venerdì 3 agosto 2007

Liberazione 3.8.07
Bellocchio torna al festival che lo ha reso famoso
Diviso tra cinema indipendente e mainstream
il cineasta ha in cantiere un nuovo film

Locarno nostro servizio. «L'affare migliore che ho fatto, forse l'unico». Questa la battuta di Marco Bellocchio, commentando il successo de I pugni in tasca, suo folgorante esordio. «Chiesi un mutuo di 20 milioni con mio fratello, fortuna che il film andò bene».
La sala Ex Rex di Locarno lo ha accolto con un caloroso applauso, vivendo molte delle sensazioni che già allora suscitò quello che forse è il suo capolavoro. «Allora mi resi conto di avere una visibilità, di quello che facevo si discuteva e si dibatteva. Ricordo ancora che nel Pci fui difeso da Paietta e contrastato dai neorealisti togliattiani».
Inevitabile chiedergli del cinema italiano, sempre più in sofferenza. «I Centoautori possono fare molto, ma si deve guardare anche oltre. Ad esempio mi è stato detto che a Venezia sono arrivati 40 film italiani fatti in casa, qui a Locarno sono quasi più i film in beta che in pellicola. Ora è davvero possibile fare un film con pochissimo. E poi sento sempre di più la sofferenza di un partito del nord, non certo leghista, vittima di un cinema che sente romano-centrico. Se ne lamentava con me Marina Spada, che ha fatto un bellissimo film, Come l'ombra , con soli 30.000 euro. Non solo servono i finanziamenti alla francese, ma anche una migliore distribuzione».
Diviso tra cinema indipendente e autorialità mainstream (targata 01distribution), ora si prepara a un film dal budget imponente, Vincere , storia del figlio segreto e rifiutato di Benito Mussolini, Benito Albino, avuto da Ida Dal Ser. I due furono internati in manicomio e lui non venne mai riconosciuto. «Credo che troverò le risorse - sorride - in Italia Mussolini è sempre una star, un po' come Berlusconi».
Tornando serio, confessa la fascinazione per una storia inusuale per lui. Mai si era confrontato con la storia, se non con Moro, anche se questa tragedia, forse, non è lontana dalla sua sensibilità. « Vincere è un titolo ironico, ma è soprattutto dedicato a questa donna che ha lottato per la sua verità con coraggio suicida. Per lei servirebbe una donna sensuale e dura come Anna Magnani o Irene Papas». Auguri.

La Stampa 3.8.07
"Riabilitate Anna l'ultima strega"
Bestseller sulle ingiustizie di un antico processo porta il caso davanti al parlamento svizzero
di Fabio Galvano

Non finì al rogo, l'ultima strega d'Europa, ma fu decapitata con un colpo di spada. Nella civilissima ma tutt'altro che illuminata Svizzera - era l'anno di grazia 1782 - Anna Göldi fu probabilmente vittima non tanto di un errore giudiziario, quando di una congiura ordita ai suoi danni per salvare la reputazione del suo datore di lavoro, un influente politico locale che prima l'aveva sedotta e poi ne aveva temuto le scottanti rivelazioni. Ora la Göldi è tornata all'onore delle cronache, 225 anni dopo quel giorno all'ombra di un oscurantismo di stampo medievale. Da una parte è un fenomeno letterario, per un libro che Walter Hauser, noto avvocato svizzero, ha scritto in sua difesa forse senza pensare che in breve tempo sarebbe balzato al vertice delle classifiche librarie della Confederazione. Dall'altra è al centro, proprio sulla spinta di quel libro, di un'azione senza precedenti da parte di un gruppo di deputati dei maggiori partiti, volta a una riabilitazione - ovviamente postuma - di quell'«ultima strega».
E' probabile che l'iniziativa vada a buon fine, anche se oggi non tutti sono d'accordo che sia il caso di disturbare prima il parlamento cantonale e poi quello nazionale per rimettere a posto una questione di due secoli fa. «Tiriamoci una riga sopra e andiamo avanti», ha suggerito un portavoce del governo locale. Ma a Glarus, la cittadina della Svizzera orientale dove i giudici e la protestante Chiesa Evangelica (che oggi riconosce l'errore) montarono quel caso straordinario, quel precedente storico brucia ancora: i suoi abitanti hanno raccolto robuste adesioni per la loro campagna.
Anna Göldi, 42 anni, faceva la serva in casa di un ricco e influente politico - nonché giudice - dell'epoca, tale Johann Jakob Tschudi. Il quale, evidentemente, non sapeva tenere le mani a posto. Per paura forse che la moglie scoprisse la relazione, l'uomo decise di porre fine alla tresca ancillare. Oggi è difficile stabilire se la Göldi fosse rimasta incinta: certo è, secondo la ricostruzione fatta da Walter Hauser, che la donna minacciò di rivelare l'accaduto. Apriti cielo. Nella Svizzera bacchettona gli adulteri rischiavano l'esclusione da tutti i pubblici uffici. Tschudi sentì l'ombra della rovina piombargli addosso, se solo quella donna avesse parlato.
L'uomo seppe sfruttare al meglio le sue conoscenze, oltre a quelle di parenti e amici. L'accusa fu presto costruita: la Göldi, si disse, aveva cercato di uccidere la figlia del suo datore di lavoro facendo comparire aghi di ferro, con inspiegabile magia, nella tazza di latte di una figlia di Tschudi, una bambina di otto anni. La donna fuggì, ma le autorità di Glarus non demorsero: offrirono una taglia dalle pagine del Zürcher Zeitung e il denaro, si sa, fa miracoli. Arrestata pochi giorni dopo, come qualsiasi strega che si rispetti anche questa fu torturata e alla fine i suoi accusatori riuscirono a estrarle la tanto attesa confessione: «Sì, ho fatto un patto con il Malvagio». Il 18 giugno 1782 la condanna; anche se formalmente, e forse proprio per evitare di esporsi all'inevitabile ridicolo, l'accusa al processo non fu di stregoneria - se ne parlò, ma solo in sottordine - bensì di tentato infanticidio. La spada del boia le mozzò la testa e la reputazione di Johann Jakob Tschudi fu salva.

Negli anni seguenti tutti i riferimenti alla «strega» furono sistematicamente cancellati dagli atti processuali. Ma rimase, racchiusa fra le scartoffie del tribunale di Glarus, una copia dell'interrogatorio. E' il documento su cui Hauser ha basato il suo best-seller, intitolato «L'assassinio giudiziario di Anna Göldi». «Questa sarebbe la prima volta - ha detto l'avvocato - in cui un Parlamento riabilita una strega. In realtà non c'è dubbio che si trattò di mala giustizia. Fin dall'inizio il processo fu un tentativo di farla stare zitta. E’ stato un caso palese di assassinio giudiziario».

Apcom 3.8.07
SINISTRE/ BERTINOTTI: SVECCHIARE O I GIOVANI SCEGLIERANNO VELTRONI
Fare bene ma anche presto, non deludere speranze

Roma, 3 ago. (Apcom) - Fausto Bertinotti sferza la sinistra: se non cambia, i giovani la percepiranno come vecchia e sceglieranno il Pd di Walter Veltroni. Inizia così l'intervista che il presidente della Camera ha concesso a 'la Rinascita della sinistra', settimanale dei Comunisti italiani. Bertinotti si domanda quale idea possa avere un ragazzo di 16 anni della sinistra, oggi: "O di una cosa vecchia o di una cosa da 'fissati'. Il rischio è che questi giovani trovino alla fine in Veltroni un riferimento per così dire di 'sinistra'".

Per questo il leader forse più popolare dell'ala sinistra dell'Unione rinnova il suo appello all'unificazione: "Siccome la politica è fatta anche di emozioni e di sentimenti, sarebbe un guaio deludere questa attesa che si è venuta a determinare, questo addensarsi di un sentimento di attesa verso un nuovo protagonismo a sinistra. Le emozioni e i sentimenti non si caricano artificialmente o artificiosamente, e neppure soltanto sulla base di una progettualità politica; si creano le condizioni, l'insieme degli elementi che determinano queste condizioni".

"Sono il primo a riconoscere - sottolinea Bertinotti - che uno degli elementi motori di questa accensione della speranza è stato il fatto che nella costituzione del Partito democratico una parte rilevante della sinistra Ds si sia sottratta da quell'approdo ed abbia riaperto un discorso a sinistra. Si è verificato un elemento che ha prodotto come un salto e l'addensarsi di un'attesa. Questa attesa è un'energia fondamentale per costruire un'impresa politica, per questo io credo che bisogna fare bene, ma anche presto".

Apcom 3.8.07
SINISTRE/ BERTINOTTI: GUARDARE A SUPERAMENTO CAPITALISMO
Lottare perché l'Europa non sia piegata al neoliberismo

Roma, 3 ago. (Apcom) - Il soggetto unitario delle sinistre al quale pensa Fausto Bertinotti dovrebbe avere nel suo orizzonte politico il superamento del capitalismo: lo spiega il presidente della Camera in una intervista al settimanale del Pdci 'la Rinascita della sinistra'.

Per Bertinotti "il bisogno di unità scaturisce da un punto di crisi, è questo il problema principale a cui è arrivata la storia della sinistra in Europa. In questo punto di crisi si rischia la scomparsa della sinistra. Almeno se per sinistra intendiamo la connessione tra la politica e la condizione sociale".

A questo rischio Bertinotti oppone la sua ricetta: "Dobbiamo uscire da questa sconfitta con una nuova definizione di un soggetto che guarda al futuro e che crede che nel futuro sia aperta la contesa per il superamento della società capitalista, tendenzialmente e strategicamente e nell'immediato, e sia presente la lotta perché l'Europa abbia un modello economico e sociale non piegato e piagato dal neoliberismo".

Per l'ex segretario di Rifondazione la nuova forza unitaria della sinistra dovrebbe lavorare alla "costruzione di un modello sociale non omologato ai dettati della globalizzazione capitalistica, delle politiche neo-liberiste. E anche un nuovo compromesso sociale in cui i protagonisti del conflitto del lavoro, i protagonisti del conflitto ambientalista, del conflitto pacifista e quello di genere ed altri ancora, si riconnettono nella loro autonomia, nel rapporto con un soggetto politico che li sceglie come interlocutori privilegiati per realizzare questo compromesso".

giovedì 2 agosto 2007

il manifesto 2.8.07
Cina. «Letture» proibite a Pechino
di Angela Pascucci

Il Partito comunista prepara il congresso. Attaccando la «Nuova sinistra» Decapitata la rivista «Dushu», che significa «Letture». Il suo direttore, Wang Hui, è stato cacciato e il giornale va verso una normalizzazione di regime. E' una vittoria degli apparati del Pcc, che in vista del congresso, si danno battaglia. Su chi è più liberista

Wang Hui, l'autorevole intellettuale conosciuto anche in Italia come il rappresentante di punta della cosiddetta «Nuova Sinistra» cinese, è stato bruscamente costretto a lasciare la direzione della rivista Dushu, che dal 1996 dirigeva insieme a Huang Ping, obbligato anche lui a dimettersi. Poco chiare le ragioni del provvedimento, che hanno tutta l'aria di un pretesto. Un fulmine nel cielo politico cinese che si va vieppiù rannuvolando, in vista del Congresso del Pc, previsto per l'inizio di ottobre e considerato cruciale per il consistente cambio di nomenklatura in programma. L'attuale leadership dovrà infatti consolidarsi e stabilire la propria successione. Quasi di prammatica, in tempi simili, l'inasprimento dello scontro dentro un partito che deve tenere insieme anime e interessi in divergenza accelerata, inevitabilmente rispecchiando le spaccature sociali sempre più profonde e la problematicità di uno sviluppo che si rivela insostenibile. La «decapitazione» arriva peraltro nel momento in cui le cronache sono piene di operai-schiavi liberati, di nuove leggi sul lavoro, di maggiore attenzione ai problemi sociali ai migranti e ai contadini. A conferma dell'antico detto cinese «fare rumore a ovest, per colpire a est».
La questione Pcc costituisce uno sfondo imprescindibile, per chi osserva da fuori. Ma non è mai apertamente richiamata nell'acceso dibattito suscitato dall'improvviso licenziamento di Wang Hui e del suo collega dalla guida di una rivista che negli ultimi dieci anni è stata punto di riferimento per un dibattito che ha coinvolto le migliori intelligenze del paese, e suscitato critiche e risentimenti.
Un giornale pericoloso
Vediamo i fatti, ricostruiti sulla base di articoli, interviste e interventi finora circolati solo in Cina soprattutto su Internet (in particolare sul sito di Utopia, www.wyxsx.com) che ancora una volta si è rivelata cruciale per la diffusione di informazioni. Poco o nulla è infatti comparso sulla stampa. Agli organi di stampa ufficiali di Pechino è stato imposto di non riportare nulla sulla vicenda e solo alcuni quotidiani e riviste della Cina meridionale seguono gli eventi, schierandosi.
Se il giubilamento della direzione di Dushu è stato brusco, non è stato tuttavia una sorpresa per i due diretti interessati. La casa editrice della rivista è la società Sanlian Shudian, controllata dalla Chinese Publishing Corporation, costituita alla fine degli anni '90 a termini di Wto come compagnia non statale, anche se risponde gerarchicamente al Ministero della Propaganda del Pcc - Partito comunista che in questo caso ha assunto ufficialmente la veste di organizzazione non governativa (misteri cinesi). Da qualche tempo la direzione editoriale della Sanlian Press era cambiata, e con essa l'atteggiamento verso Dushu, divenuto ostile, se non censorio. Wang Hui e Huang Ping avevano capito di dover preparare le valigie, ma speravano di poter almeno guidare la transizione così che 10 anni di lavoro non venisse distrutto. Non sono riusciti mai neppure a parlarne.
A metà giugno la situazione è precipitata. Da un articolo di giornale, il 21 giugno, i due direttori vengono a sapere che stanno per essere licenziati a causa del calo di vendite della rivista. Pochi giorni dopo, il 26 giugno, da un incontro coi vertici della casa editrice, Wang Hui e Huang Ping apprendono che il cambiamento è voluto dalla Chinese Publishing Corporation che vuole centralizzare la supervisione di Dushu e ha stabilito che gli incarichi dei due direttori, uno professore alla Tsinghua University, l'altro all'Accademia sociale delle scienze, sono incompatibili con la direzione della rivista. Nessun cenno al calo di vendite. I due direttori chiedono un po' di tempo per il passaggio delle consegne. Quello stesso giorno il Giornale della gioventù di Pechino pubblica una intervista a Wang Hui nella quale il professore si difende e fa presente che dal suo insediamento, nel 1996, a oggi, le vendite hanno sempre oscillato tra le 90mila e le 120mila copie, un record nella storia della rivista, (nata nel '79 come pubblicazione di recensioni librarie da cui il suo nome che significa «letture»). Nell'occasione, Wang Hui respinge anche le accuse rivolte, peraltro mai ufficialmente, all'orientamento di Dushu, considerato troppo di sinistra, e al suo stile di scrittura che per i critici sarebbe noioso e difficile. Sul primo punto Wang Hui rivendica e difende gli orientamenti della direzione, ma ricorda di aver aperto la rivista a un grande dibattito, anche internazionale, su questioni forti, sensibili, in Cina come nel mondo. Derrida, Habermas, Anderson, Eco, Jameson e molti altri ancora hanno contribuito alle sue pagine che hanno ospitato anche voci cinesi molto critiche. Quanto alla seconda accusa viene rintuzzata argomentando che la qualità dei dibattiti intellettuali non può essere valutata su standard consumistici e facendo notare che «non ci si dovrebbe aspettare di essere 'intrattenuti' da un articolo sulla difficile situazione dei contadini cinesi».
La difesa non piace. Il 7 luglio i vertici della Sanlian comunicano che la decisione di sostituire i due direttori ha effetto immediato. Il 10 luglio è annunciato alla redazione l'insediamento dei nuovi direttori uno dei quali è anche un manager della Sanlian. L'incontro viene disertato dalla maggior parte di coloro che avrebbero dovuto partecipare.
Dai fatti si evince che Dushu era diventata scomoda e che con puri pretesti si è posta fine a un'esperienza straordinaria, in senso letterale, per la Cina. L'autodifesa di Wang Hui, ricostruibile dalle interviste attraverso le quali ultimamente ha cercato di vendere cara la pelle, la restituisce in tutto il suo spessore intellettuale mentre elenca le vere ragioni che hanno portato al suo licenziamento: l'accresciuto controllo del sistema burocratico sullo spazio pubblico in risposta ai conflitti crescenti, l'azione di particolari forze sociali e gruppi di interesse, con i loro rappresentanti nel mondo culturale, volta a eliminare ogni voce critica dell'attuale andazzo, l'ignoranza e l'ideologia di mass media asserviti.
Censura neo-liberal
Appare chiaro è che quanto accaduto a Dushu costituisce una vittoria per i neo-liberal cinesi che giorno dopo giorno occupano posizioni sempre più elevate nella gestione dell'economia e della politica, i cui intrecci sono ormai strettissimi. Una élite che ha un ruolo dominante anche nei mezzi di informazione incaricati di trasmettere i suoi mantra: il mercato è una forza naturale, il capitalismo è il progresso e i mali cinesi (corruzione, turbolenze sociali, inquinamento) derivano dal non averne abbastanza, la polarizzazione fra ricchi e poveri è male inevitabile.
Discorsi che suonano familiari alle nostre orecchie occidentali: in questo senso l'esperienza particolare della rivista ci riguarda facendo emrgere la Cina, ancora una volta, come un paese allegorico che parla a tutti.
Due erano i piani sui quali la direzione ha condotto Dushu dal 1996: la messa a fuoco dei problemi reali e delle questioni politiche da essi poste, e l'apertura di un dibattito pubblico su quanto andava emergendo. Un'azione cruciale, soprattutto negli anni '90 quando i rapidi cambiamenti avevano rese obsolete categorie come stato, partito, mercato, società e non si avevano a disposizione nuovi concetti e teorie per analizzarli. Ma quel che più importa, ricorda Wang Hui, era «la nuova direzione verso cui puntavamo mentre cominciavamo a esplorare il percorso di sviluppo unico che la Cina avrebbe dovuto seguire». Riflessioni che, sottolinea, mai sono avvenute in Russia e nell'Europa dell'est, squassate dal terremoto dell'89. Così facendo Dushu si è attirata molte critiche feroci perché ha sollevato temi come la gravità della situazione sanitaria e della condizione contadina o la questione della protezione ambientale, o la corruzione nel processo di privatizzazione delle imprese di stato, quando erano argomenti tabù perché disturbavano il manovratore. Tutti nodi di cui il governo ha dovuto infine prendere atto per correre ai ripari. Merito questo non tanto della rivista ma del dibattito suscitato che era, in se stesso, sottolinea Wang Hui, un frutto dei cambiamenti sociali in corso. Un esempio fra tutti: nel 1999 Dushu apre un grande confronto sulla condizione drammatica dei contadini quando ancora il governo sosteneva che il mondo rurale cinese non fosse in crisi. Dopo quel dibattito, Pechino cambiò politica tanto che si cominciò a parlare dell'influenza inedita esercitata dalla Nuova Sinistra. Da notare che a dare avvio al confronto sui contadini fu uno dei maggiori esperti cinesi di politica agraria, il professor Wen Tiejun (una sua intervista è stata pubblicata dal manifesto il 24/12/2006), del quale giunge voce che sia anch'egli in gravi difficoltà politiche.
La possibilità di confronto pubblico è l'aspetto che oggi sta a più a cuore a Wang Hui perché, dice, «costituisce un importante elemento di democrazia. Perciò spero di poterne espandere lo spazio, non diminuirlo».
Inevitabile che una simile impostazione, volta a restituire alla politica il senso e la sostanza che la rendono tale, andasse in rotta di collisione con una tendenza a ridurre tutto a regolamenti burocratici o a leggi «naturali» del mercato che espelle la discussione e tutto de-politicizza. In una crisi delle ragioni della politica e dei metodi della democrazia che è ormai anche il nostro indigesto pane quotidiano. Una stretta anti pensiero che, foriera di tempi amari per i nostri destini occidentali, in Cina impedirà il cambiamento di un corso disastroso, che potrà essere mantenuto solo con repressione e controllo poliziesco. Quale che sia la fazione «vincitrice» al prossimo Congresso.
Ma si può essere certi che Wang Hui non smetterà di combattere, anche se la sua ultima battaglia a Dushu è ormai persa.

mercoledì 1 agosto 2007

Repubblica 1.8.07
Il giornale partito di Luigi Albertini
di Eugenio Scalfari

A proposito dell´intervento di Galli della Loggia sul "Corriere" di Albertini
Ma si sorvola sulla politica interventista e sul consistente sostegno a Mussolini

Mi ha favorevolmente colpito l´articolo di Galli della Loggia pubblicato sul Corriere della Sera del 29 luglio con il titolo: «Einaudi, Albertini e gli inviti al silenzio». Ma mi ha anche alquanto stupito. Da molti anni infatti, direi da quando Repubblica iniziò le pubblicazioni e poi in breve tempo raggiunse il Corriere e spesso lo ha superato e lo supera per diffusione e numero di lettori, è stata lanciata polemicamente verso di noi l´accusa di essere un giornale-partito cui il Corriere contrapponeva il proprio modello «albertiniano» mutuato dalla stampa anglosassone, di un giornale al di sopra delle parti che di volta in volta emette i suoi giudizi di approvazione o disapprovazione per l´una o l´altra delle parti in causa, come Minosse che giudica e manda le anime dell´inferno dantesco attorcigliando la sua lunga coda tante volte per indicare in quale girone l´anima del peccatore dovrà scontare la sua pena. Insomma due modi molto difformi di praticare la stessa professione. Ma Galli della Loggia, che al Corriere non è l´ultimo venuto e nell´articolo in questione risponde a Piero Fassino sulla funzione del giornalismo e quindi scrive a nome e per conto della testata, ci dice invece che proprio il Corriere di Albertini fu un giornale-partito, che intervenne direttamente e incisivamente nella politica nazionale, facendosi portavoce degli ideali e degli interessi della borghesia lombarda e creando in questo modo un grande giornale d´informazione e di orientamento nell´opinione pubblica.
Mi rallegro che finalmente sia riconosciuta e storicamente certificata una realtà che per quanto mi riguarda ho avuto sempre chiara davanti agli occhi. Tanto più chiara in quanto tra il prototipo albertiniano e quello di Repubblica ci furono altre importanti coincidenze strutturali, a cominciare dal fatto che Albertini (come alla Stampa in quegli stessi anni Alfredo Frassati e come è accaduto anche a me) fu al tempo stesso direttore e comproprietario del giornale.
Una circostanza decisiva per fondare (o rifondare come avvenne per Albertini e Frassati) un giornale e farne il punto di riferimento d´una struttura della pubblica opinione con i suoi valori e i suoi legittimi interessi. La favola della neutralità della stampa anglosassone è sempre stata - a mio avviso - appunto una favola. Il solo vero modo di rispettare i lettori, secondo una regola che ho sempre cercato di praticare, è quello di presentarsi per ciò che si è e di stare ai fatti con la maggiore oggettività possibile. Ciò che si è, la struttura d´opinione che il giornale rappresenta, dalla quale prende vigore e spinta e con la quale interagisce quotidianamente. Senza camuffarsi da ciò che non si è, cioè da testimone imparziale, privo di passioni, di convinzioni e di ispirazioni profonde, culturali economiche e politiche.
Questo fu con lucida tempra Luigi Albertini. Questo fu Alfredo Frassati. Questi furono il Corriere della Sera e la Stampa da loro costruiti. E questa, in tempi e modi diversi, è stata ed è Repubblica.
Mi auguro che una volta per tutte la diatriba sul giornale-partito e il giornale-giornale sia chiusa. Un grande giornale è le due cose insieme. Il risultato dipende dalla misura e dall´onestà dell´intento.

***
L´articolo di della Loggia non si limita però al "format" che Albertini dette al Corriere nei venticinque anni della sua guida di editore-direttore. Passa dalla forma al contenuto, dall´impegno politico e civile agli obiettivi di quell´impegno e racconta quella complessa esperienza del giornale-partito albertiniano partendo da una constatazione storicamente inoppugnabile: il Corriere del primo quarto del Novecento fu la voce della borghesia lombarda, in particolare di quella manifatturiera e in modo ancor più specifico di quella tessile e meccanica, setaiola e cotoniera. E ovviamente del mondo sempre più articolato che ad essa faceva da corona, avvocati, medici, tecnici, inventori, pubbliche utilità e quindi trasporti, la nascente industria elettrica e naturalmente le banche. Le banche che manovravano i rubinetti del credito e finanziavano investimenti e speculazioni.
Il Corriere fu la voce di questi interessi e delle visioni politiche che ne scaturivano: il liberismo, il mercato, il profitto, l´efficienza dei servizi pubblici (ma meglio ancora se gestiti dai privati) e in genere la legge e l´ordine, da applicare in modo speciale nelle vertenze sindacali.
Scrive della Loggia che il Corriere di Albertini fu il giornale antigiolittiano per eccellenza (in opposizione alla Stampa che si schierò in quel quarto di secolo per Giolitti senza se e senza ma, come oggi si direbbe).
Fu esattamente così. Antigiolittiano e sostenitore tenace di Sonnino e di Salandra, un mediocre politico pugliese fortemente conservatore con robuste venature reazionarie. In un solo caso Albertini appoggiò Giolitti e fu nella guerra di Libia contro la Turchia. Perché - anche se della Loggia sorvola su questo punto - Albertini fu un convinto interventista. Non solo nel 1911 ma soprattutto nel 1914 allo scoppio della Prima guerra mondiale. Mentre Giolitti era neutralista, il Corriere gettò tutto il suo peso mediatico in favore dell´intervento a fianco di Francia, Inghilterra e Russia contro gli Imperi centrali. Si trovò accanto i nazionalisti, gli interventisti in genere e soprattutto lanciò Gabriele D´Annunzio in piena trasformazione da poeta a vate.
Le Canzoni d´Oltremare dannunziane avevano già accompagnato la "gesta" libica dalla terza pagina del Corriere, ma poi l´oratoria del vate esplose sulle pagine politiche, culminando nei giorni del maggio 1915 e nel discorso che D´Annunzio pronunciò a Quarto nell´anniversario della partenza dei "Mille" garibaldini alla liberazione-conquista della Sicilia e del Regno Borbonico.
La borghesia padana era tutta per la guerra. Si trattava di completare la conquista dei "sacri" confini della patria. Ma anche di equipaggiare un esercito di sei milioni di soldati: panni per le uniformi, coperte, scarpe, elmetti, ma anche cannoni, esplosivi, corazze per la Marina militare, attendamenti, automezzi d´ogni genere e tipo. E salmerie, viveri, generi di conforto.
La guerra costò all´Italia, ai suoi contadini e ai figli della piccola borghesia quattro anni nel fango e nel lordume delle trincee, seicentomila morti e oltre un milione di feriti, ma fu anche un grandissimo affare per l´industria leggera, per quella pesante e per le banche che le finanziavano.
Luigi Einaudi scrisse nell´immediato dopoguerra uno dei suoi libri più belli e coraggiosi, intitolato Le conseguenze economiche della guerra. Ma in quegli anni il giornale-partito albertiniano fu interamente mirato a sostenere lo spirito delle truppe e della popolazione civile che dalle città faceva pubblica opinione. Funzione sacrosanta, alla quale nulla fu risparmiato. Qualche volta tacque e si può capire. Delle esecuzioni sommarie che la polizia militare (i carabinieri) inflissero ai soldati in rotta a Caporetto non si trova traccia nei giornali dell´epoca e meno che mai sul Corriere. Anche allora l´empito maggiore fu dato da D´Annunzio, trasformatosi in «agit-prop» dello Stato Maggiore. E via con la beffa di Buccari, via col volo su Vienna. Via soprattutto con il sostegno incondizionato che il giornale di via Solferino dette all´impresa di Fiume.
Bisogna fermarsi un momento a riflettere su Fiume, anzi sulla marcia di Ronchi. Fu un atto gravissimo di sedizione che pose le basi per la marcia su Roma di tre anni dopo. Un atto contro il trattato di pace da noi firmato, contro il governo italiano, contro le truppe italiane che presidiavano insieme agli alleati Fiume e l´Istria. Conosco bene quella fase della storia nazionale anche perché mio padre fu uno dei giovani ufficiali che seguì il "Comandante" in quella sciagurata impresa. E me ne spiegò più volte le motivazioni che l´avevano mosso: la vittoria tradita, il governo imbelle, il Parlamento incapace di manifestare una qualsiasi volontà, la politica in mano a omuncoli rammolliti e corrotti. Un pilota coraggioso lanciò in quei giorni dal suo aereo un pitale su Montecitorio.
Questo fu Fiume. E il Corriere fece la sua parte intervenendo anche in quel caso. Così come fu interventista nel ‘21 quando spinse in tutti i modi Giolitti a far sgombrare dall´esercito la Fiat, allora occupata dagli operai. Giolitti per fortuna seguì la via opposta della trattativa.
Galli della Loggia ricorda nel suo articolo che Albertini «dopo un iniziale appoggio al fascismo» si schierò su posizioni antifasciste che portarono poi alla sua estromissione dal Corriere. Esatto, ma la verità storica è più complessa e non è proprio quella d´un «iniziale appoggio».
Il Corriere vide nel fascismo e nelle sue squadre una risposta opportuna al sinistrismo massimalista e bolscevico che minacciava il mercato e la libera impresa. Gran parte del ceto liberale condivise questa posizione, a cominciare da Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Giustino Fortunato. Poi, pensavano quei liberali, compiuta l´opera Mussolini se ne tornerà a casa, gli si darà un lauto benservito e l´Italia liberale riprenderà la sua marcia verso il progresso.
La borghesia lombarda fu compatta nel condividere l´ "Operazione Mussolini" e i suoi portavoce lo furono altrettanto. Distacco all´inglese? Non direi proprio. Basta leggere le lettere e le telefonate che partivano da via Solferino verso la Prefettura di Milano sull´impiego della polizia e della guardia regia per reprimere le manifestazioni della sinistra; basta consultare il carteggio tra Albertini e Giovanni Amendola che fu in quel periodo suo corrispondente da Roma per rendersi conto che il pericolo era il bolscevismo e i fascisti un supporto e uno stimolo a resistere. Opinione legittima, in quel contesto. Purtroppo sbagliata su un punto essenziale dal quale ebbero inizio vent´anni di regime e quel che ne derivò. Allora, come molti anche oggi, si invocava l´uomo forte che ripulisse le stalle e recuperasse «law and order».
***
Albertini era stato nominato senatore del Regno. E già dal ‘23 capì l´errore e ne prese coraggiosamente le distanze. Pronunciò alcuni discorsi e scrisse interventi memorabili in difesa della libertà e della democrazia. Il Corriere, allora diretto da suo fratello, non fu da meno.
Ma era tardi. Il 3 gennaio del ‘25, pochi mesi dopo il delitto Matteotti, il governo impose la censura, sciolse i partiti, abolì di fatto la libertà di stampa. Il Corriere fu dato in proprietà ai consoci di Albertini, membri per l´appunto della borghesia lombarda. In quegli stessi mesi Frassati fu estromesso con analoga procedura dalla Stampa che passò in proprietà alla famiglia Agnelli.
A conclusione debbo dire che la borghesia lombarda di allora non dette uno spettacolo particolarmente edificante.
Oggi la situazione è diversa. Di borghesia vera e propria ce n´è assai poca in giro e sembra un po´ più saggia dei suoi predecessori. Ma c´è un altro tipo di sedicente borghesia con analoghe lacune culturali e ossessiva attenzione alla «roba». Inclusa l´invocazione dell´uomo forte, fosse pure il recupero di quello che abbiamo visto alla prova nell´ultimo quinquennio, che poi si scoprì che non era forte affatto se non quando si trattava dei fatti propri.

Repubblica 1.8.07
Perché non possiamo non dirci pagani
I greci e l'uguaglianza di fronte alla legge
di Lucio Villari

Ripubblicata l'opera di Santo Mazzarino: l'antichista vedeva in Sparta e Atene e nella loro religione il fondamento della nostra civiltà
Da Epicuro a Seneca l'arte di credere in se stessi e l'idea di giustizia
Qui l'etica laica, in Oriente un fanatismo che è il simbolo della vita nazionale stessa

Una lieve ansia di rientrare in se stessi, il desiderio di qualche terapia intellettuale e di idee chiare e disarmate di cui si percepisce l´assenza, forse sono questi stati interni a far parlare di religioni e di religiosità e a far sospettare più che l´inquietudine di chi cerca una fede, la stanchezza e la noia del vuoto. Una medicina per questi sentimenti potrebbe essere, ad esempio, un richiamo al perché non possiamo non dirci pagani, al lascito eterno della cultura classica, della storia del mondo antico e persino dell´universo degli «dei falsi e bugiardi». Anche se quest´ultimi non pare fossero veramente tali. «Gli dei non sono dotati di nessuna trascendenza; - diceva Marc Augé nel 2005 a un convegno a Rimini sul mondo antico, sul tema Antico/Presente - appartengono allo stesso mondo degli uomini e rivestono essenzialmente un ruolo simbolico in senso letterale: mettono in relazione gli uomini tra loro. La "fede" negli dei passa attraverso l´accettazione del vivere quotidiano». Era in sostanza un rifarsi alla «concretezza storica» della mitologia di cui parlava Kàroly Kerényi nel l955 a proposito dei greci. Tesi ribadita l´anno dopo dal filologo e storico Walter Friedrich Otto nel saggio Il mito originario alla luce della simpatia di uomo e mondo. Ed era anche dalla differenza e opposizione tra la religiosità greca e quella orientale che si doveva partire per avvertire la contiguità della religione greca con il nostro Occidente, il solo spazio, aveva scritto Santo Mazzarino nel l947, «dove vibra l´anima della storia greca».
Un´anima che va percepita per contrasto con l´Oriente «e proprio per rivelare la sua originalità e fisionomia caratteristica».
Anche attraverso questa immagine umano-divina della religione greca (e romana) riemerge l´esigenza antica di razionalità di cui Marco Aurelio in uno dei «Pensieri» vede privi i cristiani, portatori di un culto orientale. E´ questa la Grecia che «entra» a Roma nella transizione tra repubblica e impero e, pur confrontandosi con tempi politici e sociali disumani e violenti, ha introdotto la limpida filosofia dello stoicismo.
Era un pagano pragmatismo morale che, da Epicuro a Seneca a Epitteto a Marco Aurelio, ha insegnato l´arte del credere in se stessi e l´idea di giustizia come fondamento della società civile.
La Stoà fu anche un movimento spirituale e filosofico, una etica laica che il monoteismo cristiano ha poi in parte inglobato nella sua dottrina e in parte sopraffatto innestandovi sentimenti e comportamenti sconosciuti agli antichi, come il timore verso un misterioso trascendente (gli dei sono invece umani, quindi non misteriosi) e la convinzione, come sosteneva Paolo di Tarso nella Lettera ai Corinzi, che «la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio».
Comunque la Stoà - ha scritto nel 1943 uno dei suoi maggiori studiosi, Max Pohlenz - «ha dato per mezzo millennio a innumerevoli uomini una base morale e la pace interiore». Il suo più agguerrito avversario, Agostino - lo ha ricordato Italo Sciuto ne L´etica del Medioevo (Einaudi, 2007) - rimproverava ai filosofi pagani, di cui però sentiva il fascino, di avere sì pensato ad una società giusta, ma di non averla saputa realizzare.
In realtà l´idea di giustizia, anche se la sua origine politica era greca, fu, accomunata dai cristiani al rifiuto della schiavitù, fu l´insidia più pericolosa il tarlo che indebolì mortalmente Roma.
Chi riconosce però nella filosofia pagana una delle premesse del pensiero moderno - dall´Umanesimo a Erasmo, Spinoza, Kant, l´Illuminismo - sa che questa pace interiore, il tecum fugis di Seneca, la moralità dell´esistenza, suggerite più che predicate o imposte, erano fondate sul piacere del vivere e sul vivere conoscendo; sentimenti che potevano essere sconvolti da eventi esterni (alcuni stoici erano attraversati da queste inquietudini preferendo alla violenza psicologica o politica un calmo suicidio) e quindi delicati, inermi. Un piacere fondato sul principio del «conservare il proprio essere», come dirà Spinoza, di «individuazione» dell´individuo, che in traduzione attuale potrebbe essere il principio della salvaguardia della «persona».
Era attenzione filosofica verso l´anima umana, anzi, la «therapia animae», di Panezio di Rodi, il filosofo greco che più influenzò gli stoici romani, a cominciare da Cicerone, sul problema dell´etica che aveva il segno aurorale della libertà dell´uomo.
Forse questa lezione l´avrebbe oggi ripensata un conoscitore della classicità come Santo Mazzarino, ma venti anni or sono, nel l987, la sua scomparsa ha privato la cultura italiana di una intelligenza straordinaria e di un indagatore dell´«Antico/Presente» che manifestava con franchezza anche la propria passione politica, sia nel giudizio storico preciso e filologicamente implacabile sulla classicità, sia nella interpretazione della classicità nella storia contemporanea del mondo occidentale.
Sono stato suo allievo nell´Università di Messina (insegnavano con lui Giacomo Debenedetti, Galvano della Volpe, Ruggero Moscati, Lucio Gambi, Giorgio Petrocchi, Rosario Romeo) e posso testimoniare che gli altri storici moderni (ma lo stesso succederà quando Mazzarino si trasferì all´Università di Roma) non si ponevano, né risolvevano, i problemi complessi della storia del Novecento come invece Mazzarino faceva spesso, con la naturalezza dello storico totale e il gusto di occuparsi di cose diverse. I problemi novecenteschi che lo incuriosivano - ne discuteva spesso con alcuni allievi in privati conversari - avevano una dimensione europea, occidentale ed erano di una «qualità» diversa dalle pur fondamentali questioni della prima guerra mondiale, del fascismo, del comunismo, del nazismo, con relative guerre e damnatio memoriae. Una storia politica e soprattutto sociale che Mazzarino invece sentiva intensamente e «vedeva» - scoprendo personaggi e eventi fondamentali che allora parevano sfuggire alla storiografia italiana corrente - dall´interno, con lo spirito critico con in quale investigava l´interno della classicità. In fondo applicava al tempo presente la «istorin» greca, cioè la «problematica illustrazione del fatto che si indaga» più che «raccontarne una serie», cioè «la narrazione continuata che è propria degli Orientali».
Quando, nel l959, apparve La fine del mondo antico, nella breve Premessa c´era l´indicazione del metodo: «Credo che il tema della "morte di Roma" presenti un particolare interesse: sentiamo così il bisogno di percorrere il cammino delle idee di "decadenza" e "fine" del mondo antico, come di chiederci ancora, per nostro conto, quale spiegazione di quella "fine" appaia, all´uomo di oggi, necessaria e sufficiente. Ma, proprio per questo, un "dialogo" siffatto è in realtà inesauribile...». Il dialogo, dunque tra antico e presente, parafrasi del dialogo fra Oriente e Occidente (dialogo e insieme distinzione) al quale nel l947 Mazzarino dedicò una ricerca fondamentale: Fra Oriente e Occidente. Ricerche di storia greca arcaica. Sessanta anni dopo l´opera è stata ripubblicata da Bollati Boringhieri (una edizione Rizzoli risale al l989) e ha una introduzione di Filippo Cassola e in appendice la recensione critica che del libro fece nel `47 Arnaldo Momigliano e la puntuale replica di Mazzarino al quale in realtà le polemiche accademiche non interessavano affatto, e che quindi non volle allora pubblicare. Con questo libro Mazzarino toccava infatti i nervi scoperti di alcuni storici della classicità e contestava nettamente l´opinione, di cui era portatore Momigliano, che il tema Oriente-Occidente fosse ormai storiograficamente risolto e che si trattasse di un «problema fantasma». Mazzarino sosteneva al contrario che «chi studia storia arcaica ha il compito di rievocare Oriente e Grecia e studiare in che modo "il tempo della storia orientale" si sia poi risolto nel "tempo della storia greca"».
Dalla ricchezza e pluralità della ricerca di Mazzarino credo sia possibile qui riproporre soltanto qualche spunto. Muovendo dalla Grecia arcaica, come dice il titolo dell´opera, Mazzarino voleva stabilire, sulla base di innumerevoli fonti poetiche, letterarie, politiche, linguistiche, archeologiche i confini dell´«Asia», il cui nome rinvia allo stato di Asswa in Lidia, e i confini della Grecia «barbarizzata», cioè incrociata dagli «stranieri», per identificare sia le relazioni e contaminazioni tra i popoli e gli Stati dell´Asia minore e la Grecia arcaica, sia il processo di distinzione tra i due mondi, appunto tra Oriente e Occidente. Alla fine la differenza è netta e non è soltanto la diversità tra la polis e il potere non democratico degli stati orientali, ma l´originalità di una via culturale e politica che Mazzarino individua nel «travaglio costituzionale» che connota la Grecia classica. Ma leggiamo questa pagina esemplare. «Il travaglio costituzionale ci è apparso come l´opera di tutti i Greci; ed è un travaglio gelosamente, diremmo, greco, senza alcun "emprunt" lidio o comunque straniero. In esso l´anima dell´Occidente si è, la prima volta, rivelata. Partendo da condizioni analoghe a quelle delle città-stato orientali, i Greci tuttavia hanno "scoperto" qualcosa che gli Orientali non sospettavano: l´esigenza isonomica. Questa fu la nascita dell´Occidente».
Isonomia è una voce della democrazia greca che significa uguaglianza di fronte alla legge. La rivoluzione francese l´ha consacrata per sempre fondando l´Occidente moderno. A Mazzarino questo era chiaro con in più la convinzione «illuministica» che un altra differenza c´era nel fatto che «mancava ai Greci quel fanatismo religioso che per gli Orientali è simbolo della vita stessa nazionale». Ma c´è un punto sul quale credo si debba riflettere che capire le dimensioni di questo storico straordinario. Mazzarino parlava di «travaglio costituzionale» della Grecia proprio nell´anno, il l947, nel quale l´Italia stava elaborando una nuova Costituzione. Mazzarino scriveva il suo libro seguendo i lavori dell´Assemblea Costituente, cioè il travaglio costituzionale di un paese che, come la Grecia classica, scopriva i valori della democrazia. A mio parere il rapporto cui egli era, come si è detto, particolarmente sensibile tra mondo contemporaneo e mondo classico, emerge qui con una grande forza ideale e morale. Solo questa sensibilità storica e politica può separare, senza contrapporli, l´Oriente e l´Occidente. Mazzarino ha spiegato, con molto stile, il senso di questa separazione - dialogo parlando di un tempo nel quale «si formò una cultura che è la nostra. E che, grosso modo, si può dire greca per la politica e orientale per la religione. Ma la stessa unità di questa nostra cultura è prova, dunque, che nell´anima occidentale (nell´anima greca, cioè) non c´era chiusa avversione all´Oriente, ma aperta ansia di comprensione e di assimilazione».
Varie volte torna la parola anima nella razionale scrittura di Mazzarino; forse era un segreto richiamo anche allo stoicismo e a pagani pensieri e sentimenti di un Occidente libero e aperto a tutti.