mercoledì 22 agosto 2007

il manifesto 22.8.07
Ospedali psichiatrici giudiziari Dove la «pena» si chiama «misura di sicurezza», e non ha limite massimo
Un po' manicomi, un po' carceri
di Maria Grazia Giannichedda

Gli «ospedali psichiatrici giudiziari», che hanno sostituito i vecchi manicomi criminali, potrebbero in molti casi essere sostituiti dall'affidamento ai servizi di salute mentale e altre misure alternative. Ma i servizi mancano, e l'inerzia è forte. Così restano sovrappopolati Rinchiudere è più facile che curare Una buona metà degli internati negli Opg ha commesso reati minori, ma spesso la «misura di sicurezza» si prolunga molto più della carcerazione corrispondente. Essere dichiarati «non imputabili»

In fila alla biglietteria della stazione Termini, Antonietta Bernardini, quarantenne, diversi ricoveri in ospedale psichiatrico alle spalle, litiga con un'anziana signora e schiaffeggia un giovane che si era intromesso e che è un carabiniere in borghese. Antonietta è arrestata, fa pochi giorni di carcere e di ospedale psichiatrico e viene mandata al manicomio giudiziario di Pozzuoli in osservazione. Vi resterà 14 mesi in attesa di processo, spesso legata al letto. Era legata da quattro giorni quando il materasso prese fuoco, per un incidente o per un gesto estremo di protesta.
Antonietta Bernardini morì il 31 dicembre 1974 per le ustioni riportate; direttore e sorveglianti furono condannati in primo grado ma poi assolti, la sezione femminile di Pozzuoli fu chiusa, il ministro di grazia e giustizia dichiarò che il governo si sarebbe impegnato per una chiusura rapida dei manicomi giudiziari, che da allora presero la denominazione attuale di ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). Le indagini scoperchiarono però anche un'altra realtà: quella di uomini della camorra per i quali il meccanismo che aveva distrutto Antonietta Bernardini si convertiva in privilegio, attraverso perizie psichiatriche che assicuravano soggiorni privilegiati in Opg. Domenico Ragozzino e Guglielmo Rosapepe, direttori degli Opg di Aversa e Napoli, condannati in primo grado ma poi assolti, si suicidarono.
Tre anni dopo questi fatti fu approvata la «legge 180», a torto accusata di aver dimenticato gli Opg, che sono un problema non di legislazione sanitaria ma di diritto penale e penitenziario.

Carcere e manicomio insieme
Il codice penale disciplina infatti le condizioni e le conseguenze della «non imputabilità», totale o parziale, «per vizio di mente». Gli Opg dipendono dal Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap) ma l'internamento in questi istituti non è una pena ma una «misura di sicurezza», della quale è definito il tempo minimo (2, 5 e 10 anni in relazione al reato) ma non quello massimo. In sostanza: nell'Opg i caratteri del carcere si sommano a quelli del manicomio.
Questa cornice normativa è rimasta immutata, e anche strutture e risorse sono rimaste in gran parte le stesse di trent'anni fa. Ci sono stati però dei mutamenti molto rilevanti nella normativa che riguarda l'invio e la permanenza in Opg. La Corte Costituzionale infatti, attraverso una ventina di sentenze emesse in gran parte dopo la «legge 180», ha cancellato alcuni degli automatismi più aberranti delle vecchie norme o ne ha indotto la modifica.
Così, pur senza una ridefinizione organica della cornice normativa, si è messo in moto un processo di riforma che ha toccato i canali di ingresso agli Opg e i meccanismi di uscita. Questo, insieme alla 180 e alle norme sul passaggio della sanità penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale (articolo 5 della legge delega 30/11/1998 e decreto delegato 22/6/1999, n. 230), ha creato da tempo le condizioni per ridurre fortemente sia il numero degli internati che i nuovi ingressi.
Il punto è che le possibilità offerte dalle nuove norme in gran parte non vengono colte, né dai servizi di salute mentale né dai giudici e dai magistrati di sorveglianza. Così le ricadute del processo di riforma avvenuto in questi anni restano labili, insufficienti. Pochi casi e luoghi dimostrano come già oggi si possa fare a meno dell'Opg o ridurre fortemente l'uso e la durata di questa misura, ma per lo più prevale un inerziale ripetersi dei vecchi e non più obbligati automatismi.
Questo è il problema chiave su cui puntare l'attenzione: senza smettere di indignarsi per la contenzione degli internati, per il degrado delle strutture e la povertà dei mezzi, ma evitando di imputare interamente agli Opg le responsabilità della situazione attuale, che vanno ridistribuite sul più complesso sistema - magistratura, servizi di salute mentale, amministrazione penitenziaria - che continua ad alimentare l'Opg e le sue aberrazioni.
Un esempio. Oltre la metà degli internati hanno commesso reati minori (alterchi, minacce, danneggiamenti etc) e sono stati perciò «condannati» alle misure di durata più bassa, cioè due anni: si tratta del 49,5% delle persone riconosciute totalmente non imputabili, e del 12,4% di quelle riconosciute parzialmente imputabili. All'opposto, solo al 16,5% degli internati è stata inflitta la misura di durata più alta in quanto autori di reati gravi come l'omicidio. Dunque una metà degli internati ha commesso, in condizioni di sofferenza, reati minori che magari, senza il giudizio di non imputabilità, avrebbero prodotto una carcerazione più breve.
Prima di scandalizzarsi sull'iniquità di una tale situazione, bisogna sapere che l'internamento in Opg oggi non è più la sola conseguenza automatica per chi ha commesso un reato in condizioni di totale o parziale incapacità. La Corte Costituzionale ha infatti riconosciuto da tempo un dato importante: poiché la misura di sicurezza serve a controllare la pericolosità sociale, occorre accertare se questa pericolosità perdura dopo il reato commesso. Non è detto infatti che si mantenga immutato lo stato di alterazione mentale in cui una persona ha fatto, ad esempio, minacce gravi e tentato di metterle in atto, e non è detto che questa persona, anche se non è guarita, tenderà a ripetere quel comportamento e a essere, quindi, pericolosa. Com'è noto, il disturbo mentale si può curare ed è anche possibile modificare le condizioni di vita e il contesto in cui il fatto è avvenuto.
La Corte ha detto perciò al giudice che, quando proscioglie una persona per vizio totale o la condanna a pena diminuita per vizio parziale, deve applicare la misura di sicurezza non automaticamente ma solo se ravvisa la presenza di una pericolosità sociale (art.231 della L. 10/10/1986 successiva all' abrogazione art.204 del codice penale).
Inoltre, la misura di sicurezza deve essere eseguita solo se il magistrato di sorveglianza (come dice l'art. 679 del codice di procedure penale) accerta che la pericolosità sociale della persona perdura nel momento in cui la misura deve essere eseguita. C'è anche una sentenza costituzionale più recente (n.253 del 2003), che ha dichiarato illegittimo l'articolo 222 del codice penale «nella parte in cui non consente al giudice di adottare, in luogo del ricovero in Opg, una diversa misura di sicurezza prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell'infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale». Questa sentenza chiarisce che la misura di sicurezza può essere la libertà vigilata accompagnata dalla prescrizione di un rapporto stabile e continuativo con il servizio psichiatrico territoriale.
Una domanda a questo punto: quanta parte di quel 49,5% di internati avrebbe potuto evitare l'invio automatico in Opg se i servizi di salute mentale, i giudici e i magistrati si fossero messi a lavorare insieme, caso per caso, utilizzando, come in alcune situazioni si fa, gli spazi normativi appena citati?
Un altro esempio. Una sentenza della Corte Costituzionale che risale all'epoca della vicenda Bernardini (la n.110 del 1975) ha stabilito la possibilità di revocare la misura di sicurezza prima del tempo minimo stabilito dalla legge. Questo si è fatto e si fa, ma in casi davvero rari.

«Dimenticati» là dentro
Guardiamo infatti la tabella sul numero di proroghe: si tratta di una cifra altissima che, come tutti i direttori di Opg testimoniano, è dovuta, più che al perdurare della malattia e della pericolosità, al fatto che i servizi di salute mentale non vogliono o non possono occuparsi di queste persone. L'Opg diventa perciò, agli occhi del magistrato di sorveglianza che si limita a registrare questo dato, la sola risposta disponibile, anche se non l'unica possibile e di certo non la più adeguata.
Un questione, a questo punto, sulla politica e sulla sua capacità di produrre e governare innovazioni istituzionali orientate al rispetto dei diritti. Abbiamo avuto una riforma, la «180», criticata in quanto non graduale, «violenta», nella scelta di chiudere il manicomio. Abbiamo sotto gli occhi il processo graduale che ha riformato gli Opg. Ma in un caso e nell'altro, abbiamo una politica che poco o nulla ha fatto per promuovere il riorientamento delle istituzioni sulle nuove norme e per scoraggiare la persistenza delle vecchie attitudini e di comportamenti ai margini della legalità. Avrà ben poco esito una riforma organica degli Opg se la politica non saprà riformarsi.

Gli Opg in Italia, in cifre
I dati più aggiornati sulle presenze nei sei Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg) sono forniti dall'Associazione Antigone, che li ha visitati lo scorso maggio.
Risultavano in tutto 1.266 internati distribuiti come segue: Aversa 316 (capienza regolamentare 164), Barcellona Pozzo di Gotto 215 (capienza regolamentare 216), Castiglione dello Stiviere 225 di cui 90 donne (capienza regolamentare 193), Montelupo Fiorentino 137 (capienza regolamentare 100), Napoli Sant'Eframo 105 (capienza regolamentare 150), Reggio nell'Emilia 268 (capienza regolamentare 120).
Gli internati provenienti da paesi extracomunitari erano 116, il 9,16% del totale. Questa percentuale è molto più bassa rispetto a quella degli extracomunitari detenuti, che sono il 35,31% della popolazione reclusa, ma indica situazioni di grandissima sofferenza anche per la carenza, in queste strutture, di mediatori culturali.
Le tabelle qui accanto si riferiscono invece alla situazione degli Opg nel 2004 e sono tratte dal rapporto del Gruppo di lavoro Interministeriale «Giustizia e Salute» diffuso nel novembre 2006. Il numero complessivo di internati nel 2004 era 1057.

Liberazione 22.8.07
La Chiesa spinge l'acceleratore della divisione tra credenti e non
Sull'aborto la Chiesa scomunica Amnesty
E' "grazie a Dio" che si nasce da uno stupro
di Rina Gagliardi

Dal Meeting di Rimini, il Segretario di Stato Vaticano, Bertone, condanna l'associazione per aver inserito tra i diritti umani l'aborto in caso di stupro
«Non si può aggiungere a omicidi altri omicidi». Le donne si accontentino della pietà.

Aveva cominciato Avvenire , qualche giorno fa, con un titolo di prima pagina inequivoco: "Amnesty deraglia" e un duro commento di Eugenia Roccella, portavoce del Family Day. Poi, la conferma ufficiale, ufficialissima, del cardinale Tarcisio Bertone, l'attuale segretario di Stato del Vaticano: parlando in margine al meeting di Rimini (l'evento più terrestre e meno spirituale che ci sia, tra sponsorizzazioni e spazio mediatico), l'alto prelato ha sparato a zero su Amnesty International per la sua recente scelta di inserire l'aborto, in caso di stupro, tra i diritti umani fondamentali. «Bisogna salvare la vita anche se e è frutto di violenza», ha detto Bertone. «Non si può aggiungere a omicidi altri omicidi, l'uccisione di altre persone. Anche se sono persone in fieri, sono persone, soggetti umani». Una condanna netta, senz'appelli, alla posizione di Amnesty. Una frattura che, ora, non potrà non ripercuotersi all'interno dell'associazione, nella quale militano molti cattolici. Un ulteriore avvertimento, forse, al mondo cattolico e alle sue eventuali tentazioni "disobbedienti".
Ma che cosa mai è successo per giustificare l'apertura di un conflitto così aspro? Tra l'11 e il 18 di agosto, si è tenuta in Messico la conferenza internazionale di Amnesty, quattrocento delegati in rappresentanza di almeno un milione di aderenti in tutto il mondo. Nel documento conclusivo, su spinta dell'associazione messicana, è stato inserito - per la prima volta - il diritto di abortire per le donne che siano state stuprate, come "diritto umano fondamentale". Non, quindi, una scelta generalizzata di libertà d'aborto, e nemmeno una svolta laica, ma la proposta di depenalizzare la pratica abortiva (che in molti Paesi è tout court reato) almeno nei casi in cui la donna, spesso la ragazzina o l'adolescente, è oggetto di violenza. «Il nostro obiettivo è dare una risposta alla dilagante violenza sessuale contro donne e ragazze, spesso anche bambine. Colmando la lacuna lasciata dagli Stati, completamente incapaci di prevenire tale violenza», ha spiegato al Corriere Liliana Velasquez. Ma è proprio contro questa posizione, estremamente meditata e di buon senso civile, che si sono scagliate le alte gerarchie vaticane. Sembra incredibile, ma per il cardinal Bertone il "diritto alla vita" è così assoluto e indifferente a se stesso, così profondamente punitivo nei confronti delle donne, che non fa differenza alcuna che esso nasca da un atto d'amore o da una violenza efferata - da una volontà o da uno stato di totale coercizione.
Uno scatto fondamentalista - di un fondamentalismo che ignora, consapevolmente, perfino ogni moto di pietà per le persone e la loro dignità. Ma un fondamentalismo che, forse, è anche la spia di una difficoltà crescente, per la Chiesa cattolica, di ricondurre attorno alla sua dottrina morale l'universo dei credenti.
In "Amnesty International", come è noto, la componente cattolica è forte e ben presente - come del resto lo è in tutto il movimento per la pace, il disarmo, il dialogo tra i popoli.
E ora? Ora per il mondo cattolico impegnato nel sociale - e nei diversi territori di frontiera - il pericolo è, da capo, quello di nuove, assurde divisioni ideologiche. Da questo punto di vista, l'attacco ad Amnesty International ha un significato che va al di là della vicenda concreta che l'ha generato: punta a riproporre la separazione "totale" tra cattolici e laici, tra credenti e non credenti, in termini ottocententeschi. E punta anche, per come può, a dividere i movimenti, il volontariato, la stessa società civile, su discriminanti iperideologiche, fideistiche, confessionali. Per dirla in breve: la Chiesa, ovvero le alte gerarchie ecclesiastiche, sono sempre più schierate a destra. Non è finita, nient'affatto, l'era del cardinal Ruini. Non si è esaurita la fase delle crociate ideologiche. Del resto, il cardinal Bertone - sempre al meeting di Rimini - ha offerto alla criminosa proposta di sciopero fiscale, lanciata dai leghisti, un mezzo sostegno, per quanto ambiguo e indiretto (le "leggi" che hanno da essere "giuste"). Segno che l'antica tentazione di disconoscimento dello Stato italiano, della sua sovranità, e perfino della sua autonomia, torna a riaffacciarsi al di là del Tevere.

Repubblica 22.8.07
Una ricerca del Max Planck Institute getta un nuovo ponte tra la neurologia e le teorie psicanalitiche
Il super-io esiste, così funziona l'autocontrollo

ROMA - Tra un Sigmund Freud che studiava la mente accanto a un lettino e i neurologi abituati a pensare il cervello come un organo fatto di neuroni, le distanze si riducono. A gettare un nuovo ponte fra biologia e psicanalisi è oggi la scoperta che nella corteccia cerebrale esiste un´area deputata all´autocontrollo. Anche quando il cervello ha stabilito di mettere in atto un determinato comportamento, la decisione deve superare il vaglio di questa piccola area della corteccia frontale, situata proprio al di sopra degli occhi. Anche se gli scopritori del "freno a mano" delle nostre azioni non arrivano a legare quest´area con la morale, l´attinenza con gli scritti di Freud è sorprendente: "Il Super-io impone all´Io inerme, che è in sua balìa, i più severi criteri morali" scriveva infatti il padre della psicoanalisi nei suoi appunti degli anni ‘30. Marcel Brass, il neurologo tedesco del Max Planck Institute for Brain Sciences, che è arrivato alla scoperta, pubblica oggi i suoi risultati sul Journal of Neuroscience. Ai volontari nel suo laboratorio ha chiesto in alcuni casi di premere un tasto del computer d´impeto. In altri casi di fermarsi all´ultimo momento. Nel frattempo l´apparecchio della risonanza magnetica funzionale registrava l´attività delle diverse aree del cervello.
Brass ha osservato che il meccanismo dell´autocontrollo entrava in funzione e si "accendeva" nelle immagini della risonanza magnetica ogni volta che i suoi volontari fermavano il dito all´ultimo istante. E l´imposizione dello stop era sempre successiva rispetto all´ordine di mettere in moto la mano per premere il tasto. «La capacità di riconsiderare una decisione e trattenerci dal compiere un´azione che abbiamo già deliberato e preparato è una caratteristica peculiare degli esseri umani» spiega Brass nel suo articolo.

(e.d.)


Repubblica 22.8.07
Archeologia. Emerge a Orvieto il Fanum Vltumae, una svolta per gli studi
Il grande santuario etrusco

Orvieto. Una nuova scoperta sta arricchendo le conoscenze sugli etruschi: da uno scavo in corso a Orvieto sta emergendo il Fanum Voltumnae, il santuario federale dove si riunivano i rappresentanti delle dodici città principali che formavano la lega etrusca. Un luogo di grande rilievo sia religioso che politico il cui ritrovamento porterebbe a una svolta importantissima nell´etruscologia. Il rinvenimento, in questi giorni, di due altari, uno dei quali monumentale e di fattura particolarmente raffinata, insieme a quello di frammenti ceramici che consentono di datare l´inizio della frequentazione della zona in epoca villanoviana, vale a dire nella fase iniziale della civiltà etrusca, sembrano avvalorare decisamente l´ipotesi.
I ritrovamenti si devono a Simonetta Stopponi (Università di Macerata) che sta conducendo approfondite indagini dal 2000. L´area è quella di Campo della Fiera, ai piedi della rupe di Orvieto. È grande tre ettari e ha restituito numerosi resti che documentano una continuità ininterrotta di uso sino alla peste nera del 1348. Lo scavo sta per concludersi e i risultati verranno annunciati pubblicamente i primi giorni della prossima settimana.
Nel Fanum Voltumnae i rappresentanti delle principali città etrusche si ritrovavano annualmente. Ma erano previste anche assemblee straordinarie la cui convocazione poteva essere richiesta, in casi di particolare gravità, da parte di popoli alleati quali i Falisci e i Capenati. Così almeno accadde - secondo la testimonianza di Tito Livio - nel 397 a.C. quando si trattò di prendere una decisione sulla sorte di Veio, assediata dai Romani.
Le assemblee avevano un carattere politico. E a Roma si guardava ad esse con preoccupazione. Il valore politico degli incontri era ribadito dall´elezione di una sorta di primus inter pares, definito in iscrizioni latine di età imperiale come praetor Etruriae. Gli incontri avevano comunque anche un aspetto religioso: non a caso il luogo era posto sotto la protezione del dio Voltumna, una divinità assimilata a Tinia, vale a dire il Giove latino. Non mancavano neppure le manifestazioni sportive e gli spettacoli: grande scandalo suscitò la decisione del re di Veio di ritirare per protesta gli atleti e gli attori veienti dai giochi nel 404 a.C.
Tito Livio è lo storico latino che informa più dettagliatamente sul Fanum Voltumnae, ma purtroppo non fornisce indicazioni sulla sua localizzazione. A partire dal Quattrocento sono state avanzate diverse proposte per la sua identificazione. Nel Novecento ha preso quota la localizzazione a Orvieto, l´etrusca Velzna. Fra gli indizi veniva indicata una disposizione dell´imperatore Costantino - tra il 333 e il 337 d.C.- che autorizzava gli Umbri a svolgere la propria festa religiosa a Spello e non più aput Volsinios, presso Volsinii, insieme agli Etruschi. Va tenuto presente che in epoca imperiale, dopo il duro intervento effettuato da Roma nel 264 a.C., la città di Volsinii era stata saccheggiata e rifondata sulle sponde del lago di Bolsena e non si trovava quindi più sulla rupe orvietana. Ma nel testo costantiniano si dice "presso" e non "in" Volsinii.
Questo e altri elementi hanno spinto a cercare il Fanum Voltumnae tra Orvieto e Bolsena. Negli anni Trenta del secolo scorso, un erudito appassionato di archeologia, Geralberto Buccolini, avanzò l´ipotesi che il santuario fosse ai piedi della rupe orvietana, nell´area di Campo della Fiera e del Giardino della Regina. Determinanti erano per lui alcuni ritrovamenti avvenuti in quella zona negli anni Settanta e Ottanta dell´Ottocento.
Sulla scorta di queste conoscenze sono stati avviati gli scavi diretti da Simonetta Stopponi e resi possibili dal sostegno finanziario della Banca Monte dei Paschi di Siena. L´indagine ha intanto evidenziato un dato storico: la scoperta di un´intensa frequentazione attestata da interventi urbanistici e architettonici in epoca repubblicana e imperiale romana.
Tra le strutture riportate alla luce va segnalato un ampio recinto al cui interno è stato scoperto un tempio che presenta almeno due fasi edilizie e un percorso pedonale realizzato a fianco del suo lato lungo meridionale, due pozzi (uno con una base modanata in trachite) e da ultimo - come si è già ricordato - due altari rispettati nella ristrutturazione dell´area avvenuta nel II sec. a.C. Uno, di fattura pregevole, è realizzato in trachite, l´altro in tufo. Il più monumentale sembra risalire alla metà del V sec. a.C. ed essere contemporaneo alla fase più antica del tempio col quale è probabilmente in connessione. In questa stessa zona erano stati rinvenuti già due bronzetti di offerenti, oltre a numerosi frammenti di ceramica attica di qualità notevole, e ora si è scoperto il basamento di un donario.
In un altro settore della stessa area di scavo, gli archeologi hanno riportato alla luce una fontana monumentale e la base di un ulteriore edificio di epoca etrusca dalle dimensioni ragguardevoli.
Nelle prime campagne di scavo erano state messe in luce due antiche strade basolate, una delle quali appare delimitata da un muro in opera reticolata lungo 70 metri ed è stata interpretata dagli scavatori come una via sacra; terme di modeste dimensioni di epoca romana e una chiesa di origine altomedievale impostata su strutture precedenti. Un´altra ampia via lastricata e alcuni ambienti che vi si affacciavano sono stati rinvenuti, a non molta distanza, in scavi condotti direttamente dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell´Umbria sotto la direzione di Paolo Bruschetti.
Molto resta da indagare e comprendere: occorre cercare i resti delle strutture legate agli spettacoli e ai giochi e scoprire ancora con ogni probabilità l´edificio (o il luogo consacrato) principale. Ma che l'area del Fanum Voltumnae sia stata individuata appare - dopo i rinvenimenti di questa estate - sempre più verosimile.

lunedì 20 agosto 2007

l’Unità 20.8.07
Heidegger tra il Reich e Hannah
di Paolo Di Paolo

L’ombra di Heidegger è l'inquietante romanzo epistolare in cui lo scrittore argentino José Pablo Feinmann affronta, raccontando una storia cupa e tragica, la compromissione dell’autore di Essere e tempo con il nazismo. E non con il piglio distaccato dello storico, ma con quello - più coinvolgente, più caldo - del narratore: mettendo in gioco prima di tutto e soprattutto l’umanità del «Maestro della Germania», il suo modo di muoversi, di parlare, di guardare. Lo spazio del suo abitare. La «malia, l’estasi riflessiva» che suscitavano le sue lezioni universitarie: raccontate da Feinmann dando voce al personaggio di Dieter Müller, allievo di Heidegger a Friburgo. Müller scrive una lettera a suo figlio Martin: è stato nazista, è fuggito in Argentina prima della catastrofe, ora sta per uccidersi. Ha davanti a sé la foto di un uomo nudo che si avvia verso le docce a gas, in un campo di sterminio. Sente finalmente il peso e la vergogna della colpa; e prima di punirsi, però, racconta, ricorda. Ciò che, ragazzo, l’aveva colpito di Heidegger: «lo spettacolo di una mente inaccessibile»; la lettura rivelatrice di Essere e tempo; lo scoprirsi ormai nazista a tutti gli effetti, ma senza odio: «Gli ebrei non mi interessavano», spiega Müller: «E Heidegger? Heidegger li odiava gli ebrei? Poteva odiarli chi aveva amato la giovane Hannah Arendt?». Tornano spesso, nel romanzo di Feinmann, gli occhi di Hannah, «grandi occhi neri».
Bellissima Hannah: come la mostra una fotografia di lei ventenne, datata ‘25, nell’apparato iconografico dell’affascinante epistolario Arendt-Heidegger che Einaudi ha appena mandato in libreria (Lettere 1925-1975 e altre testimonianze). «Vedersi», «Ri-vedersi», «L’autunno» sono i tre momenti in cui è suggestivamente scandita l’ampia raccolta di lettere; e c’è dentro, via via, un amore che cresce. «Non sopportavo più di girovagare per le strade di Heidelberg, sperando di incontrarti da un momento all’altro. Dovevo per forza parlare di te con qualcuno, e ho chiesto di te a Jaspers», scrive Martin alla fine del 1927, e ignora che di lì a poco qualcosa, nel rapporto con Hannah, si incrinerà. Mescola intanto, nelle sue lettere, notizie sul suo lavoro (la necessità di scomparire, di «dimenticare tutto»: per concentrarsi), qualche angoscia, al desiderio di lei. E ai raffreddori, le passeggiate in montagna, la neve, il brivido degli incontri clandestini («Vorresti venire nel bosco stasera?»), la «nostra panchina», la luce delle stagioni che passano e portano con sé troppe cose. Siamo al 1930: Arendt sembra ferita dalle voci sull’antisemitismo del suo amato ex professore; lui respinge quelle che chiama «calunnie» - e prepara un silenzio che durerà quasi un ventennio. Poi, sarà lei a cercarlo di nuovo, e l’amicizia d’autunno li accompagnerà alla fine (lei muore nel dicembre ‘75, lui nel maggio ‘76). Restano così senza risposta le domande (retoriche) che risuonano nel romanzo di Feinmann. È Martin, il figlio di quel Dieter Müller ormai morto suicida, che andrà a porle, alla fine degli anni Sessanta, direttamente a Heidegger, e a muso duro: «Dopotutto, Maestro, sono in tanti che le vogliono bene! Quelli che non le domandano nulla. La sua discepola, e forse il suo grande amore, Hannah Arendt, filosofa, ebrea, geniale, le ha forse amareggiato i giorni con rimproveri o domande insidiose? No, ha avuto cura del suo patrimonio». I silenzi degli altri, di molti, si aggiungono all’ostinato silenzio di Heidegger, lo ispessiscono. Perché il punto - lo evidenziano Antonio Gnoli e Franco Volpi nella illuminante postfazione - è proprio questo: «perché la grandezza filosofica si accompagna a volte così testardamente all’abiezione politica?». E ancora: «com’è possibile, oggi, riconciliare filosofia e politica dopo che ‘il solo grande pensatore del nostro tempo’ le ha dissociate?».

L’ombra di Heidegger, José Pablo Feinmann, trad. Lucio Sessa, pp.184, euro 15, Neri Pozza

Lettere 1925-1975 e altre testimonianze, Martin Heidegger e Hannah Arendt, a cura di Massimo Bonola, pp. 320, euro 22, Einaudi

l'Unità 20.8.07
Inchiesta/3
Tra referendum e partiti in crisi l’Italia diventò semi-presidenzialista

di Gianfranco Pasquino

GLI ANNI NOVANTA vedono la crisi dei partiti, destrutturati dalle indagini giudiziarie e soprattutto dai referendum che cambiano a furor di popolo in maggioritario il sistema elettorale, nonostante il vecchio pentapartito invitasse gli italiani ad andare al mare o a giocare a carte

Gli anni novanta sono anni di fibrillazione istituzionale e costituzionale, di destrutturazione e di tentativi di ristrutturazione del sistema partitico, di confuso cambiamento politico. Fu l'apparentemente innocuo referendum sulla preferenza unica a rivelare il 9 giugno 1991 che, nonostante i molteplici inviti dei dirigenti del pentapartito e non solo («andare al mare», firmato Craxi; «giocare a tressette», De Mita; «passeggiare nei boschi padani», Bossi; «stare a casa con gli amici», il Ministro degli Interni Antonio Gava), il 62,5 per cento degli elettori italiani preferiva andare alle urne dichiarando con voce alta e forte che i partiti italiani erano nudi e anche alquanto bruttini. Sulla spinta di nuove richieste referendarie, a potente riprova che il referendum è davvero in grado di funzionare come stimolo efficace a legiferare, il Parlamento si affrettò ad approvare una nuova legge per gli enti locali, disinnescando un esito ancora più maggioritario e dando vita, lungo le indicazioni dell’apposito quesito referendario, ad una riforma con conseguenze largamente positive. Nella data fatale del 18 aprile 1993 (giorno nel quale, quarantacinque anni prima, la DC aveva sconfitto il Fronte Popolare) l'elettorato tornò massicciamente, più dell’80 per cento di affuenza, alle urne per il referendum sul Senato, per l'abolizione di alcuni ministeri, contro il finanziamento pubblico dei partiti. Molto di questo, in particolare per i soldi ai partiti, è tornato come prima, a riprova che il Parlamento qualche volta esagera, a scapito della volontà popolare, nella sua concezione di centralità e sovranità. Peggio di prima. Neppure un composito (Rifondazione Comunista, parecchi democristiani di sinistra, socialisti, verdi) “Comitato per il No”, presieduto da Stefano Rodotà, riuscì ad impedire che la percentuale dei “sì” fosse elevatissima, quasi l'83 per cento. Coerentemente, l'ultimo Presidente del Consiglio socialista, Giuliano Amato, avendo, a suo tempo, dichiarato che i referendum elettorali erano "incostituzionalissimi" si dimise prontamente. Cominciò una lunga e incompiuta stagione di tensioni istituzionali, non dominate e non incanalate da due apposite e inconcludenti Commissioni per le riforme istituzionali, la prima presieduta in sequenza, da Ciriaco De Mita e poi da Nilde Iotti, la seconda da Massimo D'Alema, ma caratterizzata soprattutto dall’inaspettatamente accresciuto ruolo del Presidente della Repubblica.
Ancora una volta la situazione fu acutamente analizzata dallo stesso Amato. I poteri del Presidente della Repubblica italiana, già nient'affatto soltanto cerimoniali nella Costituzione italiana, sono propriamente “a fisarmonica”. Quando i partiti riescono ad operare in maniera determinata e solidale sono in grado di rendere impossibile al Presidente di aprire la fisarmonica, ma possono anche decidere quanto la può aprire per eventualmente suonarla. Dopo l'elezione di Scalfaro nel 1992, a cominciare dalla nomina dello stesso Amato alla Presidenza del Consiglio, i partiti si accorsero di avere perso il potere sufficiente ad impedire che il Presidente della Repubblica nominasse seconda la sua autonoma valutazione il Presidente del Consiglio (Ciampi nel 1993, Dini nel 1995, D'Alema nel 1998), rifiutasse la nomina di ministri non proprio qualificati (come Cesare Previti alla Giustizia), decidesse se e quando sciogliere il Parlamento. In maniera, a mio modo di vedere, tanto coerente quanto sostanzialmente impeccabile, il Presidente Scalfaro decise per il “sì” nel gennaio 1994 subito dopo l'approvazione della legge finanziaria e delle nuove leggi elettorali; per il “no” nel dicembre 1994 dopo la crisi del governo Berlusconi; nuovamente per il “sì” nel febbraio 1996, quando il tentativo Maccanico di produrre un concordato semipresidenziale non andò in porto; giustamente per il “no” nell'ottobre 1998 dopo il voto di sfiducia a Prodi. Con l'appoggio esplicito e solido ai governi da lui, nel quadro delle sue prerogative costituzionali, voluti, il parlamentarista Scalfaro si rivelava, a causa delle circostanze e contrariamente alle sue preferenze, un Presidente semi-presidenzialista, contribuendo con i suoi comportamenti ad evitare un logorio istituzionale alla Weimar. Era quella del semipresidenzialismo, agevolabile da uno scambio virtuoso, da un lato, il doppio turno elettorale gradito ai DS e a parte del centro-sinistra, dall’altro, l’elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica desiderata da Fini e non sgradita a Berlusconi, una soluzione alla quale la Bicamerale presieduta da D'Alema sarebbe potuta arrivare se l’opportunismo istituzionale, in questo caso di Berlusconi, ma non solo, non fosse prevalso. L'opportunismo continuerà ad essere la cifra istituzionale di quasi tutti i protagonisti politici e partitici della transizione, impedendo, per esempio, che i due referendum elettorali del 1999 e del 2000, intesi a migliore il Mattarellum, conseguissero il quorum. Nella memorabile frase del “maggioritario” Berlusconi: «starsene a casa per mandarli a casa», da quel momento l'istituto costituzionalmente previsto del referendum abrogativo sarebbe caduto sotto la mannaia della mancanza di quorum, debitamente agitata dai conservatori di ogni genere, grado e appartenenza politica (e religiosa).
Fin dall'inizio del decennio il sistema partitico, con tutti i segretari del pentapartito indagati per corruzione, con la Lega ascendente, con i socialisti in rotta, con la Democrazia cristiana spappolata e con l'ultimo regalo della proporzionale, la scissione nel 1991 di Rifondazione Comunista dal nascente Partito Democratico di Sinistra (una scissione neppure pensabile con un sistema elettorale maggioritario) era entrato in una fase di destrutturazione ulteriormente acuita dal referendum elettorale del 1993. Che la cultura politica degli ex-comunisti e degli ex-democristiani fosse non soltanto irrimediabilmente proporzionalista, ma anche tremendamente inadeguata a cogliere le novità, lo si capì in occasione delle elezioni del 1994. I Progressisti (PDS, Rifondazione, Verdi) non riuscirono a mettersi d'accordo, neppure tatticamente, con gli ex-democristiani (Patto Segni, con il leader referendario che dimostrò clamorosamente di non avere interiorizzato la logica del maggioritario, Popolari) per evitare che le alleanze di nuovo conio abilmente create dal Cav. Berlusconi: Forza Italia e Lega al Nord (Polo delle Libertà) e Forza Italia e Alleanza Nazionale nel resto del paese (Polo del Buongoverno) conquistassero, a partire dai collegi uninominali, la maggioranza quasi assoluta che, con un aiutino, adeguatamente ricompensato, di alcuni ex-democristiani, in special modo al Senato, avrebbe dato vita ad un governo di neofiti di breve durata. L'ondata di anti-politica, cavalcata sia dalla Lega sia da Berlusconi, si sarebbe poi variamente espressa arrivando in forme diverse al governo del paese. In rapida sequenza andarono alla Presidenza del Consiglio: un Governatore della Banca d'Italia, un magnate della televisione, un ex-Direttore del Fondo Monetario Internazionale, un Professore di Economia Industriale. Nessuno di loro poteva, naturalmente, ristrutturare un qualsiasi sistema di partiti. Tuttavia, in qualche modo, con la sua stessa discesa in campo, Berlusconi impose al centro-sinistra di imparare la lezione della necessità assoluta di dare vita ad una coalizione inclusiva decente la quale, ad ogni buon conto, bisogna assolutamente ricordarlo, vinse le elezioni nel 1996 esclusivamente perché la Lega non faceva parte della coalizione di Berlusconi.
L'Ulivo, forse, come disse qualcuno, un sinistra-centro, che, forse, come dissero, più audacemente, altri, rappresentava il compimento sia della strategia di Moro che di quella di Berlinguer, sprecò, anche in questo caso per inesperienza e incompetenza, la sua grande occasione. Invece di mantenere la promessa: un governo di legislatura guidato da un solo Primo ministro, di governi ne fece quattro, con tre primi ministri, riuscendo anche a cambiare e non poco la composizione della sua maggioranza parlamentare. Eppure, per quelle astuzie della storia che lambiscono persino il sistema politico italiano, proprio questi confusi cambiamenti politici andarono preparando il fenomeno cruciale che caratterizza le democrazie di miglior funzionamento: l’alternanza al governo. Il centro-sinistra riuscì ad arrivare all’appuntamento nelle peggiori condizioni possibili, sostituendo il suo incumbent, Giuliano Amato, Presidente del Consiglio in carica che avrebbe almeno potuto rivendicare quanto di buongoverno aveva fatto il centro-sinistra e fare valere la sua competenza di governante esperto, con il giovane e telegenico sindaco di Roma. Nel 2001, finalmente ricomposta, sotto la guida di Silvio Berlusconi, la Casa delle Libertà ottenne una decisiva vittoria elettorale conquistando una consistente maggioranza parlamentare, prodromo dell'attuazione del suo programma, di quel “Patto con gli Italiani”, spettacolarmente firmato nel salotto di Bruno Vespa, ma anche di qualche scempio legislativo.
3- continua

domenica 19 agosto 2007

Liberazione 19.8.07
La destra e il suo "doppio": parte la gara all'anticomunismo
di Stefano Bocconetti

Il leit motiv di questa estate è sempre lo stesso: l'Italia è un paese in mano alla sinistra radicale.
Sarà per questo che Berlusconi si sente scippato della sua propaganda da esponenti dell'Unione?

Una sorta di battaglia per il copyright. Battaglia vera, anche se condotta a colpi di dichiarazioni agostane. Quelle che tradizionalmente, da che «politica è politica», vengono poi subito smentite alla ripresa autunnale. Stavolta, invece, qualcosa fa capire che non siamo alla solita "boutade" per conquistare un po' di spazio nei giornali a corto di notizie. Stavolta l'uscita del leader dell'opposizione - di lui si parla - svela che Berlusconi probabilmente ha chiaro il fatto che la destra - questa destra che ha perso le elezioni per 24 mila voti - rischia di essere tagliata fuori. Da tutto. Rischia di essere «scippata» addirittura nei suoi simboli, nelle sue parole d'ordine. Così, ieri è tornato a tuonare contro la sinistra - «sinistra estrema» - che di fatto controllerebbe l'operato del governo. L'ha fatto avvertendo innanzitutto gli annoiati cronisti - costretti a riportare quelle che a prima vista sembravano le "solite" frasi - che la sua era un'«analisi accurata e lucida della situazione». Non routine, insomma.
Il suo ragionamento è una sorta di conseguenza a catena. Tutto, più o meno, comincia con la manifestazione nel giorno dell'arrivo a Roma di Bush. Rifondazione organizza un appuntamento a piazza del Popolo, che va deserto. I «movimenti» fanno, invece, un corteo piuttosto partecipato, e da lì lanciano il primo avvertimento. Diretto proprio al Prc: state al governo, ma solo «come partito di lotta» (usa proprio queste parole). A questo punto, Rifondazione «gira» il diktat ai diesse e compagnia: fate come diciamo noi o saltate. A loro volta i dirigenti democratici prendono in ostaggio Prodi: accontentiamo la sinistra o si va a casa. E Prodi accetta.
Ad essere sinceri, molti potrebbero osservare che non c'è un granché di originale. Se non forse la valutazione di un elemento di cronaca (il flop della manifestazione di piazza del Popolo). In realtà, però, la frase non è quella di sempre. Perché arriva esattamente all'indomani delle sortite della ministra Bonino e del leader della Sinistra democratica, Angius, dirette entrambe a «ridimensionare» il ruolo di Rifondazione. Della sinistra. Anche le parole («il governo che rischia di essere in balìa...») sono quasi le stesse.
Da qui la guerra sul copryght. Con la destra all'opposizone che rischia di essere meno credibile della destra della maggioranza. Con un Berlusconi che rischia di essere meno «efficace» di una Emma Bonino che minaccia di mandare tutto a carte quarantotto, se il governo accetterà l'idea che possano esserci pensioni più giuste e un po' meno precarietà. Si spiega così la «lucida analisi» del leader della Casa delle Libertà. Si spiega così la sua prima sortita postferie.
Diifficile dire se la rincorsa sul terreno scelto dai moderati dell'Unione gioverà alla Casa delle Libertà. Ad occhio e croce non sembrerebbe, se ancora ieri un parlamentare - di secondo piano - di An, tal Nino Strano, spiegava che «o la destra ritrova compattezza e soprattutto idee» o Prodi può domire sonni tranquilli. E per ora di idee girano solo quelle di Berlusconi: che sempre ieri ha annunciato a settembre un vertice per riscrivere il programma delle Casa delle Libertà. Aggiungendo però che «non c'è nulla da inventare», lui ce l'ha già tutto in testa.
Probabilmente ha ragione, allora, chi sostiene che Prodi ha poco da temere da quest'opposizione parlamentare. Tutto fa capire che, stretti fra le battaglie sulla leadership, annunci di iniziative clamorose subito smentite e via dicendo, la destra resterà al palo. Col risultato che Prodi avrà una chance in più. Per provare a governare secondo il mandato che ha ricevuto. E lo dovrà fare da settembre, dalla discussione sul Dpef. Tutto fa capire che, volendo, Prodi potrà governare tranquillamente, rimettendosi in sintonìa con chi l'ha votato. Quattro, cinque punti che facciano davvero la differenza col passato governo. Lo potrebbe fare. Tutto sta a vedere se la destra - quella dell'Unione, stavolta, tutt'altro che fuori gioco - glielo permetterà.

l’Unità 19.7.07
Liberazione va all’attacco di Angius

«Vuol far deragliare l’unità a sinistra. E gioca per il suo futuro politico con i socialisti»
Ha fatto «infuriare i dirigenti del Prc», come racconta in prima pagina Liberazione. L’intervista al senatore Gavino Angius fa discutere a sinistra e il quotidiano del Prc la racconta così: «Bonino a Angius, la strana coppia. Un solo obiettivo: Rifondazione». A stringere l’obiettivo sul senatore il commento di Rina Gagliardi, che ricorda come Angius sia un politico intelligente e «non politicante», schietto e sanguigno: «uno che usa ponderare a lungo le sue posizioni, le sue scelte, ma poi le esprime apertis verbis, senza giri di parole o contorsioni dialettiche». Fu lu, racconta con qualche malizia, a brindare «alla faccia di Occhetto», quando mancò d’un soffio l’elezione a segretario al congresso Pds di Rimini.
Dunque, perché ora prendersela con Rifondazione? si chiede l’editorialista. La risposta è implicita nel titolo, più che uno scontato «La calda estate di Gavino», il seguito: «Agosto, sinistra mia non ti conosco». Perché - ragiona Gagliardi - forse Angius non conosce bene le leggi sul mercato del lavoro precario, la Treu e la Biagi, o forse non le considera una priorità politica; «fin qui, opinioni personali - sbagliate, ma pur sempre opinioni. Ma come fa poi Angius ad affermare che il Prc è contro la legge 30 per pure ragioni strumentali e con una degenerazione propagandistica che ha del grottesco? Qui, duole dirlo, c’è disinformazione o (come propendo a pensare) c’è pura malafede»
È chiaro, prosegue Liberazione, che il pericolo per il governo Prodi non viene da sinistra, ma dalle manovre centriste, dalla «voglia matta di Lamberto Dini di ridiventare presidente del consiglio sia pure per un giro di valzer. Tutto questo Angius lo sa bene. Vuol dire allora che il passionale dirigente comunista di vent’anni fa si è trasformato in uno spregiudicato uomo di manovra? Una quinta colonna del Pd che opera - pensa di operare più efficacemente - da fuori, da libero battitore, con l’incarico di far deragliare, se e come può, il treno dell’unità a sinistra. Uno che alle ragioni di Sinistra democratica crede come noi crediamo in Dio?».
Ma forse c'è un’altra spiegazione, suggerisce maliziosamente Gagliardi: Angius teme di tornare «nell’inferno del comunismo e della radicalità, e di privarsi di un dignitoso futuro politico, al punto da pensare che quello con Boselli e De Michelis sia davvero tale». Così, in filigrana, ecco tornare la vecchia accusa di traditore: perché se no, non è restato nel Pd? perché dunque attacca la Cosa Rossa «come ogni buon toro alla corrida di Pamplona»?

il manifesto 19.8.07
«Per Sd è il tempo delle scelte»
Intervista ad Alfiero Grandi di Matteo Bartocci

Per Alfiero Grandi, già dirigente Cgil e sottosegretario di Sinistra democratica all'economia, l'accordo sul welfare va modificato in tre punti. E il movimento di Mussi deve accelerare per l'unità a sinistra dallo Sdi al Prc. Dubbi sul corteo del 20 ottobre: lasciamo fuori il sindacato dalla polemica politica

«Per le modifiche alla legge 30 non siamo all'ultima battaglia, la sinistra non è a Fort Alamo ma ha il dovere di tenere aperta la questione e battersi per il rispetto del programma». Anche Alfiero Grandi, attuale sottosegretario all'economia, già dirigente della Cgil e oggi in Sinistra democratica, riconosce che per il partito di Mussi «il momento delle scelte è ormai impellente». «La modifica della legge 30 è nel programma - premette Grandi - è una legge che ha introdotto un supermercato della flessibilità che si è tradotto solo in precarietà. Ma per noi flessibilità e precarietà sono concetti ben diversi».
Eppure Angius, dirigente di Sd, ha difeso la legge 30.
Le sue parole lette fuori dalla contingenza dicono semplicemente che come Sd dobbiamo fare una scelta politica. Se siamo d'accordo bene, altrimenti ognuno andrà per conto suo.
E' una scelta tra la «costituente socialista» e il «cantiere della sinistra»?
Salvi ha ragione: Sd nasce per l'unità a sinistra. Noi non vogliamo fare un quarto partitino rosso-verde. E il Pd non potrà rapportarsi come Biancaneve con i sette nani, credo che da qui a ottobre si rafforzerà molto ed è necessario che la sinistra sia altrettanto forte e capace di motivare.
Ma è d'ostacolo il riferimento al socialismo europeo?
Secondo me no. Io sono d'accordo con Angius. Altri guardano più a Sinistra europea che, se ho capito bene, anche per Rifondazione è un punto di partenza. Noi dobbiamo impegnarci tutti insieme in Italia e possiamo spenderci in Europa come vogliamo. Sdrammatizzerei anche il rapporto con lo Sdi: su diritti civili, scuola e laicità siamo completamente d'accordo. Perché non avere un dialogo organico tra noi?
Agire insieme ma su che basi?
Su tre assi fondamentali. Uno sviluppo diverso in una globalizzazione che non può andare avanti così: un altro mondo sociale, economico e ambientale è possibile. Secondo: dare a chi lavora o vuole lavorare una forte dignità in risposta a una divaricazione sociale crescente. Anche Ciampi riconosce che la finanza si sta mangiando l'economia reale. Terzo: se il Pd si unisce partendo dal leader e il resto si vedrà, noi dobbiamo fare il contrario. Dobbiamo unificarci partendo dalla linea politica e da un'iniziativa di massa la più ampia possibile.
In cui rientra o no la manifestazione del 20 ottobre?
E' un appuntamento molto delicato. I tempi non mi sembrano felici, nel pieno della consultazione dei lavoratori e del dibattito sulla finanziaria. Credo che bisogna essere molto chiari sugli obiettivi che si porrà l'iniziativa. Intanto deve rispettare due condizioni: non può essere contro il governo o contribuirebbe ad eliminare la sinistra dalla maggioranza. Manovre neocentriste, anche se velleitarie, ci sono e non vorrei dare una mano a chi parla di alleanze di nuovo conio. E poi non può creare problemi ai sindacati. Per me deve essere un'azione a sostegno dell'iniziativa sindacale e quindi della Cgil, che ha firmato l'accordo ma chiede avanzamenti nella sua attuazione.
Cosa non ti convince dell'accordo del 23 luglio?
Contraddice il programma in almeno tre punti. Si doveva abolire il «tempo determinato» senza limite: 36 mesi di precarietà sono un periodo già abbastanza lungo e l'ufficio del lavoro non può prolungarlo all'infinito. Poi c'è l'abolizione dello staff leasing, su cui anche Damiano era d'accordo e su cui il governo ha fatto dietrofront all'ultimo minuto. Ma l'aspetto che a me preoccupa di più è la liberalizzazione degli straordinari. Indebolisce la contrattazione e aumentando le ore di chi il lavoro già ce l'ha non aiuta certo l'occupazione giovanile. E' un netto arretramento che va rivisto.
Ma visti i rapporti di forza in parlamento come ottenere ciò che chiedi senza mobilitarsi?
Non siamo all'ultima battaglia. Discutiamone serenamente. Chi parla di diktat non negoziabili contribuisce a far giudicare negativo tutto l'accordo. E così non è.
D'accordo, ma come ottenere le modifiche che chiedi?
Dobbiamo agire come con la lettera dei quattro ministri. Rispettare l'autonomia di tutti ma scegliere un asse comune e andare fino in fondo. Sarebbe terribile innescare una polemica nella maggioranza e diventare parte della discussione interna al sindacato. Mobilitarsi non mi scandalizza ma non possiamo fare due parti in commedia. Lasciamo stare il sindacato che è adulto e non ha bisogno di tutori.
Ti riferisci a Rifondazione o anche ad altri?
Anche ad altri. Per sua natura la sinistra deve essere amica del sindacato, dobbiamo aiutarlo a rafforzarsi, dare nuova speranza ai tanti che vi sono impegnati. E poi dobbiamo evitare di ricompattare un centrodestra totalmente disarticolato. Per favore, evitiamo il ritorno del «Caimano». L'alternativa a Prodi è andare a elezioni difficilissime e forse nell'impossibilità di ricomporre la coalizione. Avviamo una battaglia dura ma con questo limite in testa.

Repubblica 19.8.07
"Non mescolare le cose" il comandamento smarrito
di Umberto Galimberti

La differenza sessuale l´abbiamo già abolita con gli abiti unisex, grazie ai quali il giovane può cancellare il sesso a vantaggio dell´età, offrendo così alla retorica della moda quelle espressioni "ancora giovane, sempre giovane" che servono a conferire all´età, più che al sesso, i valori di prestigio e seduzione.
Oggi, la tendenza dei designer è quella di abolire la differenza tra adulto e bambino, arredando le camere dei bambini con oggetti dal significato adulto quando non velatamente sessuale, e i soggiorni degli adulti con arredi infantili che segnalano la fatica di crescere se non addirittura il rifiuto.
Come per i vestiti, così per gli arredi sembra di assistere a un ritorno all´"indifferenziato" da cui l´umanità un giorno si è emancipata attraverso regole, divieti, tabù, codici, rigidi comandamenti seguendo i quali era possibile distinguere l´alto dal basso, la destra dalla sinistra, collocare in alto le cose celesti, in basso quelle terrene, a destra il bene, a sinistra il male, sotto la terra il regno dei morti, sotto la volta del cielo i presagi per i vivi. Fu così che l´uomo fuoriuscì da quello sfondo pre-umano abitato dagli dei, a proposito del quale Eraclito dice: «Il dio è giorno e notte, inverno e estate, guerra e pace, sazietà e fame, e muta come il fuoco quando si mescola ai profumi odorosi, prendendo di volta in volta il loro aroma». A differenza del dio, prosegue Eraclito: «L´uomo ritien giusta una cosa e ingiusta l´altra e non mescola tutte le cose».
Non voglio elevare troppo il tono del discorso a partire da semplici oggetti di arredo, ma senz´altro segnalare che ogni abolizione delle differenze genera una sorta di disorientamento che non aiuta chi sta crescendo a raggiungere quello stadio della ragione che è articolazione delle differenze.
Quando un bambino usa un pennarello prima per disegnare, poi per succhiarlo, infine per metterlo nell´occhio del fratello, interviene la mamma che, con una serie di no, insegna che il pennarello serve solo per disegnare, perché non è un biberon e tantomeno un´arma impropria. Con i suoi divieti la mamma insegna al bambino il principio cardine della ragione che è il principio di non contraddizione, per cui una cosa è se stessa e "non altro". Insegna le differenze tra le cose e passo passo porta il bambino fuori dall´indifferenziato, dove pericolosamente abita e per cui richiede costante vigilanza.
Confondere i codici e far credere che non c´è nessuna differenza tra un tappeto e un uovo fritto, tra una poltrona e una bocca spalancata significa non aiutare il bambino a uscire dall´indifferenziato in cui abita prima di orientarsi nel mondo, e avviarlo a passi spediti nelle prossimità del delirio dove queste contaminazioni sono frequenti, e se non è il delirio, il mondo del sogno dove tutto si contamina in quel fluire e defluire di immagini, dove l´effetto precede la causa, dove il tempo si contrae e lo spazio si altera, dove neppure la mia identità resta stabile, ma prende a oscillare tra l´adulto e il bambino, tra il maschio e la femmina, perché quando la coscienza dorme è la follia a inscenare il suo teatro.
E i bambini vivono in un mondo folle che non è il caso di alimentare con oggetti che hanno più l´apparenza dei fantasmi onirici che la segnaletica di un mondo ordinato o in via di ordinamento. Quando poi sono gli adulti a circondarsi di oggetti infantili - come le poltrone che non finiscono con i braccioli ma con due mani prensili, o come gli arredi da bagno che, dal lavandino allo specchio, hanno la forma dei cuoricini che i bambini dell´asilo si scambiano quando, incapaci di scrivere, comunicano con disegnini i sentimenti delle loro amicizie e inimicizie - allora davvero si contravviene al sesto comandamento che, nella versione originale, non recita: «Non commettere atti impuri», ma: «Non mescolare le cose».
La cultura greca che tanto ha insistito sulla "paideia", ossia sull´educazione dei bambini, a più riprese ha messo in guardia sul rischio di mescolare le cose. Accadde ai troiani che confusero una macchina da guerra come il cavallo di Troia per un dono votivo, accadde ad Edipo che trattò sua madre come sua sposa, accadde ai tebani che quando Dioniso, il dio di tutte le contraddizioni, entrò nella loro città, videro le donne comportarsi come menadi scatenate, i vecchi come bambini, e soprattutto videro infrangersi l´ordine culturale che custodiva quei valori mitici e rituali che garantivano la buona convivenza nella città.
«Non mescolare le cose» significa che l´adulto deve fare l´adulto e non il bambino, e deve affidare agli oggetti che dispone nella casa le tracce ben visibili di questa differenza. Perché il bambino che si sta orientando nel mondo e faticosamente sta acquisendo la differenza tra le cose progressivamente liberate dalle contaminazioni fantastiche, oniriche e allucinatorie che prima possedevano, riceve un grande conforto se, in questo processo che lo libera dall´incertezza quando non addirittura dall´angoscia, è aiutato dall´adulto che non fa il bambino e non si confonde con lui mescolando per gioco tutte le cose, perché questo, anche se non sembra o non gli si dà troppa importanza, è un gioco davvero pericoloso, perché disorienta, perché non avvia all´età della ragione, che è articolazione delle differenze.

l'Unità 19.8.07

Inchiesta/2
La grande paralisi degli anni Ottanta

DALLA CRISI dei Settanta l’Italia non esce in avanti. Bloccata ogni ipotesi di alternanza - non bastò l’«alternativa democratica» lanciata da Berlinguer - il Psi di Craxi scelse un rampante individualismo, e furono gli anni della «Milano da bere». Il conto delle bevute fu un debito pubblico arrivato al 100% del Pil

Agli inizi degli anni Ottanta apparve immediatamente chiaro che qualcosa non funzionava affatto nella strategia comunista. Improvvisamente, Enrico Berlinguer annunciò l'abbandono del compromesso storico e, con la (seconda) svolta di Salerno, approdò ad una mai precedentemente formulata «alternativa democratica»: troppo tardi troppo poco. Troppo tardi, poiché il Pci aveva già iniziato la sua emorragia di voti che lo portò rapidamente dal 34,4 del 1976 al 29,9 del 1983. Troppo poco, perché non poteva bastare una confusa e improvvisata alternativa alla Dc, per anni annunciata come l'alleato privilegiato del compromesso storico, nella quale si mettevano tutti i partiti laici sullo stesso piano e, praticamente, si continuava a sconfessare e a osteggiare l'alternativa socialista, proprio quella voluta dal Psi con il quale, probabilmente, sarebbe stato opportuno riannodare le fila di un discorso politico.
Dal canto suo, Craxi decise rapidamente che se quello era il modo con il quale il Pci pensava di rompere il bipolarismo, allora tanto valeva che lo facesse lui in prima persona accettando di ri-allearsi con la Dc, ma esigendo la carica di Presidente del Consiglio (1983-1987). Non solo il bipolarismo era rotto, ma da quel momento Craxi si impegnò a dimostrare che il Partito comunista non meritava neppure più di essere considerato un oppositore temibile. Era diventato un oppositore semplicemente irrilevante. Non bisognava fare i conti con i comunisti neppure sulla politica economica, a cominciare dal taglio della scala mobile della notte di San Valentino 1984, a continuare con il referendum del giugno 1985, che Craxi vinse anche avendo minacciato le dimissioni («un minuto dopo la vittoria del sì, il Presidente del Consiglio si dimetterà») che un elettorato, cambiato, nel quale le famiglie operaie e contadine non erano più una maggioranza, e prioritariamente interessato alla stabilità politica decise di evitare.
D'altro canto, il Pci rendeva tutto più facile al Presidente del Consiglio socialista. Obbligati a scegliere un successore alla segreteria del partito dopo l'improvvisa morte di Berlinguer, invece di accettare una contrapposizione di linee e di persone - che avrebbe sicuramente prodotto scintille fra continuisti, centristi, riformisti, miglioristi, ma anche innovazione, e avrebbe sprigionato capacità di attrazione - i comunisti lasciarono burocraticamente cadere la loro scelta su Alessandro Natta, il presidente del Comitato Centrale, che già si considerava un pre-pensionato e che per ragioni d'età e di storia personale non avrebbe potuto in alcun modo essere un innovatore. Infatti, né lui né la rappresentanza comunista nella Commissione parlamentare per le Riforme istituzionali, presieduta dal liberale Aldo Bozzi (novembre 1983-febbraio 1985) si impegnarono a dimostrare che la Grande Riforma aveva cessato di essere l'obiettivo istituzionale di Craxi, a sua volta diventato «conservatore istituzionale» nei fatti, ma rimaneva necessaria, anzi, indispensabile per il paese.
Invece, di sfidare democristiani e socialisti, comodamente seduti sulle loro rendite di posizione, i comunisti preferirono difendere le loro rendite di opposizione, ancora politicamente apprezzabili, ma che si stavano irresistibilmente erodendo. A nulla servì una mia lunga passeggiata domenicale sui colli bolognesi, quando, convocato da Renato Zangheri, capogruppo del Pci alla Camera dei Deputati, tentai di spiegargli come e perché una buona riforma elettorale in senso non-proporzionale avrebbe potuto mettere in movimento il sistema politico, tagliando tutte le rendite: di posizione e di opposizione e consentendo nuove modalità di espressione ad un elettorato potenzialmente effervescente. Qualche giorno dopo, febbraio 1984, con grande e amara sorpresa, lessi la risposta di Zangheri nel suo editoriale pubblicato da "l'Unità" (giornale al quale avevo anche iniziato a collaborare): «La proporzionale è irrinunciabile». Naturalmente, tutti coloro che preferivano contare i decimali degli spostamenti di voto, ed erano allora come, temo, ora, consistente maggioranza, in Parlamento e in Commissione, ne furono molto sollevati. Il Pci metteva una pietra tombale su qualsiasi cambiamento della legge elettorale ma, probabilmente, si rendeva anche conto che si erano aperte le prime crepe nella proporzionale. Il massimo a cui la Commissione per le Riforme Istituzionali giunse fu, in chiusura, a votare un ordine del giorno a favore del sistema tedesco firmato, tra gli altri, da Mario Segni, da Pietro Scoppola, da Gino Giugni, da Augusto Barbera, ma solo a titolo personale, senza impegnare il Pci, e anche da me, con la motivazione esplicita «non essendo possibile niente di meglio» ovvero, in inglese, solo come second best. Per gli interessati, la mia proposta si trova per filo e per segno nella Relazione di minoranza della Sinistra Indipendente del Senato, firmata dal Sen. Eliseo Milani e da me.
A più di 25 anni di distanza, dopo due referendum elettorali coronati da successo (1991 e 1993) e due falliti per mancanza di quorum (1999 e 2000), dopo due riforme elettorali, una, la seconda, quella «porcella», peggio della prima, ci troviamo ancora tutti lì. Infatti, è ripreso da capo il dibattito ripetitivo e logoro, ma non certo per colpa dei referendari, su chi, come e quale legge elettorale fare. Allora, erano i tre maggiori partiti che non volevano rischiare nulla, meno che mai le loro rendite, ma nemmeno volevano spaventare i loro piccoli essenziali, comunque, subalterni, alleati che, a loro volta sono sopravvissuti e sopravvivono tuttora grazie alle minime, ma vitali, rendite di posizione (oggi, all'interno, in special modo, della coalizione di centro-sinistra).
Almeno a livello di elaborazione culturale, alla quale, poi, non diedero seguito, i socialisti tentarono qualcosa di propulsivo con il discorso «sui meriti e sui bisogni» di Claudio Martelli al Congresso di Rimini del 1982. Non ne seguì nessuna concreta risposta di governo. Più preoccupati di durare a Palazzo Chigi che di aprire spazi propri ai settori che avrebbero potuto ingrossarne le scarne file elettorali, i socialisti preferirono non fare nulla. E non vale nulla la giustificazione che non trovarono «sponde» nel Pci, dal momento che quelle sponde non furono mai cercate con coerenza e con determinazione.
Privata dello sbocco nella praticabilità di un'alternanza fra coalizioni che avrebbe offerto scontro di leadership, di programmi, di idee e di stile, la parte moderna e dinamica della società italiana scelse la strada dell'individualismo che, forse, premiava i meriti, ma sicuramente non soddisfaceva i bisogni. Sembrarono affermarsi in special modo i rampanti che alla politica chiedevano non interferenza, che alla politica non volevano dare nulla, ma che dalla politica non si aspettavano nulla se non favori. Furono gli anni della «Milano da bere». Dunque, c'era qualcuno che la beveva davvero: fortunatamente non il pool intorno a Francesco Saverio Borrelli, che venne rallentato nelle sue indagini dalla non concessione ad opera del pentapartito dell'autorizzazione a procedere contro lo sponsor di Craxi, il senatore socialista Antonio Natali. Il conto delle bevute, a Milano e a Roma, lo pagava il debito pubblico cresciuto da poco più del 60% del Prodotto Interno Lordo fino ad oltre il 100%.
L'impossibilità dell'alternanza, che era la conseguenza non soltanto dell'incapacità dell'alternando (il Pci) a tagliare gli ultimi suoi legami con il Partito Comunista dell'Unione Sovietica, ma anche a dimostrare che aveva idee, soluzioni, energie e persone in grado di produrre rinnovamento, venne anche, a mio modo di vedere, collegata correttamente con il sistema elettorale proporzionale grazie al quale il pentapartito si riproduceva senza difficoltà, a livello nazionale e a livello locale con esiti epici fra i quali l'epica ascesa del socialista milanese Carraro a sindaco di Roma nonostante il democristiano andreottiano Gerace avesse ottenuto 100 mila voti di preferenza e la Dc avesse tre volte più voti del Psi. In pratica, il pentapartito di Andreotti aveva smesso di produrre decisioni politiche, economiche, sociali di qualche validità tranne quelle poche utili alla creazione e all'espansione dell'impero mediatico della Fininvest. Sopravvivere senza governare il politologo Giuseppe Di Palma aveva intitolato il suo libro sui partiti italiani in Parlamento. Alla fine degli anni Ottanta questa era ancora la fotografia del sistema.
Si abbatté su quel sistema il crollo del muro di Berlino, sottovalutato da democristiani e socialisti, la cui reale portata fu difficile per tutti capire immediatamente nelle sue enormi conseguenze. Si aprì anche lo spazio per il primo tentativo di cambiare quel che si poteva delle regole del gioco, ovvero il sistema elettorale del Senato, in maniera limitata quello della Camera, in maniera molto incisiva quello degli enti locali. Parte almeno della società italiana, modernizzatasi economicamente e socialmente, persino arricchitasi, decise che era venuto il tempo anche della modernizzazione politica che, per non pochi elettori del Nord era già cominciata nella protesta strisciante con il voto a favore delle varie Leghe, lombarda, piemontese e veneta. Ancora una volta, i tre grandi partiti non soltanto arrivavano in ritardo, ma pensarono essenzialmente a come difendersi, non a come guidare il rinnovamento elettorale e istituzionale. Il decennio si chiuse senza idee e senza prospettive.
2 - continua. La puntata precedente è stata pubblicata il 14 agosto


l’Unità 19.8.07
Che Guevara/1
L’avventura iniziò con un viaggio
di Maurizio Chierici

Nel luglio del ’53 un ragazzo appena laureato in medicina, stivaletti e giacca militare, parte da Buenos Aires con un amico. Sognano di attraversare l’America fino a Caracas

La vecchia stazione Retiro a Buenos Aires non è cambiata. Malinconica come ogni stazione anni venti: qui come a New York, Milano. I biglietti si vendono dietro grate strette come un confessionale. Luci fioche nella sala d’aspetto per signore. Gli uomini non possono entrare. Gli uomini passeggiano sui marciapiedi o bevono qualcosa al bar del Gallo Azzurro sotto lo sguardo dei cartelloni che ogni governo argentino distribuisce attorno ai binari, pubblicità istituzionale in concorrenza con detersivi, saponi, automobili. È rimasta Evita Peron; si è aggiunto Maradona.
Ottobre 1987. Sul mio primo viaggio che insegue l’ultimo viaggio di Guevara soffia il vento dell’inverno australe: non si arrende alla primavera.
«L’ultima partenza di Ernesto è cominciata qui». Dopo due giorni di chiacchiere al settimo piano della bella casa in Avenida Callao, Ricardo Rojo, amico d'avventura del Che, mi accompagna al treno che attraverserà le Ande. Dovrò cambiare non sa quante volte e aspettare con pazienza nelle piccole stazioni dell'arrampicata. Gli orari sono di gomma, i ritardi diventano ore. Fra due giorni e mezzo arriva.
L’avvocato Rojo era tornato da poco da un esilio vagabondo. Per la dittatura dei militari appena scacciati era un sovversivo e Alfonsín, primo presidente della democrazia minacciata dai giochi della grande economia e dalle rivolte dei caras pintadas, non poteva permettersi di ascoltare le teste calde che avevano accompagnato la rivoluzione di Guevara. Come Alberto Granado nella prima traversata dell’America Latina, Rojo aveva diviso avventure e speranze di un Che che muoveva i primi passi nel capitolo decisivo della sua breve vita. Un treno senza ritorno. Fra i binari di Retiro non immaginava di sbarcare all'Avana.
Ernesto parte quando l’inverno rabbrividisce: 7 luglio 1953. Si è laureato un mese prima in medicina, 26 anni, stivaletti e giubba militare. Non si annuncia la vocazione: glieli ha passati il fratello in servizio di leva. «Comodi, caldi, si sporcano meno». Rojo non c’é. Compagno di Ernesto, Carlos Calica Ferrer, figlio del pediatra di Alta Gracia, attorno a Cordoba dove la famiglia Guevara si era rifugiata per curare «con l’aria sottile» l’asma del ragazzo. Compagno di giochi, di mare, di sogni. Uno dei sogni attraversare l’America per arrivare a Caracas dove li aspetta Alberto Granado.
Carlos è più giovane di un anno e da un anno lui ed Ernesto mettono da parte i soldi per il grande viaggio: 700 dollari in due In treno, perché costa meno. Si sistemano sui legni di seconda classe. Nella valigia lettere di raccomandazione per gli argentini da incontrare nei posti d’avventura. Li lega un giuramento orgoglioso: mai chiedere soldi a casa quando i settecento dollari sono finiti. «So come è andata dalle loro chiacchiere. Dovresti parlare con Carlos, ma chissà dov’è finito».
Nei due giorni di racconti, mentre cercava di convincermi della bontà del maté che non sopportavo, Rojo ricostruisce la partenza del Che. Era lontano quando Guevara e l’amico hanno preso il treno. Era nascosto a La Paz con documenti strani: «Per passaporto solo il salvacondotto dell’ambasciata del Guatemala a Buenos Aires dove avevo chiesto asilo. Ero radicale, amico di Frondizi. Sono stato in galera con l’accusa di aver preso parte al complotto di chi voleva assassinare Peron. Le raccomandazioni mi aprono la libertà provvisoria. Ma devo andare via dall'Argentina». Salta il cancello dell’ambasciata del Guatemala e chiede asilo politico.
Nel ’53 ha 29 anni, figlio di un proprietario rurale, avvocato alle prime armi. I soldi non gli mancano. Massiccio, baffi da pirata. Per il Che e per tutti è solo el gordo, l'amico grasso.
Il Che e Carlos partono con le borse gonfie di dolciumi. Per i genitori restano ragazzi. Dopo qualche ora la golosità si trasforma in appetito: scambiano le prelibatezze con cosce di pollo. Gli altri viaggiatori sono contadini, indios dell'altipiano, concretezza di piccoli commercianti. Li osservano con lo sguardo ironico di chi guarda i figli di papà: pitucones, fichetti.
Come Rojo (Mi amigo el Che), come ogni persona sfiorata da Guevara, Carlos ha scritto il suo libro di memorie, De Ernesto al Che: il Diario di Enrico Deaglio lo ha intervistato sperando in un'edizione italiana. Arrivano a La Paz. Una notte, nella casa dell'argentino più ricco e autorevole, esule volontario in Bolivia, il Che incontra Rojo. «Isaias Noqueque aveva lasciato il posto di deputato dell’opposizione. Si era trasferito in Bolivia dove la famiglia aveva proprietà. Nel quartiere residenziale di Calacoto, attorno al tavolo della cena raccoglieva gli argentini scontenti. Ernesto non mi ha fatto grande impressione quando ci siamo conosciuti. Taceva, ascoltava per fulminare chi parlava con battute al cianuro. Siamo risaliti in città camminando nella notte. La strada era lunga. L’amicizia è cominciata così. L'ho accompagnato nella stanza che divideva con Carlos, casermone di un squallore che stringeva il cuore. Carlos ed Ernesto trascuravano le forme, la compostezza del vestire. Tasche quasi vuote».
Eppure, con naturalezza, si sedevano ai tavoli del caffè del Sucre Palace Hotel, il più lussuoso della capitale. Al di là delle vetrata i contadini sbarcavano il lunario vendendo cianfrusaglie, pelli di animali; donne e bambini «ortolani», coi sacchi di foglie di coca aperti sul marciapiede. «Il Che guarda sconsolato. Approvava la proibizione del Movimento Nazionalista Rivoluzionario boliviano, partito al governo: proibiva ai tesserati di frequentare i locali notturni. Vita monacale. Dovevano riservare ogni sensualità al trionfo della rivoluzione. Si cenava tardi nella casa di Noagués. Il Che mangiava senza alzare la testa. Divorava ogni cibo che gli passava davanti. La chiamava operazione riserva. Fare il pieno per resistere tre giorni senza masticare un pezzo di pane». Una volta, nella notte, mentre tornano in città, una raffica li sfiora. Ronda della polizia che controlla i documenti e li lascia passare. Sta proteggendo il night El Gallo de Oro. L’insegna al neon illumina operai e viandanti avvolti nei poncho: si riparano dal gelo dei quattro mila metri uno addosso all’altro, stesi a terra. Ma il neon illumina belle automobili, autisti che sonnecchiano aspettando i padroni.
«Il Movimento Nazionale Rivoluzionario si sta divertendo», brontola amaro Guevara. Il quale chiede un colloquio col Ministro degli Affari Contadini: «Il ministro Nuflo Chavez aveva più o meno la nostra età. Sembrava aperto, intelligente, ma evitava le domande nascondendosi nel burocratese di chi non vuol parlare. L' ufficio riproduceva lo squallore di ogni edificio pubblico boliviano. Indios aymara e quetchua, pantaloni grezzi, giacche colorate, facce bruciate dal sole: in fila, con pazienza, con la supplica in mano. Povera gente, il Che si commuove. A quel tempo non era marxista e non aveva nessuna vocazione politica. Disprezzava la politica argentina, non solo dei peronisti. Quando il nostro anfitrione Nougués raccontava la disperazione per l'esilio e la persecuzione che l’opprimeva, Ernesto brandiva il cucchiaio e lo puntava come un fucile. “Ti capisco. Adesso racconta un po' quanto guadagni a fabbricare zucchero”».
La meta da raggiungere resta Caracas. Rojo li accompagna verso il Peru. I ricordi di Carlos sono diversi. Vuol fare la doccia: «Siamo sporchi come maiali». Quel giorno la cassa comune è nelle mani di Guevara. «Se vuoi mangiare ti do i soldi. Lavarsi non serve». Carlos insiste e quando torna profumato trova il Che che divora tartine e frutta. «Fra due ore non dirmi che hai fame».
Le strade di Guevara e Carlos si dividono. Il Che vuole rivedere le rovine atzeche, Rojo scende a Lima. Si danno appuntamento nella caa di un’infermiera, ma in quella casa Rojo aspetta inutilmente: i due amici non arrivano. Continua il viaggio da solo. Ma il destino li riavvicina a Tumbe, laguna-frontiera con l'Ecuador. L'avvocato vede un giovanotto che fuma una sigaretta osservando distratto la folla che preme lungo il confine. «Ernesto!», si abbracciano. In corriera verso Guayaquil. Doveva essere una tappa sulla strada di Caracas. Ma i soldi sono finiti, cominciano i problemi.
Quando il mio viaggio che insegue il viaggio del Che arriva a Guayaquil, il caldo scioglie i pensieri e impallidisce la curiosità. L’equatore taglia una città umida come Honk Kong. Non si respira. Incontro avvocati, politici, qualche storico. Voglio capire dove hanno dormito assieme ad altri argentini incontrati per strada, il Che e i compagni d'avventura. La descrizione di Rojo non coincide con la nuova mappa di una città dove cresce la classe dirigente che ha in mano il paese. Quito, la capitale sulle Ande, è solo la scatola dei burocrati obbedienti agli ordini che arrivano dal mare bollente.
Anche Correa, presidente di oggi, viene da Guayaquil avendo battuto ai voti un impresario alla Berlusconi, anche lui di Guayaquil. «Dormivamo in una casa di legno, cadente, topi ed insetti. Pensavo di impazzire. Osservavo Ernesto. Ne ammiravo la serenità. Per le mie abitudini borghesi i primi giorni di un luogo estraneo sono deprimenti e devono passare settimane prima di abituarmi alla nuova realtà». Guevara e Carlos sembra che abbiamo sempre vissuto nel tugurio. Finiscono i soldi. Vendono gli stracci delle valigie. Il Che resta «con pantaloni così infangati che stanno in piedi da soli e la camicia una volta bianca. Borsa a tracolla. Cercano lavoro fra gli scaricatori del porto».
Anche Rojo è rimasto a secco, ma non ha giurato di chiedere aiuto a casa e aspetta i soldi. Al telefono risponde lo zio maestro massone a Buenos Aires. Vi serve un passaggio sulle navi che partono da Quayquil? La seconda telefonata è allegra. Ha parlato con Allende, vice presidente del senato, gran maestro della massoneria cilena. Allende manda un telegramma ad un avvocato di Guayquil, amico e confratello, e l'avvocato trova un passaggio ai ragazzi argentini sul cargo che fa rotta verso Panama e Guatemala. Ospite dell’United Fruit che scaccerà da Cuba, il Che mette piede in America centrale. Rojo lo convince e non andare da Granado a Caracas: «Vieni in Guatemala.
Il presidente Arbenz ha proclamato la riforma agraria nazionalizzando le proprietà delle multinazionali. È il primo paese latino dove la democrazia sembra a portata di mano. Ernesto risponde: “Andiamo a vedere se hai ragione, a un patto: sei un politico di quelli che si mettono d'accordo coi riformisti. Della politica non voglio sapere. Mi interessa la gente. Guai se vai a lisciare a questo o quel ministro”».
Rojo monta sul primo cargo. Aspetta venti giorni il Che e gli altri. Spariti. È uomo di larghe amicizie. Va a trovare il cancelliere del piccolo paese: Raul Osedega era un pedagogo che aveva insegnato a Buenos Aires e condiviso la bohème degli allievi con un abbandono «che certe sere faceva arrossire», ricorda l'avvocato. Non solo lo sistema a spese dello stato in una piccola pensione, trova un passaggio sulla Ford di due fratelli scappati da Buenos Aires per negli Stati Uniti.
Nel dicembre delle grandi piogge, a Rivas, frontiera tra Nicaragua e Costa Rica, Rojo vede sotto un’acqua torrenziale, due ragazzi che camminano parlando. «Ernesto!», grida per la seconda volta. Anche il Costa Rica sta vivendo una specie di primavera. Il presidente Pepe Figueres, uomo d'affari, agente esclusivo di Mercedes e Coca Cola, ha sciolto l'esercito con la scusa che costava troppo e San Josè diventa la sola capitale al mondo senza uniformi agli angoli delle strade. Sull'esempio degli internazionalisti che hanno combattuto contro Franco nella guerra di Spagna, ragazzi di ogni america latina si arruolano nella sua «legione dei Caraibi» con l'utopia di un mondo disarmato. Fra loro cubani che raccontano dell'avvocato Castro, dell'assalto al Moncada, degli amici che lo aspettano in Messico. «Impariamo tante cose che non sapevamo. Il Che fa domande; vuol sapere. L'incanto per Fidel comincia a San Josè».
In Guatemala cerco la casa dove Guevara ha vissuto con Hilda Galea, economista peruviana, rifugiata politica: lavora per un ente dello stato, dipartimento per la produzione agraria. Insomma, ha uno stipendio. «Non bella, ma intrigante», ricorda Rojo con un velo di malinconia. Mescolava sangue indio a sangue cinese. Piccola, grassa eppure interessante. Rojo non ha problemi di soldi: «Ogni rifugiato politico era ospite dello stato. Ed avevo tanti amici». Viene meno alla promessa fatta al Che e prova a mescolarsi a chi governa il paese. «A poco a poco anche Ernesto cambia. La rivoluzione di Arbenz gli piace. Ha fatto arrabbiare gli Stati Uniti e gli sembra un miracolo. È sbalordito dalla libertà di stampa. I giornali scrivono tutto di tutti, senza censura». Il legame con Hilda comincia con la politica. Parlano per ore. «Ernesto non tace ma anche Hilda non scherza. Il suo marxismo di trincea lo conquista». Come tutti ha battezzato Ernesto el Che. Ogni argentino diventava Che nelle anticamere, nei discorsi, nelle polemiche dei caffè. La ripetizione ossessiva di quel «cioè». Rojo gli presenta Hilda in un caffè frequentato da esuli peruviani. Qualche tempo dopo è il primo a sapere che stanno per sposarsi.
Ho trovato la loro casa tra il palazzo del Congresso e la scuola abbandonata che la vice presidente del parlamento, Rosalina Tuyuc, ha trasformato nella sede del piccolo partito indigeno che le si stringe attorno. Il suo aspetto e la sua vita somigliano all'aspetto e alla vita di Rigoberta Menchu. Soffice, l'occhio strabico dei maya. Quand’era buio arrivava stanchissima in sale dove giocavano turbe di bambini: le aveva trasformate in un asilo per i figli delle indigene che vendono fiori agli angoli delle strade. Una sera, uscendo dal portone, alza la mano verso una casa che perde i pezzi: «Guarda lì, abitava il Che».
(1-continua )

sabato 18 agosto 2007

Liberazione 18.8.07
La calda estate di Gavino
Angius attacca il Prc: agosto, sinistra mia non ti conosco
di Rina Gagliardi

Il vero pericolo per Prodi viene dai centristi dell'Unione
e dalla voglia matta di Dini di diventare premier

Me lo ricordo bene il compagno Gavino Angius, in quel lontano lunedì del 1991. Eravamo a Rimini, all'Hotel Continental (che si era trasformato nel quartier generale del No allo scioglimento del Pci) e il congresso costituivo del Pds era quasi finito: si trattava solo di eleggere Achille Occhetto segretario del nuovo partito. Si aspettava la notizia - più che scontata, quasi una sorta di adempimento burocratico - in un clima non particolarmente allegro. Invece, di notizia ne arrivò un'altra, e inaspettata: Occhetto non era stato eletto per mancato raggiungimento del quorum previsto. E fu proprio Angius, in quel momento, a balzare dalla sedia in preda ad un irrefrenabile scoppio di felicità: si procurò sull'istante due bottiglie di spumante e officiò un brindisi per tutti gli astanti. Un brindisi "alla faccia di Occhetto". Una piccola compensazione, dopo le sofferenze di una campagna congressuale durata due anni. Gavino, così mi pareva, è fatto così: un uomo intelligente ma anche schietto, e un po' sanguigno. Non un politicante, o un adepto dell'arte dell'intrigo, così cara a tanti politici. Uno che usa ponderare a lungo le sue posizioni, le sue scelte, ma poi le esprime apertis verbis , senza troppi giri di parole o contorsioni dialettiche.
Voi direte: perché questa lunga premessa sul vicepresidente del Senato, oggi uno dei leader di spicco di Sinistra Democratica? Perché in questo scorcio di torrido agosto, Gavino Angius sembra essersi consacrato a una sola "missione": l'attacco alle sinistre radicali, e segnatamente a Rifondazione comunista. Ieri, addirittura, una doppia uscita - Unità e Corriere della sera - per difendere le bellezze della Legge 30, mettere sotto accusa la manifestazione del 20 ottobre e paventare un nuovo ‘98. Insomma, ci si è buttato anima e corpo, in questa battaglia - proprio come se la sinistra, le sinistre, fossero il suo nemico principale. Nemmeno l'unità d'azione gli piace. Ora, alla luce della limpida storia politica che Gavino Angius ha alle spalle, non riesco a trovare una ratio convincente, né in queste sue posizioni, né in questo suo sfrenato attivismo agostano. E provo a interrogarmi.
Prima, possibile spiegazione: la distanza "nel merito delle cose", cioè sulle leggi (Treu e Biagi) che regolano il mercato del lavoro. Forse Angius non le conosce bene, forse ha letto troppi articoli di Ichino, e ne è stato folgorato. Forse, ancora, non considera il superamento della precarietà del lavoro come una priorità, a dispetto degli impegni solenni assunti nel programma dell'Unione. Fin qui, opinioni personali - sbagliate, ma pur sempre opinioni. Ma come fa, poi, Angius ad affermare che il Prc è contro la legge 30 «per pure ragioni strumentali» e con una «degenerazione propagandistica che ha del grottesco»? Qui, duole dirlo, o c'è disinformazione, o (come propendo a pensare) c'è pura malafede. Fin dai tempi in cui quella legge fu approvata, Rifondazione espresse un netto, nettissimo giudizio critico - e non da sola, ma in compagnia, per dire, di fette amplissime del sindacato, oltre che di numerosi giuslavoristi. Nella campagna elettorale di un anno e mezzo fa, tutti i dirigenti, grandi, medi e piccoli, di Rifondazione si sono sgolati a ripetere, in quattro o cinquemila comizi, che uno dei nostri obiettivi qualificanti era proprio l'abolizione, o il superamento sostanziale, di quel tipo di legislazione.
Tanto è vero che, a governo Prodi già ampiamente insediato, il 4 novembre del 2006 il Prc partecipò massicciamente a un corteo (assai riuscito) contro la precarietà - e tutti, forse anche Gavino, capirono allora di che cosa si trattava, di una grande insostituibile battaglia di civiltà. Arrivare adesso a sostenere che, invece, si tratta di una «spregiudicata» (sic) manovra politica, anzi politicistica, per sbarazzarsi del governo Prodi è davvero scorretto, infondato e palesemente strumentale - del resto, a tutti è chiaro che il vero pericolo, per il governo Prodi, viene dalle componenti centriste dell'Unione, dallo stravolgimento del programma dell'Unione in senso moderato e confindustriale che una parte della maggioranza tenta di compiere, nonché dalla "voglia matta" di Lamberto Dini di ridiventare presidente del consiglio, sia pure per un giro di valzer. Ma, supponiamo, tutto questo Angius lo sa bene. Vuol dire, allora, chissà, che il passionale dirigente comunista di vent'anni fa si è trasformato, lui sì, in uno spregiudicato uomo di manovra? Una quinta colonna del Pd, che opera - pensa di operare più efficacemente - da fuori, da "libero battitore", con l'incarico di far deragliare, se e come può, il treno dell'unità a sinistra? Uno che alle ragioni di Sinistra Democratica - quelle strategiche e di lunga durata - ci crede come noi crediamo in Dio?
Seconda spiegazione (non alternativa ma complementare alla precedente): Angius ha il terrore, qualunque cosa essa sia, della "Cosa Rossa", ovvero di una soggettività di sinistra plurale, unitaria, consistente, capace di incidere nella grande politica e perfino nell'attività di governo. Teme di tornare "indietro", nell'inferno del comunismo e della radicalità, e di privarsi così di un dignitoso futuro politico - al punto da pensare che quello con Boselli e De Michelis possa davvero definirsi tale. Ma un tal panico, vivaddio, è quasi incomprensibile, anche dal punto di vista di chi, come l'ultimo Angius, ha il vezzo di definire se stesso come un "socialdemocratico europeo". Non la vede, il vicepresidente del Senato, la crisi profonda in cui si dibatte, in tutta Europa, la socialdemocrazia? Non si è accorto della sua deriva centrista, liberista, social-liberale? Non ha avuto notizia della Grosse Koalition tedesca e del successo crescente della Linke, guidata da un socialdemocratico europeo vero come Oskar Lafontaine? Insomma, se il modello in cui Angius si riconosce è quello di Blair, o di Gordon Brown, o dell'attuale Spd, e se quelle sono le sue prospettive politiche, lo dica con maggiore chiarezza. Magari spiegando meglio le ragioni che lo hanno portato a non aderire al Partito Democratico (non gli piaceva il nome?), che è oggi la casa naturale, il logico approdo, di chi pensa la politica in termini neocentristi. Oltre che di chi, naturalmente, ha una sfegatata paura del "Rosso", come ogni buon toro alla corrida di Pamplona.

Liberazione 18.8.07
Bonino e Angius, la strana coppia
Un solo obiettivo: Rifondazione
di Romina Velchi

La contro-manifestazione di Cazzola raccoglie altre adesione nell'Unione, mentre la leader radicale minaccia il governo
Al centro delle polemiche il lavoro e la precarietà. Il Prc si prepara a modificare la legge 30 in piazza e in parlamento
Il ministro radicale: se Prodi modifica il protocollo, il governo cade. Enrico Letta difende l'accordo.
Russo Spena: «E' iniziato il confronto su lavoro interinale, contratto a termine e lavoro a chiamata»

Addirittura in formato stereo. Le accuse di Gavino Angius arrivano dalle colonne del "Corriere della sera" e dell'"Unità". E il bersaglio privilegiato, manco a dirlo, è Rifondazione, anche se è lecito il dubbio che l'esponente di Sinistra democratica «parli a nuora perché suocera intenda», per dirla con Giovanni Russo Spena: cioè che l'obiettivo vero siano gli esponenti della sua stessa formazione politica, "colpevoli" di essere succubi del Prc. Così, mentre si fa più acuta la sfida delle "due piazze" pro e contro la legge 30, prosegue il tentativo di colpire l'ala radicale della coalizione, di metterla nell'angolo, di ricacciarla in posizioni subordinate, pena la caduta del governo. E il bello (o il brutto) è che l'attacco arriva anche da chi dovrebbe essere un alleato. Mentre, a ben vedere, i toni volutamente alti non aiutano un confronto serio sul merito della questione, proprio mentre il governo, per ammissione dello stesso ministro Damiano, cerca una mediazione apprestandosi ad alcune modifiche alla legge 30.
In sostanza, Angius accusa il Prc di fare un uso «strumentale» della lotta alla precarietà «per manovre politiche, alla ricerca di nuovi equilibri politici a sinistra» e per «esercitare forme di aut aut al governo e alle altre forze della coalizione». Questo determina una «degenerazione propagandistica e grottesca». Un uso «spregiudicato», una «battaglia di retroguardia», che «mi ricorda quella del 1998 per le 35 ore settimanali e tutti sappiamo come andò a finire: è caduto il governo e di 35 ore non si è parlato più». Quanto alla manifestazione del 20 ottobre, lanciata da "Liberazione" e il "manifesto", è «un errore strategico», «una sorta di redde rationem all'interno della coalizione».
Ce n'è quanto basta per far infuriare i dirigenti del Prc. Anche perché la critica esplicita alla gestione Mussi del "dopo-Ds" sta nel fatto che Sd si è «sempre più appiattita su Rc»; «Vedo una deriva verso la nascita della Cosa rossa e penso che sia un errore», mentre il Partito democratico ha un «inconsistente profilo identitario» ed è troppo occupato nello «scontro di potere» tanto da lasciare spazio alla «pretesa assurda di Rifondazione comunista di rappresentare in maniera esclusiva tutto il mondo del lavoro» «contro il governo e i sindacati».
Per Angius, invece, «il problema fondamentale è l'assenza di una forza socialista, democratica, socialdemocratica, appertenente al campo del socialismo europeo. Se la situazione è questa non bisogna meravigliarsi che poi a sinistra spunti una Cosa rossa». Amen.
Cosa farà Gavino Angius, visto che non si riconosce «né nel Pd, né nella Cosa rossa e in mezzo non c'è niente»? Andrà con De Michelis? Con Boselli? «Ci stiamo lavorando. Ci saranno delle sorprese». Nell'attesa, all'ex diessino risponde con parole dure il presidente dei senatori del Prc, Giovanni Russo Spena. «La pazienza ha un limite - sbotta - Si può discutere tra posizioni diverse, ma è intollerabile accusare di propagandismo strumentale, in materia di lotta alla precarietà, il Prc che di questa lotta ha fatto da oltre dieci anni un paradigma fondativo nel paese e in Parlamento. Non è neppure lecito accusare Rifondazione di mire egemoniche sulle altre forze della sinistra alternativa, quando il nostro asse strategico è, al contrario, la generosa e limpida costruzione, da subito, di un soggetto unitario e plurale». E a riprova che il Prc non intende fare passi indietro - manifestazione del 20 ottobre a parte - Russo Spena conferma che «nonostante i toni alti di alcuni ministri come la Bonino, è iniziato il confronto su lavoro interinale, contratto a termine e lavoro a chiamata. Dovranno poi seguire interventi molto più seri e non escludo che già in finanziaria vi siano accorgimenti sul tema degli ammortizzatori sociali». Come dire: se il governo cadrà non sarà stato per colpa del Prc, il governo essendo intenzionato a farle quelle modifiche. E non solo per "tenere buona" Rifondazione, ma anche perché servono a Prodi per sopravvivere e, magari, recuperare consenso.
Gli aut aut, invece, arrivano da ben altri settori del centrosinistra. Bonino, per esempio, torna a minacciare: «Se malauguratamente Prodi dovesse accettare le modifiche richieste da Giordano al protocollo sul welfare, è evidente che si porrà una grave crisi di governo. Non per nostra responsabilità», aggiunge. E suona come una excusatio non petita . Anche perché Bonino parteciperà, con Pannella, alla contro-manifestazione in difesa della "legge Biagi" organizzata dall'ex sindacalista della Cgil, Giuliano Cazzola, e alla quale ha aderito praticamente tutta l'opposizione, dall'Udc ad An. Tanto che ha buon gioco Paolo Cento ad avvertire che «chi il 20 ottobre scende in piazza con Cazzola si pone automaticamente fuori dall'Unione». Anche perché lo stesso Tiziano Treu, finito nel mirino di Caruso insieme con Marco Biagi, alla contro-piazza non ci sarà: «La legge - ha avuto modo di dire - la difenderemo in parlamento». «Da parte nostra non c'è nessun aut aut - insiste Cento - nessun ricatto, ma solo la volontà di far rispettare il programma, che prevede il superamento della legge 30. Bisogna che ci mettiamo d'accordo: o la precarietà è un'emergenza e allora si interviene cambiando le leggi che l'hanno regolamentata finora. Oppure non lo è e allora si lascia tutto come sta». Siccome l'emergenza c'è, è già pronto un progetto di legge sottoscritto da più di 100 deputati della sinistra per modificare profondamente la legge 30. Perché, alla fine, è in parlamento che si misurano i rapporti di forza.
Intanto, mentre per Enrico Letta, uno dei candidati alla segreteria del Pd, il protocollo sul welfare «deve reggere» perché è un «ottimo accordo», il "manifesto" di Cazzola (che ieri si è appellato alla sinistra riformista affinché restituisca «a Biagi l'onore che gli è stato tolto») raccoglie altre adesioni (quella di Nicola Rossi - che in un primo tempo si era tirato fuori - di Franco Debenedetti e di Vittorio Craxi), mentre c'è chi, come Donato Robilotta, capogruppo alla Regione Lazio dei Socialisti Riformisti, arriva a proporre che «aderiscano anche le istituzioni pubbliche».
Insomma, la "guerra delle piazze" continua e si annuncia un ottobre di fuoco.

Liberazione 18.8.07
Un'opposizione senza progetti non può spaventare Prodi
La vera destra sta nelle "idee" ed è trasversale
di Ritanna Armeni

L'autunno forse sarà caldo, l'estate per il centro sinistra è stata tempestosa, ma come si possono definire questi mesi estivi del centro destra? L'immagine dell'opposizione che è emersa giustificherebbe definizioni drastiche e anche irridenti, ma ce ne asterremo. Ci limiteremo a constatare che in questi mesi di opposizione se ne è vista poca e quel poco è apparso diviso, senza strategia, incapace anche di far intravedere un'idea di governo. Saranno anche veritieri i sondaggi che Silvio Berlusconi rende noti con straordinaria frequenza. Sarà anche vero che il governo dell'Unione ha deluso molte delle aspettative di chi l'aveva votato. Ma che cosa è lo schieramento che in caso di nuove elezioni dovrebbe sostituirlo? Che cosa è diventato?
Uno schieramento diviso. L'idea del partito unico è stata ormai apertamente bocciata proprio dal leader, Silvio Berlusconi che avrebbe dovuto promuoverla.
Uno schieramento senza una leadership e incapace di darsela. Berlusconi che non l'ha voluta cedere, non è stato neppure in grado di designare un erede. E oggi non è più credibile. Quindici mesi di opposizione ne hanno offuscato la figura, hanno indebolito la sua immagine di eterno vincitore. Non si può pronosticare ogni settimana sulle questioni più disparate la prossima, sicura, ineludibile caduta del governo. Se questa non avviene chi l'ha prevista è destinato ad indebolirsi.
Uno schieramento, infine, incapace di usare questi mesi di opposizione per costruire una vera cultura di destra che all'Italia manca e alla cui assenza finora hanno supplito le risorse e la leadership di Silvio Berlusconi.
Neanche dalla collocazione all'opposizione, che pure può favorire processi di omologazione culturale il centro destra italiano è stato capace di ricomporre le varie anime del capitalismo italiano e di cercare un collegamento più stretto con quella destra cattolica e ratzingeriana che tende a diffondere nella società civile i valori di un cattolicesimo intransigente.
In questo quadro la provocazione di Bossi, il suo invito a non pagare le tasse che a molti è apparso eversivo e illegale, è piuttosto un grido di disperazione, il tentativo di dire qualcosa di destra in una situazione politica nella quale il silenzio è rotto solo dalla descrizione del nuovo look del leader di Forza Italia, delle sue notti nei locali, delle sue compagnie femminili. E in cui si sono frantumate ad una ad una tutte le immagini che un centro destra forte avrebbe dovuto e potuto dare di sé.
Il governo dell'Unione quindi ha poco da temere da questa destra? E' probabile. Ha poco da temere da questo schieramento politico. Ma ha molto da temere lo stesso da un altro schieramento e da altri protagonisti della politica che non vengono definiti e non si definiscono di destra. A chi ci riferiamo? A chi di fronte alla manifestazione contro la precarietà del 20 ottobre pensa di farne una contrapposta con il sogno magari di riprodurre i fasti di quel 14 ottobre del 1980 che segnò la sconfitta alla Fiat dei sindacati e delle sinistra. A chi ritiene la precarietà un male minore di fronte alle esigenze del mercato e alla necessità del rigore economico. A chi crede - e sono veramente tanti - che sulle questioni del lavoro non c'è alcun bisogno di un intervento della politica. Che il compito di quest'ultima è se mai di intervenire quando il mercato e l'impresa gli unici detentori del potere di cambiare il lavoro, producono dei disastri sociali, mietono delle vittime che alla lunga potrebbero essere dannose per il sistema stesso. E' lo schieramento che non vuole sconfiggere la precarietà, ma se mai sostenerne l'estensione e fornendola di alcuni ammortizzatori sociali la cui assenza oggi la rende visibilmente discriminatoria.
Questo schieramento che non si definisce e non viene definito di destra e che ha al suo interno molto centro e parecchia Unione, in questi mesi di governo Prodi non si è indebolito, anzi è diventato più visibile. Le adesioni che vengono anche dallo schieramento del centro sinistra ad un eventuale manifestazione da contrapporre il 20 ottobre a quella della sinistra ne è la prova. Il sostegno che ad esso stanno dando anche coloro che non intendono aderirvi è un'altra dimostrazione di una pervasività di quelle idee che ormai ha scavalcato gli schieramenti tradizionali della politica.
Sono queste le idee di destra pericolose e da combattere oggi. L'altra, quella di Berlusconi, Fini e Casini per ora va a rimorchio.

il manifesto 18.8.07
Salvi: «Serve un chiarimento vero, siamo nati per l'unità a sinistra»
Il capogruppo di Sd in senato critica Angius e chiede una verifica col governo sul welfare
di Matteo Bartocci

Un «chiarimento strategico» dentro Sd e una «verifica politica» su lavoro e welfare con il governo Prodi. Pur trincerandosi dietro il «politichese» Cesare Salvi non nasconde come la pensa né sul movimento nato dalla scissione dai Ds né sulla fase durissima che aspetta la sinistra in autunno .
«Leggendo le ultime interviste di Angius su lavoro e precarietà - dice il capogruppo di Sinistra democratica in senato - mi sembra evidente che c'è stato un fraintendimento. Perché se non fosse così vorrebbe dire che la destra ha fatto la migliore delle leggi possibili. E invece noi abbiamo sempre detto tutto il contrario, sia quando eravamo all'opposizione sia in campagna elettorale. Chiunque abbia un minimo di familiarità con il mondo reale ha ben presente la totale sovrabbondanza di lavoro precario soprattutto tra i più giovani. Anche se il precariato c'era già da prima ed è stato legalizzato con il pacchetto Treu noi abbiamo criticato e critichiamo la legge 30 perché di sicuro non l'ha certo contrastato.
Più che un fraintendimento mi pare che dentro Sd si prefiguri quasi una scissione...
E' ormai evidente che c'è una sofferenza strategica di Sinistra democratica. Qual è il nostro compito? E' vero che siamo nati solo da pochi mesi ma ora è venuto il momento di prendere l'iniziativa. Credo che al seminario del direttivo di Orvieto (1-2 settembre, ndr) dovremo arrivare a un chiarimento vero tra di noi e rompere gli indugi.
Si rischia di spaccare ulteriormente un «cantiere» che già mostra le prime crepe.
La legge 30 è diventata un simbolo. E la sinistra, come spesso le accade, si compiace a dividersi sul nulla. Rischiamo di cincischiare per mesi e mesi sui sottosegretari e i ministri che vanno o non vanno a una manifestazione mentre il danno sociale al quale vogliamo mettere argine è serissimo e riguarda milioni di lavoratori.
Qual è il tuo giudizio sull'accordo firmato il 23 luglio da sindacati e governo?
E' una profonda delusione non tanto sul versante pensionistico quanto su quello che riguarda il lavoro. Le nuove regole sui contratti precari sono spaventosamente arretrate. Eppure sono riforme a costo zero, che non subiscono gli strali o le «compatibilità» di Almunia, Bini Smaghi o delle "brillanti" agenzie di rating all'opera in questi giorni sui mercati. Ci sono misure che semplicemente non vanno nella direzione giusta.
Quindi parteciperai alla manifestazione del 20 ottobre indetta dal manifesto e da Liberazione?
Io sono favorevole ad aderire. Altri non sono convinti perché si ha l'impressione che tempi e modi della convocazione siano stati decisi da altri e a noi si chieda semplicemente di accodarci. Il tema vero invece è il rapporto tra la sinistra e il governo. La sinistra non può limitarsi a gridare. Dobbiamo darci una strategia comune. Già i rapporti di forza sono quelli che sono, se continuiamo a discutere sul nulla c'è il rischio che a ottobre sia già tutto deciso. Dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che finora abbiamo perso tutti i passaggi cruciali di questo primo anno di governo. Scendere in piazza ad ottobre rischia di essere troppo tardi.
E quindi?
La mia posizione è che dovremmo chiedere una verifica politica con il governo e il resto della coalizione subito, già a settembre. Discutiamo pochi punti per noi fondamentali e avviamo su questi un confronto molto serio anche con lo stesso Romano Prodi. Dobbiamo farlo subito. Perché se si legge alla lettera il Dpef la prossima finanziaria rischia di essere insostenibile. Peggio di quella passata.
Angius e altri guardano alla «costituente socialista». Tu?
Io lavorerò fino all'ultimo per l'unità di tutta la sinistra italiana. Come Sd abbiamo il dovere di provarci. Se altri sceglieranno strade diverse si assumeranno le loro responsabilità.

Repubblica 18.8.07
Le carte segrete di Lawrence
Centinaia di inediti dell’autore di "L’amante di Lady Chatterley"

I documenti conservati dalla famiglia sono ora consultabili all´Università di Nottingham
Compaiono note su fatti del tempo come il grande sciopero dei minatori del '26
Nei quaderni c'è un testo che poi diventerà un capitolo del romanzo "Figli e amanti"
I "Clarke Papers", lettere, cartoline, appunti sono stati raccolti dalla sorella minore, Ada

LONDRA. Il lato nascosto di D. H. Lawrence, quello del fratello affezionato, dello zio che non dimentica mai di mandare una cartolina al nipote di 8 anni. Da qualche giorno sono consultabili all´università di Nottingham centinaia di scritti inediti dell´autore di L´amante di Lady Chatterley. Sono lettere, cartoline, quaderni di appunti e dipinti, che la famiglia aveva finora conservato. "The Clarke Papers", questo il nome con cui la collezione verrà catalogata, sono stati raccolti da Ada, la sorella minore di Lawrence, la Lettice delle lettere, una figura centrale nella vita dello scrittore. Gli inediti arricchiscono la collezione già fondamentale dell´università di Nottingham, dove Lawrence studiò, e dove ora si sta tenendo una mostra su lui e le donne, nella quale è stato possibile inserire alcuni pezzi dei «Clarke Papers».
I documenti hanno un valore inestimabile sia dal punto di vista delle ricerche, sia come oggetti da collezionismo. La famiglia di Lawrence li aveva già affidati all´Università di Nottingham perché li conservasse in modo appropriato. Ora le trattative affinché le carte fossero messe a disposizione degli studiosi sono giunte a conclusione. Fino a oggi la famiglia ha preferito non rendere pubblici i documenti anche perché in essi compaiono riferimenti espliciti a persone ancora in vita e perché, spiega Sean Matthews, direttore del centro di ricerca su Lawrence all´università, «si tratta di scritti talvolta commoventi, che mostrano il lato più intimo di un personaggio pubblico. Mostrano, di fatto, l´uomo di famiglia, che i suoi cari ricordano ancora con affetto e nostalgia».
Tra i "Clarke Papers" ci sono prime versioni di poesie e annotazioni sul lavoro di revisione, racconti brevi scritti da un giovanissimo Lawrence e tante lettere e cartoline. Nelle lettere alla sorella Ada si trovano l´uno vicino all´altro i resoconti delle difficoltà economiche, le frasi da «lessico famigliare» e commenti su eventi di cronaca, come ad esempio il grande sciopero dei minatori britannici del 1926. Lo scrittore fornisce notizie continue sul proprio lavoro, sui progressi fatti sia dal punto di vista letterario che editoriale, annotazioni che potranno offrire elementi fondamentali per comprendere la difficile carriera letteraria di Lawrence. Solo ben oltre la sua morte nel 1930, infatti, fu riconosciuto il valore internazionale di questo autore. I critici del suo tempo gli rimproverarono di non aver innovato come James Joyce e di aver descritto donne che non avevano il carattere rivoluzionario di quelle di Virginia Wolf.
Lawrence, che ha cantato un inno alla sensualità con L´amante di Lady Chatterley e ha lasciato straordinari resoconti dei suoi viaggi in tutto il mondo, autore prolifico di saggi, poesie, teatro, fu una figura scomoda, bollato subito dopo la morte come «fascista e sessista». Ci sono, tra i «Clarke Papers» anche lettere che membri della famiglia si scambiarono dopo la morte dello scrittore e che Ada inviò ad amiche, testi che indicano le disposizioni testamentarie di Lawrence, l´angoscia che lo colse negli ultimi periodi di vita in sanatorio (da cui andò via per morire «da uomo libero» il giorno prima del decesso), e tutta l´amarezza per le incomprensioni sulla sua opera.
Nelle cartoline che scrisse al figlio di Ada, Jack, si rivela il senso profondo della famiglia che accompagnò sempre le peregrinazioni di Lawrence. «Le cartoline sono deliziose», spiega Dorothy Johnston, direttrice dell´archivio dell´Università, «danno nuove chiavi di interpretazione dei rapporti fra lo scrittore e i parenti più stretti. Lawrence non ebbe figli, ma scrisse di bambini con grande trasporto. Quanto rivelano le cartoline del suo rapporto intimo con il nipote di 8 anni è molto interessante».
Densi di suggestioni e di spunti per la ricerca sono i due quaderni. Lawrence cominciò a prendere appunti quando era uno studente a Nottingham, dal 1906 al 1908, a 21 anni, e su uno dei due libriccini scrisse fino al 1911. Essi contengono poesie, bozze di racconti, annotazioni per soggetti, tra i quali un testo che diverrà poi il decimo capitolo del romanzo Figli e amanti. Gli appunti sono pieni di correzioni febbrili, di versioni emendate o ampliate di uno stesso testo, una testimonianza straordinaria del labor limae che caratterizza l´attività dello scrittore per tutta la sua vita: basta pensare che de L´amante di Lady Chatterley esistono tre versioni successive e che anche nel periodo in cui la tubercolosi minava le sue forze, Lawrence non smise mai di rivedere e aggiustare.
«I «Clarke Papers» sono l´ultimo grande corpus letterario che contiene sia materiale biografico che significativi testi originali di Lawrence», conclude Dorothy Johnston. Di sicuro la possibilità di consultare i «Clarke Papers» terrà impegnati gli studiosi per parecchi anni e c´è da attendersi un fiorire di nuove pubblicazioni su Lawrence, vista la diffusa presenza di elementi autobiografici in tutta la sua opera.

Repubblica 18.8.07
Un saggio di Franco Cardini sul “Decameron”
Boccaccio e il trionfo della vita
di Adriano Prosperi

Se nelle Mille e una notte il raccontar novelle è un buon modo per evitare la morte al narratore, si può immaginare che lo stesso espediente valga per allontanarne il pensiero nei lettori. E qui la scelta è varia e ognuno può provare a immaginare quale libro vorrebbe per compagno in simili frangenti. Viene in mente quel fabbro ligure del ´600 che, alla vigilia dell´esecuzione capitale, chiese alla moglie di portargli l´Orlando Furioso per rileggerlo durante quell´ultima notte. Se poi chi racconta le novelle è Giovanni Boccaccio gli si può far credito di meriti speciali nel portare la mente del lettore lontano da immagini di morte. Eppure il suo Decameron, avverte Franco Cardini (Le cento novelle contro la morte. Giovanni Boccaccio e la rifondazione cavalleresca del mondo, Salerno editrice, pagg. 160, euro 11) non fu un´opera di evasione. Nata nel contesto di una tragedia collettiva di proporzioni inaudite - la Peste Nera del 1348, il più spaventoso attacco da altre forme di vita subìto dalla specie umana nel corso della storia dell´Europa cristiana - quell´opera fu una meditata risposta alla tragedia. Con essa l´autore cercò di «rifondare il mondo» (così Cardini), cioè di trovare davanti alla violenza terribile della morte collettiva una ragione perché i dieci giovani rifugiatisi in villa potessero alla fine affrontare di nuovo la realtà armati di una ritrovata regola di vita.
Questo libro che l´autore presenta discretamente come un primo regesto di anni di studio e di amore per il grande capolavoro di Boccaccio, è un´occasione da non trascurare, non foss´altro che per rileggere il Decameron, capolavoro grandissimo e lettura tanto deliziosa quanto - temiamo - sempre meno familiare agli italiani. Ma Cardini va al di là del piacere della rilettura: la sua intenzione è quella di guidarci da storico a scoprire l´itinerario morale disegnato dall´autore nella tessitura delle dieci giornate, così come si studia il significato storico del viaggio dantesco nell´oltremondo della Divina Commedia.
Quel modello era ben presente alla mente di Boccaccio, come sappiamo; e la struttura del Decameron è chiaramente esemplata su quella della Commedia dantesca, amatissima e attentamente chiosata dallo scrittore di Certaldo. Una Commedia tutta umana la sua, si è detto spesso, un mondo borghese che guarda al sopramondo religioso con la spregiudicatezza di ser Ciappelletto. Nel momento in cui la peste appariva come lo strumento scelto da Dio per quella fine del mondo che i cristiani attendevano da secoli ecco farsi avanti con Boccaccio le seduzioni del mondo, le donne e i cavalieri, le cortesie, le amorose e audaci imprese.
Questa immagine vulgata di un Boccaccio narratore di un mondo moderno che si lascia alle spalle l´ascetismo medievale e inaugura una civiltà mercantile e borghese è qui messa in discussione da Franco Cardini. Il suo saggio richiama l´attenzione sulla struttura dell´opera, ne mette in evidenza la cornice, analizza il percorso dell´educazione sentimentale dei giovani intenti a raccontare storie sulla incantevole collina (quasi una «montagna incantata» ante litteram). Secondo lui, ben lungi dal guardare davanti a sé in direzione del mondo borghese il cui sangue pulsava già da tempo nelle vene di mercanti e banchieri, lo scrittore di Certaldo si volgeva indietro, verso i valori e gli ideali del mondo cavalleresco.
Leggendo le pagine di Cardini, come sempre narrativamente accattivanti e costruite capitalizzando lunghe frequentazioni dei testi, viene in mente il celebre affresco coetaneo del Decameron e dipinto sulle pareti del Camposanto di Pisa da un pittore che fu specialmente vicino a Boccaccio e al Decameron: la brigata di giovani riunita nel giardino fiorito è una precisa allusione al gruppo dei narratori messo in gioco dal Boccaccio. Giuliano Briganti individuò in Bruno Buffalmacco, l´eroe delle burle al povero Calandrino, il pittore di quello stupendo affresco: lì il trionfo della Morte davanti al cui potere si arresta la lieta cavalcata dei cacciatori incombe su di un paesaggio dove le vie di fuga suggerite sembrano essere quelle dei santi romiti che popolavano allora i gioghi dell´Appennino e vi rimasero fino ai tempi di Machiavelli.
E tuttavia non l´ascetismo dei romiti ma le regole di una superiore moralità cavalleresca trionfante nella sublimazione del desiderio amoroso (così in Matelda e in Federigo degli Alderighi), costituiscono secondo Franco Cardini le proposte avanzate da Boccaccio per la sua «rifondazione del mondo». Davanti alla spaventosa tragedia della Morte Nera l´opera di Boccaccio ritorna ai fondamenti morali elaborati nell´epoca ormai lontana della nobile cavalleria: e la primavera della modernità ha in lui i colori dell´autunno del Medioevo. Un fatto è certo: anche qui, come osservava Walter Benjamin commentando il dipinto di Paul Klee, l´angelo della storia investito dal vento del mutamento avanza verso l´ignoto futuro con lo sguardo fisso al mondo rimasto alle sue spalle.

Repubblica Lettere 18.8.07
Mi chiamo Anna F. e sono una ragazza di venticinque anni.

Scrivo questa lettera con la speranza che possa gettare luce su una realtà che molti non conoscono, e affinché chi la legga (e soprattutto i politici) capisca a quali drammi vanno incontro tante persone.

Sono circa quattro anni che mio fratello maggiore soffre di problemi psicologici e sono quattro anni che in famiglia stiamo soffrendo perché nessuno ha fatto niente per aiutarci.

Purtroppo quando mio fratello sta male rompe tutto. E picchia anche me e i miei genitori, che più volte sono stati costretti a chiamare i carabinieri. Ora mio fratello si trova nel carcere di Poggioreale.

Noi, come famiglia, abbiamo più volte chiesto aiuto al Csm di Ercolano, ma la loro risposta è stata sempre la stessa e cioè: "Se lui non vuole curarsi noi non possiamo fare niente". E non vi dico l'indifferenza con cui lo dicevano.

Ma noi siamo andati oltre e abbiamo mandato una lettera al ministero della Salute (che ci ha risposto ma non ci ha aiutato),poi ci siamo rivolti al sindaco il quale, a sua volta, ha inviato una lettera all'Asl e al Csm ma, come sempre, non si è risolto niente.

Io ora, da sorella di un ragazzo che soffre di questi problemi, mi domando come è possibile che in Italia non esista una legge che possa aiutare queste persone.

Io non parlo di un obbligo a metterle in manicomio, ma della possibilità di curarle. E poterlo fare in strutture adeguate.

Nessuno che non lo abbia vissuto di persona può capire la sofferenza che si può provare a dover mandare in carcere un proprio caro (noi siamo stati costretti a mandare in carcere mio fratello più di una volta).

Lui è un ragazzo di ventisei anni che andrebbe aiutato ma noi da soli non ce la facciamo e adesso non sappiamo più che fare.

Siamo costretti a vedere giorno dopo giorno distruggersi la vita di un ragazzo che potrebbe ancora salvarsi (perché non ha perso il senno), ed è una cosa straziante che non auguro a nessuno!

Lettera firmata