentive superiori per chi non ha commesso il più crudele e cinico dei reati degli ultimi due decenni? Per quale motivo esiste ancora l'ergastolo?
Il fine pena 99/99/9999 ce l'hanno oltre 1200 persone.
Ce l'hanno anche persone effettivamente responsabili di omicidi, ma che agirono in stato di coscienza alterato o irritato e in circostanze molto particolari.
Ce l'hanno circa 55 prigionieri che, come me, fecero parte delle Brigate Rosse e che, mentre si assunsero le responsabilità politiche di ogni azione compiuta dalla propria organizzazione, furono condannati quasi sempre senza alcuna prova concreta che non fosse il sentito dire di qualche "pentito" dell'ultima ora.
Ce l'hanno pochissime persone condannate per stragi che (dal 12 dicembre 1969 al due agosto 1980) hanno costituito la "strategia della tensione" e i cui mandanti ed armieri, una volta scoperti, si mascheravano da "pentiti" perché facevano parte di (impunite) strutture armate clandestine anti-sinistra come Gladio ed avevano amicizie con ufficiali residenti nelle basi militari Usa e Nato in Italia come quella di Vicenza che oggi qualcuno vorrebbe far raddoppiare.
Ce l'hanno coloro che, come dimostrano quintali di pagine processuali, furono condannati senza prove sufficienti e sulla sola base delle accuse di "pentiti" responsabili di numerosi crimini e a volte perfino pluriomicidi.
Ce l'hanno persone che non hanno usufruito di processi con "rito abbreviato e patteggiamento" e hanno rifiutato di diventare "pentiti" o "dissociati".
Ce l'hanno persone che non avevano i soldi per pagare un buon avvocato.
Ce l'hanno coloro che non hanno potuto "patteggiare" (perché condannati prima del nuovo codice di procedura penale), che hanno deciso di non "patteggiare" o che hanno rifiutato ogni forma di abiura.
Il fine pena 99/99/9999 è una tortura psico-fisica di lunghissima durata. È il bollare un essere umano per tutta la sua esistenza e anche oltre di essa. È l'esatto contrario del diritto alla vita. È la violazione di ogni Costituzione esistente nell'Unione Europea. È la più infame delle ipocrisie prodotte dallo Stato italiano negli ultimi secoli. Perché, si badi bene, nell'Unione europea è monopolio esclusivo dell'Italia!! Una vergogna di cui si parlerà anche nei prossimi secoli!
Smettiamola di tirare sassolini negli stagni! Tiriamo macigni culturali per delineare nuovi orizzonti politici!