venerdì 10 agosto 2007

Liberazione 10.8.07
La legge 40 è superstizione di Stato: è pazzia non cambiarla
Se la legge sulla procreazione assistita è sbagliata e causa guai
ci penseranno le linee guida del ministero o i cattolici del Pd?
di Carlo Flamigni

Il brutto, quando si perdono le competizioni (o quando il tuo avversario, comunque sia andata, ritiene di aver vinto), è quello che succede dopo, le prese in giro, le cattiverie inutili, l'arroganza grossolana e volgare. Penso, ancora una volta, alla legge 40 sulla procreazione assistita e mi guardo intorno. La prima cosa che vedo è una proposta di modifica del comitato "Verità e vita", presentata alla Camera dei deputati pochi giorni or sono e che contiene alcune gustose facezie, messe lì - immagino - solo per irritare quei poveri imbecilli che si affannano tanto per avere un figlio (e ignorano che i figli sono un dono di dio, eccetera, eccetera, eccetera).
Secondo Mario Palmaro, presidente di questa colta associazione, la legge attuale è profondamente ingiusta perché è troppo "uccisiva". Avete letto bene: uccisiva. Ho pensato a tutto, errori di stampa, scherzi del computer, ma mi sono dovuto rassegnare: è proprio una legge "uccisiva". Poi mi sono reso conto che la legge ha avuto l'approvazione toto corde di un tale che mi sembra si chiami Luca Volontè, che non conosco ma che ho sentito parlare, credo, a Radio Radicale. Il cognome, e il numero straordinario di anacoluti che caccia nei suoi discorsi me lo fanno identificare come un cittadino francese che sta imparando - forse un po' lentamente, ma nessuno è perfetto - l'italiano: è dunque almeno probabile che sia stato lui a suggerire l'uso di questa parola, diciamo, inconsueta. Però uccisiva, lo confesso, mi sembra troppo anche per un cugino d'oltralpe. Allora sono andato a spulciare le agenzie e ho capito, si trattava di Luca Volonté, capogruppo Udc alla Camera (italiana), un uomo capace di bollare i dati sulle nascite del ministero della Salute come «censimenti partigiani» che causerebbero «conclusioni istintive e, talvolta, isteriche» ovvero «accusare la legge 40 di effetti negativi» come la diminuzione delle nascite (per Volontè quelle "non naturali" probabilmente non si dovrebbero comunque contare).
In ogni modo, per un tecnico, la lettura delle proposte del comitato "Verità e vita" è esilarante. Intanto chiediamoci perché questa legge è tanto "uccisiva": la ragione sta tutta nel fatto che, secondo una radicata superstizione cattolica, l'embrione è uno di noi, fin dal momento in cui l'ovocita è stato adocchiato da uno spermatozoo intraprendente. Non ho particolare avversione per le superstizioni, ma mi piacerebbe molto se non diventassero leggi dello Stato. Se questo criterio si generalizzasse, dovremmo punire con almeno sei mesi di reclusione chi mette il cappello sul letto; e a dire il vero da bambino mi presi una solenne bastonata da mia madre perché avevo rotto uno specchio (sette anni di guai) e fui a lungo consapevole che se mio padre non fosse tornato dalla guerra, io ne sarei stato responsabile. Ma, per quanto mia madre lo desiderasse, la rottura degli specchi non è mai diventata un reato penale.
Le gemme di questa proposta sono numerose. Una tra tutte: c'è la richiesta di proibire una delle tecniche di Pma (Procreazione medicalmente assistita) perché provoca un numero di aborti troppo elevato: immagino che possa anche esser vero, ma avrei il diritto di sapere di quali donne si parla, che età hanno, qual è il rapporto tra questo tasso di abortività (cioè, per spiegarmi, di "uccisività" feto-embrionale) e quello considerato normale per le gravidanze spontanee delle donne della stessa classe di età, perché le cifre riportate nel testo sono prive di qualsiasi significato. Avrei anche il diritto di sapere chi è il consulente di monsieur Volontè, così, solo per divertirmi un po'. Non vorrei che questa moda delle parole create ad hoc - anche da un gentiluomo francese, non vedo alcuna differenza - si diffondesse.
Per precauzione, ho comunque cominciato a coniare neologismi personali, non si sa mai: proporrei, ad esempio, di chiamare "nascisti" gli antiabortisti più radicali, vista anche le loro frequenti contaminazioni politiche.
La seconda cosa che mi ha colpito è la grande attenzione che il ministero della Salute ha voluto riservare al problema delle linee guida, che dovrebbero essere rinnovate a giorni. Se ricordate, i dati dell'Istituto Superiore di sanità relativi ai risultati ottenuti in Italia dopo l'approvazione della legge 40 dimostrano, senza ombra di dubbio, che sta andando tutto a rovescio, meno gravidanze, più aborti, più complicazioni, un maggior numero di gravidanze multiple e, oltre a ciò, un grande numero di coppie che cerca fortuna all'estero, un nuovo turismo dei diritti del quale nessuno si cura (vero ministro Turco? Ma non eravamo di sinistra? Non avevamo a cuore le sorti dei diseredati?). Dal ministero è arrivata, come unico commento, una vera perla di saggezza: "E' un fatto che ci induce a ragionare". Rotolando qua e là, la perla ha eccitato la fantasia della senatrice Binetti che si è subito avventurata in una gioiosa esaltazione del ministro Turco ("quanto è bella, quanto è cara", conoscete l'aria); il comitato che sta preparando il programma del nuovo Partito democratico, dopo aver consultato "Scienza e vita", ha deciso di proporre, come nuovo simbolo unitario, un cilicio e un martello.
Intanto un amico mi ha mandato l'elenco dei commissari che stanno concludendo il loro lavoro su queste benedette linee guida, e subito ne è venuto fuori un mistero: il genetista è il professor Dalla Piccola, presidente (con la senatrice Binetti) di "Scienza e vita", indicato come rappresentante del Comitato Nazionale per la Bioetica. Poiché nessuno dei membri del Comitato ne sapeva qualcosa, abbiamo chiesto lumi al presidente ufficiale del Cnb Casavola, che si è posto al niego, secondo il saggio consiglio di Machiavelli: fatto si è che Dalla Piccola è lì e che gli altri genetisti presenti sono, se non erro, allievi suoi. Posso avanzare timidamente l'ipotesi che la commissione, almeno per quanto riguarda la genetica, sia un po' sbilanciata a favore del cattolicesimo più intransigente? Ne deduco che da queste nuove linee guida non arriverà niente di nuovo e ho la triste sensazione che, in termini di laicità, ci potevamo attendere qualcosa di più dal precedente ministro, il buon professor Sirchia. Si spengono così le mie residue (minime) speranze di veder inserire alcune modifiche che pure erano negli auspici persino dei parlamentari che hanno contribuito a preparare la legge: la definizione di una fase pre-zigotica; indagini genetiche sugli embrioni dirette alla sola informazione dei genitori; una più saggia articolazione del numero di oociti fertilizzabili. Tra l'altro, trovo nell'elenco dei membri della commissione il nome di persone che, a quei tempi, si erano dichiarate in favore di una o di un'altra delle modifiche che ho citato. Errori di gioventù.
Mi arrivano poi sul tavolo i consigli della commissione istituita dal Consiglio Superiore di Sanità per aiutare il ministero a compilare le nuove linee guida. Credo di non aver mai letto nella mia vita consigli altrettanto banali e irritanti: siate bravi, fate il vostro dovere e vedrete che le cose andranno meglio. C'è una sollecitazione a sperimentare il congelamento degli oociti, che dimentica che si tratta di un'iniziativa del ministro Veronesi del 2000; c'è un accenno a eseguire indagini sui globuli polari, che quasi tutti i centri maggiori stanno cercando di fare da anni tra molte difficoltà e con la consapevolezza del gran margine di errore che queste analisi contengono. Aria fritta
La cosa che mi ha irritato di più, in ogni caso, è stata una dichiarazione della senatrice Binetti che ha raccomandato alle coppie di non dimenticare la prevenzione, per non doversi ritrovare poi a piangere sul latte versato. In termini più concreti, la senatrice sta raccomandando alle giovani donne di non ammalarsi di leucemia, di non beccarsi l'endometriosi, di non farsi operare da medici disattenti, di non nascere con una malconformazione uterina. Ma chi l'ha eletta in Senato? Noi? E' ora di ripristinare l'autocritica.
Mi dispiace dove lasciare libero il mio fondamentale pessimismo, ma questa cattiva legge, che ha dimostrato di fare danni e di rendere ancora più complicato e doloroso il percorso delle coppie sterili, resterà immodificata per chissà quanto tempo ancora. Proveremo - non bisogna mai demordere - a portare almeno un paio delle norme più discusse davanti alla Corte Costituzionale; ragioneremo ancora sulla opportunità di tornare a un referendum; ma le probabilità, visto l'attuale clima politico, sono contro di noi. Al di là di questo, l'unica cosa possibile è quella di cercare -almeno cercare - di non mandare in Parlamento i cattolici più intransigenti e radicali, cosa che sarà resa particolarmente difficile dalla nascita del nuovo Partito democratico. E poi, per chi ci crede, ci sono ancora la rivoluzione e i miracoli, non saprei proprio a chi altri affidare le mie speranze di cambiamento.

Liberazione 10.8.07
Frase nazista di Gentilini e una idiozia di Caruso
I cretini d'agosto: di destra e di sinistra
di Piero Sansonetti

Quando ieri è arrivato in redazione il flash d'agenzia con le parole di Giancarlo Gentilini, ex-sindaco e ora vicesindaco di Treviso, le abbiamo lette e abbiamo fatto la solita smorfia di disgusto. Ci siamo detti che non c'era notizia, perchè ormai di simili truci idiozie il vicesindaco di Treviso - una delle figure più forti e rappresentative della Lega Nord - ne ha dette talmente tante che non si contano più e non sono nuove. Poi però abbiamo riletto la frase di Gentilini (« incaricherò i vigili di fare pulizia etnica dei culattoni ») che è una frase del tutto organica al pensiero nazista, e abbiamo pensato che l'abitudine all'hitlerismo non è mai una buona abitudine. E che ogni volta che qualcuno - della Lega o no - pronuncia frasi naziste come questa, o anche semplicemente frasi razziste - come spesso capita a Bossi a Calderoli e ad altri - bisogna avere la capacità e la forza di indignarsi come se fosse la prima volta.
E poi indignarsi non basta. Occorre pretendere dei provvedimenti. Le parole di Gentilini pongono alla destra una grandissima questione di responsabilità: sottovalutarle e considerarle un fatto di folclore sarebbe un errore tremendo. Perché condannerebbe questo paese ad avere una destra indelebilmente marcata dalla orrida cultura razzista o addirittura - come in questo caso - hitleriana. E a nessuno fa piacere vivere in un paese dove la destra è impresentabile. E tutta la battaglia politica, in ogni campo, viene contaminata e fatta degenerare da questo problema.
Io considero la Lega Nord una delle espressioni più lontane dal mio modo di pensare. Molte posizioni politiche della Lega - fondamentalmente la sua aspirazione a ottenere la supremazia delle province del nord, cioè delle province ricche sul resto del paese - secondo me sono fortemente reazionarie e da combattere con tenacia e anche con aggressività. Però, quelle, restano posizioni politiche legittime. Per capirci, quelle espresse, ad esempio, da Roberto Maroni o persino da Roberto Castelli. Quando invece la Lega accetta il nazismo di Gentilini, o il Calderoli antiislamico, o certe uscite razziste di Bossi o di Borghezio, è tutta la Lega a vedere messa in discussione la propria legittimità democratica, e di conseguenza tutta l'alleanza di centrodestra.
Finito questo ragionamento, piomba sui nostri tavoli una dichiarazione delirante e offensiva di Francesco Caruso - giovane deputato del Prc - che serve a ricordarci che la cretineria non è una esclusiva della destra. Caruso dice che l'ex-ministro del lavoro (Ulivo) Tiziano Treu e l'ex consulente del ministero (senza partito) professor Marco Biagi sono assassini. Perché?
Perché le leggi che hanno preparato (le leggi sul lavoro, quelle che regolano tra l'altro il lavoro a tempo determinato, cioè il lavoro precario) sono responsabili di 1.200 morti all'anno. Le dichiarazioni di Caruso provocano immediatamente molte reazioni, e allora lui le corregge e le modifica leggermente.
Sono idiozie pure, queste frasi di Caruso. Per due ragioni. La prima è che l'usanza di definire assassini gli avversari politici è una usanza "totalitaria", francamente insopportabile. Esistono gli assassini in politica, sono quelli che ordinano le uccisioni e gli stermini. Bene, sia chiaro: né Biagi, né Treu, e neppure l' odiatissimo Silvio Berlusconi sono assassini. Nessuno ci impedirà di svolgere polemiche ferocissime contro di loro, ma nessuno di loro è Pinochet. Quanto al professor Biagi, era un intellettuale assolutamente non violento, ed è stato ucciso. Chi lo ha ucciso è un assassino, non il professor Biagi.
Seconda ragione: le morti bianche, purtroppo, sono un fenomeno che precede - e di molto, molto tempo - le leggi di Treu e del ministro Maroni (cioè la legge 30 alla quale ha lavorato anche il professor Biagi, che tuttavia non ne è l'autore. Il suo nome viene usato, in una non elegante speculazione politica, da chi vuole ad ogni costo difendere la legge). Le leggi che hanno dato il via libero al precariato sono - credo - pessime leggi, che vanno cambiate dal centrosinistra, e anche per questo abbiamo convocato una manifestazione per il 20 ottobre. Però c'entrano molto poco con il fenomeno degli omicidi bianchi. I quali colpiscono quasi sempre o lavoratori a tempo indeterminato, regolari, o - la maggior parte delle volte - lavoratori clandestini, assunti a due lire da imprenditori senza scrupoli, che sono responsabili, certamente, di concorso in omicidio. Una parte consistente del nostro mondo imprenditoriale, che lucra e aumenta i profitti tenendo bassa la sicurezza sul lavoro, porta una gigantesca responsabilità personale per quelle 1200 morti all'anno. E' chiaro che è così, e che parlare di "casualità", ogni volta che cade un operaio, è una gigantesca ipocrisia, della quale, spesso, anche la stampa è complice. Le fesserie di Caruso certo non ci aiutano nella battaglia per rendere chiare queste cose.
P.S. Siccome Francesco Caruso è stato eletto deputato dal Prc, e siccome questo è il giornale del Prc, ci sentiamo in dovere di porgere le nostre scuse alla moglie e ai figli di Marco Biagi.

il manifesto 10.8.07
Resistenza. Giovanni Pesce si racconta
Giancarlo Bocchi*

Cronaca di un incontro, parlando di Spagna, antifascismo, piazza Fontana
L'occasione del dialogo con l'ultimo garibaldino, il comandante Visone, era il progetto di un film sulla vita di Guido Picelli, ucciso in Spagna dove combatteva per difendere la Repubblica. L'eredità di Pesce

«In combattimento andava avanti dritto, incurante delle pallottole che gli fischiavano intorno. Ci spronava dicendoci: "Avanti! Avanti!". Noi gli dicevamo: "Guido stai attento! Stai giù!" ma lui ci rispondeva: "Io non abbasso la testa davanti ai fascisti"». Così Giovanni Pesce ricordava Guido Picelli, il suo comandante del «Garibaldi» di Spagna che gli aveva insegnato a non abbassare più la testa. L'ultimo dei garibaldini di Spagna, il leggendario comandante partigiano dei Gap (Gruppi d'Azione Patriottica) di Torino e Milano, l'eroe della Resistenza, medaglia d'oro al valor militare se n'andato alcuni giorni fa. Il comandante Visone aveva ottantanove anni.
L'avevo incontrato poco tempo prima a Milano per parlargli del mio progetto di un film sulla vita di Guido Picelli e si era subito reso disponibile. Piccolo, minuto, non aveva l'aspetto dell'eroe, ma una tempra e un carisma eccezionali. Gli occhi intensi, pieni di forza e di vita scintillavano al ricordo della lotta in Spagna. Sembrava ringiovanire nel rivivere le battaglie di Mirabueno e San Cristobal combattute a fianco di una leggenda, il comandante Guido Picelli, l'unico che avesse sconfitto il fascismo sul piano militare durante le barricate di Parma dell' agosto 1922, respingendo, con 400 «Arditi del Popolo», 10 mila fascisti di Italo Balbo.
Le barricate di Parma
«Picelli ci raccontava delle barricate di Parma, del significato di quella lotta e del coraggio di tutto un popolo. Sono passati 70 anni - diceva Pesce - ma ricordo ancora che Picelli ci teneva a raccontare quella battaglia vittoriosa, per dare entusiasmo, coraggio e passione ai combattenti garibaldini». Picelli, autore di innumerevoli imprese contro il fascismo, era caduto il 5 gennaio 1937 durante l'attacco al monte San Cristobal. Pesce era lì vicino. Il fronte antifascista internazionale aveva perso un grande combattente, libertario, democratico, un uomo che tutta la vita aveva teorizzato la politica del Fronte Popolare.
Anche Pesce aveva vissuto una vita «senza tregua». Una definizione che aveva ispirato il titolo del suo libro più famoso. Originario del paese di Visone in Piemonte, da bambino era espatriato con la famiglia in Francia, nel bacino minerario di Grand Combe nella Linguadoca. Aveva scritto in un suo libro: «Per strada vidi i primi minatori. Le loro facce sembravano maschere e si fondevano con il nero degli abiti e dei berretti». Un posto pestilenziale, dove Gino, il fratellino piccolo, era morto quasi subito di polmonite. I minatori si ammalavano e morivano di silicosi o saltavano in aria per l'esplosione delle sacche di grisou. La povertà costringeva i minatori a mettere in vendita i figli nel mercato dei pantalons courts, dove i contadini ingaggiavano bambini sotto i tredici anni per i lavori nei campi. Anche Pesce, mentre il padre era nelle miniere di zolfo algerine, per aiutare la madre era finito a lavorare come guardiano di vacche in montagna. Ma dopo poco, a 13 anni andò in miniera: centinaia di metri sotto terra in mezzo a fango, polvere, con l'aria pregna di grisou. «Ero sicuro che sarei morto di fatica nel giro di pochi mesi». I minatori erano tutti comunisti, cercavano di organizzarsi contro lo sfruttamento e per abbattere la società capitalista.
Una sera, uscito sfinito dalla miniera, Pesce era entrato nella sede del Fronte della Gioventù e s'era iscritto. Quel giorno era iniziato il suo apprendistato di combattente antifascista. L'8 luglio 1936 il messaggio cifrato lanciato da Radio Ceuta - «Cielo sereno in tutta la Spagna» - cambiò la vita di Pesce e di tanti altri antifascisti. Era il segnale della sedizione dei generali capeggiati da Francisco Franco, spalleggiato da Hitler e Mussolini, contro il legittimo governo repubblicano. Il governo francese di Leon Blum si dichiarò neutrale. A Grand Combe i minatori si sollevarono in appoggio alla Spagna democratica, vi furono manifestazioni, comizi. Pesce era in prima fila. Due mesi dopo decise di partire per la Spagna. La madre pianse, tentò inutilmente di fargli cambiare idea. Partì il 17 novembre 1936 con il compagno e amico Carlo Pegolo.
Arrivato in Spagna, essendo troppo giovane per arruolarsi aveva falsificato i documenti per entrare nelle Brigate Internazionali e ad Albacete conobbe Guido Picelli , che addestrava i miliziani del «Battaglione Picelli» del Garibaldi. «Io non parlavo italiano, parlavo solo francese ma Picelli parlava francese. Mi chiamava il Boccia. Mi diceva: "Boccia stai attento", "boccia ascoltami". Picelli aveva un carattere umano, gentile, se un combattente aveva paura, con le sue parole gli dava coraggio».
Pesce ricordava i garibaldini infastiditi dalla disciplina, volevano combattere subito: «Volevano essere antimilitaristi, ma era venuti per fare una guerra, e per fare una guerra dovevano diventare soldati. Ci volle la pazienza di Picelli per trasformarli in miliziani disciplinati. I garibaldini furono trasferiti al Pardo e parteciparono alla difesa di Madrid. Nelle strade la popolazione riconosceva i fazzoletti rossi e gridava: "Viva Garibaldi. Salud companeros"». A Boadilla del Monte, il 17 dicembre 1936, aveva partecipato alla prima battaglia campale, un incubo: «Udivo colpi in partenza, i fischi laceranti e poi gli scoppi. Chi moriva subito faceva impressione, ma non quanto i feriti, molti dei quali urlavano, si trascinavano, tentavano di rimettersi in piedi e subito ricadevano». Pochi giorni dopo il Garibaldi era stato impiegato nella battaglia di Mirabueno. A dirigere l'operazione della XII Brigata Randolfo Pacciardi, a Guido Picelli il comando del battaglione. Ha scritto Pesce nelle sue memorie: «Picelli corre da una parte all'altra per impartire ordini... sembra che le pallottole non ne vogliano sapere di Picelli che come un'anguilla sfugge ai colpi del nemico». Ma dopo pochi giorni, il 5 gennaio 1936, sulle alture del Matoral Guido Picelli fu colpito a morte. «Io ero lì vicino - ricordava Pesce - è stato un dolore molto forte... era molto stimato, molto amato». Picelli ebbe funerali di Stato a Madrid, Valencia e Barcellona. A quest'ultimo avevano partecipato 100 mila persone.
Pesce combatterà per altri due anni: al Jarama, a Guadalajara, a Huesca, a Saragozza, su l'Ebro, ferito tre volte. Per tutta la vita porterà nella schiena le schegge di una granata che l'aveva colpito nella battaglia di Saragozza. Dopo tre anni di guerra era tornato in Francia e nel 1940 era rientrato in Italia. Dopo un mese la polizia segreta fascista l'aveva arrestato. Prima il carcere e poi il confino nell'isola di Ventotene. Pesce non parlava ancora l'italiano, qualcosa aveva imparato nella guerra di Spagna, ma a Ventotene, con l'aiuto di Eugenio Curiel e Alberto Grifone aveva fatto passi avanti. Il confino si trasformò in un'accademia politica di livello. Gli insegnanti erano uomini come Curiel, Terracini, Pertini, Li Causi, Secchia, Di Vittorio, Longo, Frausin, Scoccimarro.
All'alba del 26 luglio era giunto a Ventotene la notizia che il regime fascista era caduto. I confinati non furono liberati subito, Pesce era partito solo il 23 agosto. A pochi giorni dalla liberazione dal confino, ecco l'8 settembre. Pesce aveva deciso di agire e organizzò la prima riunione segreta di antifascisti al Cinema Garibaldi (poteva essere diversamente?) d'Acqui. Aveva vinto le perplessità di alcuni bordighisti attendisti, convincendo i presenti: era venuta l'ora di passare all'azione contro l'occupante nazista. Qualche sera dopo, un nugolo di nazi-fascisti aveva circondato il suo rifugio. Pesce era balzato dalla finestra scalzo, i pantaloni in mano, per dileguarsi nel buio della notte. Era ormai un clandestino. A fine settembre '43 fu convocato a Torino. Luigi Longo, suo comandante in capo in Spagna, aveva assunto il comando delle Brigate d'Assalto Garibaldi.
Pesce fu nominato comandante della Brigata Gap di Torino. Nelle varie città, quasi tutti i comandanti dei Gap provenivano dai garibaldini di Spagna. Ma chi erano i gappisti? Pesce: «Gruppi di patrioti che non diedero mai tregua al nemico: lo colpirono sempre, in ogni circostanza, di giorno, di notte, nelle strade delle città e nel cuore dei fortilizi». Il gruppo di gappisti di Torino era inizialmente composto solo da due persone: Pesce e un ragazzo di 19 anni. Ilio Barontini, il comandante che portò alla vittoria il Garibaldi nella battaglia di Guadalajara, gli aveva insegnò a costruire ordigni esplosivi. Con il nome di battaglia di «Ivaldi», Pesce s'era gettato in imprese temerarie, diventando un incubo per i nazisti. I Gap di Torino protessero gli operai in sciopero, attaccarono comandi nazisti, attuarono decine di azioni. Pesce agiva quasi sempre da solo, armato con due pistole. Erano otto le taglie sulla sua testa. Un giorno, il comando delle Garibaldi gli aveva ordinato di attaccare la stazione radio dell'Eiar che disturbava le trasmissioni di Radio Londra . Una missione rischiosissima. La stazione radio nella brughiera dello Stura saltò in aria, ma Pesce e i suoi 4 gappisti vennero circondati e illuminati con potenti fari. Pesce colpito alla gamba, sotto i colpi di mitraglia, riuscì a caricarsi in spalla il compagno Di Nanni, gravemente ferito, e insieme fuggirono rompendo l'accerchiamento .
Le signorine tritolo
Pesce era stato individuato. Fu trasferito a Milano al comando della III Brigata Gap, subentrando al comandante Rubini, suo compagno della guerra di Spagna, che arrestato e torturato era morto suicida in carcere. Organizzò un gruppo di sabotatori a Rho e iniziò la «guerra dei binari». Prese il nuovo nome di battaglia di «Visone» in omaggio al paese natio. Il suo gruppo, quattro ferrovieri e due staffette, «Sandra» e «Narva» («le signorine tritolo»), fece saltare treni, vagoni, centrali di smistamento, due quadrimotori parcheggiati all'aeroporto di Cinisello. I nazisti cercarono in tutti i modi di sgominare i Gap. Un giorno, Pesce ebbe l'impressione di essere pedinato. Strinse forte il braccio della staffetta che gli aveva appena portato un messaggio. Era Onorina Brambilla, detta «Nori» , nome di battaglia Sandra. «Perché - aveva chiesto Sandra - mi stringi così forte il braccio?». «Ho l'impressione che siamo pedinati. E' meglio comportaci come due innamorati». «Ma lo so - aveva detto Sandra - che non sei innamorato». Quella volta Visone e Sandra furono fortunati. Ma qualche giorno dopo, a causa di una spiata, Sandra, e l' altra staffetta Narva, furono arrestate e torturate dai nazisti per giorni e giorni. Sandra fu deportata nel campo di concentramento di Bolzano.
Per un periodo Pesce aveva dovuto lasciare Milano per Rho per comandare la 106º Brigata Garibaldi Sap. A dicembre 1944 era stato richiamato a Milano per organizzare l'insurrezione generale. Arrivò il 25 aprile, finalmente la Liberazione. Quel giorno Pesce aveva catturato un alto ufficiale tedesco, presuntuoso ed arrogante. Quando gli aveva detto nome e il grado - «Visone, comandante dei Gap» - il tedesco era quasi svenuto. Pesce mi veva accennato anche alla fucilazione di Mussolini: «Non è stato il colonnello Valerio (Walter Audisio) a sparare». Vista la mia curiosità, fece un sorrisetto misterioso e aggiunse solo: «E' stato Aldo Lampredi», un autorevole personaggio del Pci clandestino. Tre mesi dopo la fine della guerra, Pesce aveva sposato Nori, la staffetta Sandra, sopravvissuta al campo di concentramento di Bolzano.
Pesce iniziò a lavorare nel Pci. Erano anni difficili, anni di tensione. Nel 1948 gli era giunta una busta da Roma con la intestazione «Partito comunista italiano - la Direzione». Alcune settimane prima, il 14 luglio, Palmiro Togliatti aveva subìto un attentato. C'erano stati grandi tumulti, prossimi a sfociare nell'insurrezione spontanea. 3450 gli arrestati, i fermati o denunciati 7000. Nella busta partita da Roma c'era la nomina a capo di una commissione del Pci: Pietro Secchia lo incaricava della «commissione Vigilanza». Era responsabile della protezione dei massimi dirigenti del Partito Comunista.
Dopo qualche mese Secchia lo aveva presentato a Togliatti, ristabilitosi dall'attentato. Il «Migliore», che pare non amasse particolarmente gli uomini d'azione del «Vento del Nord», prediligendo gli uomini d'apparato, in quel caso, incontrando Pesce, gli aveva detto ammirato: «ti conosco, ti conosco soprattutto di fama».
Pesce aveva riunito gli uomini più fidati dei Gap, scegliendo come guardia del corpo di Togliatti Tino Azzini della III Gap di Milano, un partigiano coraggiosissimo che aveva resistito per giorni e giorni ai torturatori della Muti. In quel periodo Pesce fu anche incaricato di chiarire alcuni misteri. Mi aveva accennato a un'inchiesta sulla vicenda dell'oro di Dongo: «C'era un personaggio coinvolto. Ho scoperto che era sporco... che aveva nascosto una parte dei soldi nel giardino di casa sua». A metà degli anni Cinquanta, con il sesto senso che lo aveva salvato nella clandestinità, prima aveva sospettato e poi scoperto che stava per accadere qualcosa di poco chiaro nel partito. Informò Togliatti che lo invitò a rivolgersi a Secchia. Vedendo avverarsi i suoi timori, si era dimesso dalla Vigilanza per tornare con la moglie a Milano .
Non chiese nulla a nessuno. Si mise a scrivere il suo primo libro «Un garibaldino in Spagna», che uscì nel 1955, e per sbarcare il lunario diventò rappresentante del caffè Kluzer. Con questa attività riuscì a campare più che bene. Successivamente divenne presidente dei Metropolitani notturni, una cooperativa di guardie giurate che nel 1951 si era trasformata nell'Istituto Città di Milano.
Quel 12 dicembre a Milano
Per Pesce, come per altri comandanti partigiani, non si aprirono le porte del Parlamento o del Senato. Ma per il Paese è stato sempre pronto a rispondere alle trame antidemocratiche. Nel 1967 uscì con Feltrinelli il suo libro più famoso, «Senza tregua», letto dagli studenti del movimento ma anche dai teorici delle lotta armata, malgrado l'autore fosse totalmente contro la deriva terroristica. Furono anni terribili. Il 12 dicembre 1969, Pesce sentì un tuono lontano, un colpo secco, un'esplosione. Capì subito di cosa si trattasse. Dalla zona della stazione centrale si precipitò in centro. Riuscì a superare i cordoni di polizia a Piazza Fontana: «Nella mia non breve vita sono stato in guerra più di una volta e ho partecipato a parecchie tremende battaglie, ma mai avevo osservato uno spettacolo tanto terribile: corpi insanguinati, brandelli di carne disarticolati. Tornai nella strada non riuscendo a reggere quella vista».
In quegli anni guardò con simpatia ai movimenti, soprattutto a quello degli studenti. Fu sempre in prima fila a sostenere le ragioni della libertà e della democrazia. Un giorno di giugno del 1972 si era recato alla Statale per presiedere un dibattito. «Avevo detto solo alcune frasi ed ecco la polizia irrompere con i manganelli, con i gas lacrimogeni. Una baraonda, un caos, feriti». Aveva affrontato la polizia per mettere fine all'aggressione. Per fortuna era stato riconosciuto da un ufficiale: «Quello è Pesce, la medaglia d'oro. Lasciatelo passare». Il questore Bonanno si era scusato. L'anno dopo, mentre partecipava alla Bocconi a un'assemblea degli studenti per il Vietnam e la resistenza palestinese, sentì i botti dei lacrimogeni seguiti da spari di pistola. Vide uno studente cadere. Si chiamava Roberto Franceschi. I soccorsi dei compagni furono inutili, Franceschi aveva la testa devastata da un proiettile della polizia.
In quegli anni avvenimenti sanguinosi, misteriosi si susseguirono senza sosta. Pesce sapeva che si stava ancora combattendo. Era un guerra sotto altre forme, ma pur sempre una guerra. Durante il nostro incontro, sulla faccia di Pesce si era disegnato un sorriso stanco, poi preoccupato. Era tardi. Nori lo aspettava a casa. Mentre uscivano dalla sede della associazione dei combattenti volontari di Spagna, Pesce aveva lamentato dolori alla schiena. Le schegge della granata di Saragozza erano state tolte un anno prima, ma le antiche ferite gli procuravano nuovi dolori. Mi aveva salutato stringendomi la mano con forza. Aveva detto ancora una volta: «Picelli», con uno sguardo attento e il sorriso triste.
Oggi che gli anni del piano Solo, della strategia della tensione, delle stragi, dei progetti golpisti di Junio Valerio Borghese, dei militari felloni e della Rosa dei Venti, delle trame Sifar e Sid, dei piani di enucleazione dei politici di sinistra da rinchiudere alle Eolie o a Ponza, di Gladio, delle trame dell'Ufficio Affari Riservati degli Interni e delle strumentalizzazioni e manipolazioni di certi gruppi sembrano superati, bisogna rivolgere un riconoscente pensiero a Giovanni Pesce e a tutti quelli che come lui hanno vigilato durante il difficile dopoguerra per proteggere la democrazia in questo paese. «Tocca ai giovani continuare sulla strada maestra, ai giovani continuare la Resistenza», diceva Giovanni pesce, il comandante Visone.

*Regista

l’Unità 10.8.07
Piccoli contro Sarkozy: «Estremista di destra»
di Lorenzo Buccella

L’attore francese è al festival svizzero come protagonista di un film del regista curdo Saleem e per ricevere un premio alla carriera. E da qui si scaglia contro il neopresidente e contro la televisione

Locarno. «Sarkozy? Non è un uomo intelligente, ma furbo sì, un vero e proprio estremista di destra che fa di tutto per nascondere la sua natura, anche se credo che non ci riuscirà ancora per molto». Il ritratto lapidario e sulfureo, con annessa la cornice di stupidità attribuita a chi è andato a votare il nuovo presidente francese alle recenti urne, arriva da uno dei più grandi attori del cinema europeo come Michel Piccoli, convogliato ieri a Locarno attraverso la «rifrazione» di una doppia pista. Da una parte, quel presente che lo vede protagonista-mattatore del nuovo film del regista curdo Hiner Saleem Sous les toits de Paris, passato ieri tra le maglie del concorso con il tocco rarefatto di una pellicola «muta», vestita com’è sull’anziana fisicità del suo interprete. Dall’altra, e siamo nella parte più istituzionale, l’occasione in grande stile per un omaggio alla carriera, ovvero quell’Excellence Award con cui il festival va a gratificare i grandi attori del cinema. E Piccoli è senz’altro uno di questi, vivace come sempre ad affrontare qualsiasi argomento gli capiti a tiro con quella consueta ironia caustica che lo porta per un momento a equiparare italiani e francesi. «Sì, se abbiamo eletto Sarkozy, vuol dire che i francesi sono andati fuori di testa proprio come gli italiani con Berlusconi». Incipit, questo, di uno sguardo che torna spesso verso il nostro paese, in virtù dei legami contratti in passato con autori come Marco Ferreri (Dillinger è morto 1969, La grande abbuffata 1973). «Ferreri è forse la persona che più mi manca come regista e amico, uno dei pochi che sapeva indagare i rapporti tra uomo e donna con una libertà tanto provocatoria da rompere ogni schema convenzionale. È proprio ripensando al suo esempio e a quello di altri maestri, che adesso provo una grande tristezza nel vedere la condizione del cinema italiano di oggi, ormai diventato altra cosa. Forse sono state talmente forti le generazioni dei vari Fellini e Antonioni che inevitabilmente lo scarto contemporaneo risulta così prepotente. O forse è tutta colpa di Berlusconi…». Anche perché se c’è un «nemico pubblico» contro cui scagliarsi, Piccoli lo trova pienamente nella televisione. «La televisione ormai esercita su di noi una dittatura a livello creativo così come a quello politico ed economico. Fa propaganda, veicola i peggiori modelli, impone consumi e costumi, e, non da ultimo, uccide il cinema. Ovunque il fatto che il cinema dipenda dalla televisione per i finanziamenti fa sì che gli autori si debbano autocensurare e mortificare, piegando la schiena davanti agli stereotipi del formato richiesto». E quindi, strada libera solo ad attori giovani e bellocci e in pensione la vecchia guardia. Tutto per una volontà di piacere al grande pubblico che non è poi tanto diversa dalla volontà più generale di un «rincoglionire». «Ormai il terrorismo culturale - precisa Piccoli - prodotto dal piccolo schermo ha cambiato anche il modo di parlare. Una volta si esclamava "il Signore ha detto", ora invece il nuovo intercalare "religioso" si è trasformato in un "l’hanno detto in tivù". E non è un caso, dunque, se il grande cinema di oggi non venga più realizzato nella vecchia Europa, ma affiori dalle terre lontane di Cina, Corea e Iran. Proprio là dove s’incontrano ancora registi che hanno voglia di scoprire e mostrare i meandri più segreti della vita. Tutti film che, a parte nei festival, da noi si vedono poco o niente perché soggetti al pregiudizio che la nostra platea televisiva non capisca il loro mondo. Forse bisognerà aspettare che muoiano i vari Hou Hsiao-Hsien per poter dire "c’era una volta il grande cinema di…", esattamente come si è fatto con Fellini e Bunuel».

l’Unità 10.8.07
Linneo, lo scienziato che sfidò il colonialismo
di Franco Farinelli

Terzo centenario della nascita del naturalista, la cui fama è legata al sistema di classificazione. Ma, con gli occhi di oggi, i suoi studi ci dicono di più: in un’epoca di ideologia di rapina, sognava una Svezia che auto-producesse perle e cannella

Per lui i bisogni umani potevano conciliarsi col mondo naturale
Un pensiero opposto alle teorie di Smith e dei mercantilisti

La sua nomenclatura in base alla forma degli organi sessuali fece scandalo. Kant invececriticò la sua «economia della natura»

Spiegava Matisse ai giovani artisti che per apprendere qualcosa da un maestro bisognava studiare i suoi fallimenti e i suoi tentativi, non i successi e le riuscite. La stessa cosa sosteneva, in fondo, Alexandre Koyré nel negare ogni validità, nella storiografia scientifica, all’idea di «precursore»: indicare qualcuno come tale rispetto a qualcun altro comporta inevitabilmente l’impossibilità di comprendere ambedue. Ne consegue che la migliore e più efficace valutazione del ruolo e della funzione di uno scienziato dipende prima d’altro dall’intelligenza di quelli che oggi sembrano i suoi errori e dalla spiegazione del perché non ha scoperto quello che pure avrebbe potuto: soltanto in tal modo, paradossalmente, può emergere la sua attualità, l’interesse e l’utilità ai giorni nostri di quel che a suo tempo ha scritto e ha fatto. Com’è il caso di Linneo, il celebre naturalista svedese di cui ricorre quest’anno il terzo centenario della nascita e che tutto il mondo occidentale in queste settimane festeggia.
Ancora adesso la fama di Linneo resta legata all’uso della nomenclatura binomiale, alla pratica di designare le specie della flora e della fauna con un codice formato da due parole in grado di indicarne il posto all’interno di una gerarchia, il nome del genere e l’attributo della specie, sicché ad esempio il comune orzo diventa, per distinguerlo dalle altre varietà, Hordeum vulgare. Anche le nuove forme di vita, più o meno chimeriche, che ogni giorno s’inventano nei laboratori di genetica vengono etichettate in questa maniera, secondo una tecnica che non ha mai smesso di essere funzionale, e che dipende da un’idea molto semplice, dalla riduzione dello spazio riempito di cose terrestri (come dicevano i geografi tedeschi) ad un’unica mappa, anzi alla mappa politica della Terra stessa - sorprenderà qualcuno apprendere che ancora nel Settecento di nessun paese esistevano carte soltanto fisiche ma ogni rappresentazione cartografica, diretta emanazione del potere esistente, riproduceva anzitutto il volto di quest’ultimo, sicché ogni mappa delineava prima d’altro i confini degli stati aristocratici: la carta fisica cioè spoglia di ogni elemento che non fosse naturale, quella su cui per prima a scuola abbiamo appreso da piccoli la geografia, è stata la faticosa conquista ottocentesca, scientifica ed insieme politica, delle borghesie nazionali. Nella sua più importante opera teorica, la Philosophia Botanica del 1751, Linneo non potrebbe essere più perentorio e preciso: i cinque livelli in cui si articola il proprio sistema di classificazione (le classi, gli ordini, i generi, le specie, le varietà) altro non sono che la traduzione, termine a termine, del sistema amministrativo dei primi stati moderni così come raffigurato sulle mappe, dove ogni formazione politica appariva suddivisa in cinque ambiti via via più ristretti, vale a dire il regno, la provincia, il territorio, il circondario, il villaggio.
Così il sistema di Linneo rivela in controluce tutte le caratteristiche della logica cartografica da cui immediatamente deriva, come una specie di consapevole e ragionata esplicitazione: 1) tutti i nomi sono nomi propri, come soltanto su di una mappa può accadere, e questo in un’epoca e in un paese in cui i nomi propri delle persone erano ancora quasi soltanto dei patronimici come ad esempio Pietro (figlio) di Giovanni e gli equivoci erano perciò normali, sicché la nomenclatura degli esseri umani non poteva costituire il modello perché lo stesso nome veniva riferito ad individui diversi; 2) il procedimento è dicotomico cioè binario (o A o B, o qui o là), come accade soltanto al segno grafico su una carta, dove esso o c’è o non c’è. L’efficacia di tale sistema, pensato come universale, e dunque il suo successo, riposava sulla sua semplicità e praticità, sulla forma antiretorica della sua retorica. Anche per tal motivo non mancarono critiche, sebbene già alla metà del secolo Linneo fosse generalmente riconosciuto in tutta Europa come il più grande botanico mai esistito. Non mancò chi lo accusò di immoralità, poiché il criterio di distinzione dei vegetali riguardava la forma dell’organo sessuale. Altri ritennero impossibile la messa a punto di un ordine uniforme e pronto all’uso relativo alla straordinaria diversità dei lineamenti terrestri, e se per caso possibile comunque non comunicabile ad altri. La critica più sottile e ficcante gliela rivolse per anni, all’inizio delle sue lezioni di geografia, Emanuele Kant, in modo allusivo ma non per questo meno preciso. Per Kant, che a Linneo in ogni caso fin dall’inizio fa tanto di cappello, esistono due tipi di classificazione, logica o fisica. La prima, appunto quella della «grande economia della natura» di marca linneana, è come un registro o un inventario di cose isolate, cioè deportate dal loro contesto e artificialmente raggruppate secondo il principio della somiglianza o dell’affinità (nel caso particolare: forme simili dell’apparato di riproduzione) in un sistema, al cui interno possono trovarsi piante che sulla Terra crescono agli antipodi, l’una poniamo nei deserti caldi e l’altra nella semicongelata tundra artica. Kant non contesta affatto che debba essere questo il metodo della classificazione scientifica: esso ha prevalso, e sta bene così. Però egli avanza un’altra possibilità, quella appunto della classificazione fisica che è dei saperi come la storia e la geografia e non delle scienze, e che «segue nella descrizione delle parti le leggi e l’ ordine della Natura stessa», cioè «rappresenta le cose naturali secondo il luogo della loro nascita, o i luoghi sui quali la natura le ha collocate»: insomma, così come davvero esse esistono l’una accanto all’altra. Si prenda ad esempio, per fare prima, la macchia mediterranea: le sue essenze, gli arbusti e gli alberi di cui si compone, appartengono secondo il sistema botanico, la cui logica è ancora quella di Linneo, a classi, ordini eccetera differenti; ma secondo la classificazione pensata da Kant dovrebbero formare un’unica famiglia, perché di fatto vivono insieme.
Ne va, come si comprende, di una questione decisiva, della ragione della differenza tra la visione scientifica del mondo e quella che invece abbiamo al mattino spalancando la finestra, quella della gente che scienziata non è. Ma adesso importa altro. Il riserbo di Kant, il suo limitarsi a porre il problema, risentiva della centralità nel pensiero di Linneo di una convinzione fondamentale e che giustificava l’intero suo studio: che tutte le piante o quasi fossero globalmente adattabili, che dunque quelle del Mediterraneo e dei Tropici potessero acclimatarsi, con il tempo e le cure, nelle zone boreali. Davvero Linneo credeva che le coste del Baltico, la Finlandia, la Lapponia potessero un giorno coprirsi di piantagioni di tè, di campi di riso, foreste di cedro, distese di zafferano- che dunque ogni pianta potesse stare vicino a qualsiasi altra. E credeva questo perché convinto, a differenza dei mercantilisti e di Adam Smith, che la grandezza dell’economia globale fosse statica, il commercio e in genere il terziario qualcosa di superfluo anzi parassitico, che il gioco economico fosse in fin dei conti a somma zero e che in ogni caso esso non consisteva nell’efficiente allocazione di risorse scarse a fronte di una domanda infinita bensì nella conciliazione, tecnologicamente avanzata, dei bisogni umani con il mondo naturale. Perciò invece di suggerire al proprio paese la conquista di un impero transoceanico, sull’esempio delle altre potenze coloniali come l’Olanda e l’Inghilterra, egli convinse la corte, il parlamento, le università e la società svedesi della bontà e della fattibilità del processo esattamente inverso: coltivare in Svezia le piante asiatiche e americane, e anche le perle, sostituendo in tal modo le importazioni con la produzione domestica. Invece di proiettare una piccolissima parte della Terra sulla Terra intera, si trattava di fare il contrario, far entrare la seconda dentro la prima. Naturalmente (e su questo avverbio vi sarebbe da riflettere) non funzionò, e una dozzina d’anni dopo la morte di Linneo, avvenuta nel 1778, anche la Svezia si convertì all’imperialismo economico. Proprio perché già sentiva l’odore dei boschetti di cannella lappone Linneo non perse tempo ad approfondire quel che aveva per primo compreso (i meccanismi dell’interdipendenza tra le specie, come riconobbe Darwin), pensato (la lotta integrata, vale a dire la distruzione degli insetti nocivi alle piante attraverso altri insetti), scoperto (la dendrocronologia, cioè il fatto che gli anelli interni alle piante registrano l’età dell’individuo e i modelli d’evoluzione del clima). Ma questo soltanto perché il problema di Linneo era esattamente quello che oggi abbiamo di fronte, e richiede con urgenza una soluzione: la mediazione tra la sfera economica del globale e quella del locale. La risposta di Linneo fu il tentativo di costruzione di una modernità al cui interno il primo fosse per così dire sottomesso al secondo, contenuto in esso, all’opposto di quel che poi di fatto avvenne. Celebrare oggi la sua opera vuol dire anzitutto ricordare che, comunque, nel passato le cose sarebbero potuto andare diversamente, e che bisogna sempre pensare possibilità opposte a quel che sembra assodato: oggi che i progressi della genetica rendono molto più plausibile pensare la convivenza tra renne e cannella e abbiamo il disperato bisogno di pensare che le cose in futuro potranno andare in un altro modo, che un altro mondo è ancora possibile. La storia è una grande improvvisatrice, insegnava Cinzio Violante. Figuriamoci la geografia.

giovedì 9 agosto 2007

Repubblica 9.8.07
Il tossico parla in greco antico
La voluttà nichilista che assedia i giovani
di Umberto Galimberti


"Il piacere è negativo e il desiderio è insaziabile" è una formula che deve molto al pensiero di Platone
Freud invitava a piegarsi al principio di realtà : per godere bisogna fare uno sforzo
Chi si inietta eroina parla di "bucarsi", il corpo si fa abisso il cui etimo è "senza fondo"

Il consumo della droga è in continuo aumento. I danni, anche se non immediatamente avvertiti, sono spaventosi. Una voluttà nichilista sembra pervadere la nostra società, soprattutto nella sua fascia giovanile, senza che adeguati rimedi appaiano disponibili e soprattutto efficaci. Siccome sono persuaso che l´uso ormai così diffuso della droga non dipenda tanto da un disagio «esistenziale» quanto «culturale», in questa serie di articoli vorrei affrontare il problema della droga con gli strumenti che la nostra cultura, anche se appare ormai esangue, sembra ancora in grado di offrire.
Incominciamo col dire che, non solo nel caso della droga, ma in generale, «il piacere è negativo e il desiderio è insaziabile».
Questa formula, che ogni tossicomane conosce, riproduce esattamente quanto la filosofia dell´Occidente ha pensato intorno al piacere e al desiderio. Già Platone, indagando la natura del desiderio, ne ha colto l´essenza nell´«insaziabilità», perché il desiderio è «mancanza», è «vuoto», da pensare non come uno stato stabile contrario al pieno, ma come uno stato insaturabile che si svuota man mano che cerchiamo di riempirlo, come la «giara bucata», per stare alle immagini di Platone, o come il «piviere»che è quell´uccello che mangia e nello stesso tempo evacua.
Iniettarsi eroina si dice in italiano «bucarsi». Il corpo si fa «abisso» che etimologicamente significa «senza fondo». Allo stesso modo in francese «essere alcolizzato» si dice «bere come un buco (boire comme un trou)». Tossici e alcolizzati parlano in greco antico e descrivono la loro incapacità di «contenere» con immagini platoniche.
La tossicomania sembra infatti incarnare alla lettera la teoria platonica del desiderio che fa della mancanza non il motore della ricerca della felicità, ma quella «belva dispotica e indomabile che spinge ad aggrapparsi ad essa senza poter più tendere ad altro». Sotto questa forma il desiderio ci fa provare un dolore insopportabile eppure irresistibile, e il piacere che ne segue è cessazione di questa pena, anestesia, piacere negativo, come dopo la prima dose, quando quella successiva non porta voluttà, ma evita la caduta nella sofferenza, perchè fa cessare il dolore fisico e fa da sedativo al male di vivere di cui non ci si prende più cura.
«Cura» in tedesco si dice Sorge, e Freud, dopo aver fatto uso per diverso tempo di cocaina, chiama la droga Sorgenbrecher, ciò che consente di «scacciare i pensieri», di non «prendersi cura» e, come lui stesso scrive, «il più antico rimedio contro il disagio della civiltà». Così dicendo, Freud, dopo aver indicato con tanta precisione la malattia chiamata «uomo», include il ricorso alle droghe in una prospettiva culturale, e in proposito scrive: «Gli effetti prodotti dagli inebrianti nella lotta per conquistare la felicità e per difendersi dalla miseria vengono considerati talmente benefici che gli individui e i popoli hanno loro riservato un posto ben preciso nella loro economia libidica. Con l´aiuto dello scacciapensieri (Sorgenbrecher) sappiamo dunque di poterci sempre sottrarre alla pressione della realtà e trovare riparo in un mondo nostro, che ci offre condizioni sensitive migliori. E´ noto che proprio questa caratteristica degli inebrianti ne costituisce in pari tempo il pericolo e la dannosità. Per colpa loro in talune circostanze si sciupano inutilmente grandi ammontari di energia che potrebbero essere utilizzati per il miglioramento della sorte umana».
Come per Aristotele, anche per Freud, infatti, il piacere è il primo principio della vita psichica, nonché il movente più forte dell´azione umana, ma sia Aristotele sia Freud distinguono il piacere «immediato» dell´infanzia, dal piacere adulto che nasce dal «differimento» del godimento, spostato su oggetti compatibili con il mondo, con gli altri e soprattutto con l´autoconservazione.
Qui cade la differenza instaurata da Freud tra il principio di piacere (infantile) e principio di realtà (adulto) che non è negazione del piacere, ma suo «differimento», perché non tralascia la cura di uomini e cose, ma cerca il piacere attraverso questa cura, fattore essenziale di ogni vicenda umana. Quindi congedo dalla «non-curanza», per abituarci a «prenderci cura» dei nostri piaceri, non nella forma «an-estetica» della soddisfazione immediata come fanno i bambini, ma in quella «estetica» nell´accezione greca dell´«aisthesis» o sensazione, che percorre la gamma che dal «sensibile» giunge al «bello».
Il tratto «anestetico» non è tipico solo delle droghe, ma anche degli psicofarmaci per il loro valore anestetizzante e quindi «nichilistico». In questo modo la differenza tra droghe e farmaci sfuma, perché la neurofarmacologia ci invita a pensare che esiste una corrispondenza qualitativa tra i composti chimici che assumiamo e quelli che fisiologicamente agiscono sulle cellule cerebrali per regolare le nostre gioie e i nostri dolori. Così la neurofarmacologia razionalizza i comportamenti tossicomani e, a sua insaputa, contribuisce alla loro sdrammatizzazione, perché riconosce l´intenzione ragionevole del gesto medico o autoterapeutico che consiste nel modificare la sensibilità del corpo.
In questo modo, come scrive lo psichiatra Edward Khantzian: «Il tossicomane non appare più come un immaturo che regredisce e si comporta in modo irrazionale, bensì come un adulto che individua un disagio, sceglie un rimedio specifico, si cura e si limita ad anticipare il medico con un prodotto il cui unico difetto è di essere inadeguato in quanto mal dosato».
Dello stesso avviso è il neuropsichiatria Peter Kramer per il quale: «Il paziente anedonico, così chiamato per la sua incapacità di provar piacere, che assume il prozac e il cocainomane che assume la droga tentano entrambi di compensare la loro mancanza di capacità edoniche. La finalità del loro gesto è identica».
Entrambi, infatti, vengono a compensare un´incapacità di felicità, non attraverso un coinvolgimento nel mondo, ma attraverso un godimento appetitivo e consumatorio della vita, che Platone rubrica tra le esperienze «miste e impure», caratterizzate cioè dall´insaziabilità del desiderio e dalla negatività del piacere.
La «macchina del nulla» che avvia questo circolo vizioso inabissa il tempo in un´ossessione volta alla ricerca del prodotto che promette la liberazione da ogni «cura», innescando quella meccanica della ripetizione, che Freud chiama «coazione a ripetere», dove l´insaziabilità della pulsione si scontra con l´inadeguatezza dell´oggetto e quindi con l´impossibilità del godimento.
A questo punto il desiderio che, come ci ricorda Platone, è fatto di «mancanza» e di «nulla», chiede che si aumenti la dose, per cui in un certo senso la tossicomania riprodurrebbe, come nessun´altra cosa, il perfetto funzionamento del desiderio, che non cerca il piacere nel mondo, ma l´estinzione rapida e immediata di quella «mancanza» che è la sua struttura costitutiva. Nessuno infatti desidera ciò che ha, ma solo ciò che non ha. Il nulla è l´anima del desiderio che, nella sua versione anestetica, rende l´appetito irresistibile e il piacere insoddisfacente.
Sulla natura «insaziabile» del desiderio, i tossicomani sono d´accordo. Lo sanno anche se non hanno letto Platone. E´ la droga ad averglielo insegnato. E a proprie spese hanno imparato che «ci si droga per essere assuefatti» come scrive William Burroughs ne La scimmia nella schiena (Rizzoli), e che darsi alla droga è un «full time job, un lavoro a tempo pieno» come dice Mark Renton in Trainspotting. Ma siccome il tempo è la nostra vita, e la nostra vita siamo noi, la tossicomania, come rimedio al dolore, invoca per sé un altro rimedio.
Platone contro l´insaziabilità del desiderio consigliava il pensiero, Freud invitava a piegarsi al principio di realtà, nel senso che per godere bisogna fare uno sforzo. E allora contro la voluttà degli «scacciapensieri» o Sorgenbrecher, come li chiama Freud, che sono tanto le droghe quanto i farmaci così agognati dal nostro cervello che sembra ce la metta tutta per diventare cronicamente desiderante, l´antropologa Giulia Sissa consiglia: «Mettiamoci a sedurre uomini, conquistare donne, guadagnare denaro, scrivere un libro. Passiamo attraverso le persone e le cose. Dopotutto - ed è appunto il "dopo" che conta - si gode di più».
Un modo per dire: «non ripudiamo il nostro desiderio», ma per evitare che, dall´abisso della negatività che lo costituisce, il desiderio si faccia insaziabile e cerchi nella droga o nel farmaco quel piacere negativo che consiste nel riempire la «giara bucata», facciamolo passare attraverso le persone e le cose. Il piacere, infatti, va assecondato, non negato. Si tratta solo di indicargli la via come l´auriga di cui parla Platone la indica al cavallo indomito.
E questo va raccomandato soprattutto alle campagne pubblicitarie che, con le loro minacce e le loro raccomandazioni tautologiche del tipo «just say no (dì di no e basta)», mancano di efficacia perché, trascurando la natura del desiderio e la qualità del piacere, dicono cose in cui sono del tutto trascurati gli incanti della vita. E ognuno sa che, senza incanti, la vita non ha più voglia di vivere.

(1-continua)


Repubblica 9.8.07
D'Alema sprona i giovani "Lottate come noi nel 68"
Capanna: "Bravo Massimo". Ma Revelli: "Abbiamo fallito"
Le critiche di Sansonetti: "Generazione di arroganti"
di Alessandra Longo

ROMA - I giovani del ´68 accettarono la sfida fino in fondo, il cambiamento se lo conquistarono sul campo, «rumorosamente». Ma quelli di adesso? Stanno facendo altrettanto? Massimo D´Alema riconosce che «l´Italia è abbastanza off limits per loro sia in politica che in economia» ma dice anche: «Devono farsi avanti e combattere per il loro futuro, come ha fatto la nostra generazione». Sono riflessioni contenute in un´intervista a «Gente» e suonano come un invito a buttarsi di più, a non mollare la presa, ad imitare la grinta, la determinazione dei cinquanta, sessantenni di oggi. Insomma, il messaggio è: fate come abbiamo fatto noi, «abbiamo lottato a partire dal´68 e, nel bene e nel male, abbiamo fatto, rumorosamente, strada».
Il ´68 vissuto ancora come il modello più riuscito di ribellione alla società dei potenti e alle sue ingiustizie. E´ così? Se chiedi ai sessantottini di commentare la frase di D´Alema non trovi cori unanimi di nostalgici. Marco Revelli, per esempio, docente di Scienza della Politica all´Università del Piemonte orientale, uno che il ´68 l´ha fatto a Torino, «e non rinnego niente», scuote la testa: «Non penso che la nostra generazione abbia avuto un grande successo. Il fallimento, la responsabilità, li sento sulla pelle. Non siamo stati un gran modello, l´Italia che abbiamo prodotto è un´Italia che fa schifo, un´Italia di potere che non invoglia un giovane a mobilitarsi. Motivi di rivolta, di ribellione, ci sarebbero. Ma penso anche a come è andata a finire a Genova, al G8. Il primo battesimo pubblico per molti ragazzi è finito con le torture e dopo quegli episodi, e nonostante il cambio di governo, nessuno è stato punito. Che messaggio è arrivato alle nuove generazioni da un´esperienza così traumatica?».
Il ´68 grande occasione perduta, secondo Revelli, e i giovani di oggi lasciati soli, "disattivati" quando rompono troppo gli schemi. «No, non è vero, al mio amico Revelli rifarei la domanda - sbotta Mario Capanna - sei sicuro che quest´Italia che fa schifo sia stata prodotta da noi e non, piuttosto, dalla reazione a noi, al nostro mondo?».
D´Alema ha toccato un tema che vibra ancora, 40 anni dopo. «Sottoscrivo questo suo richiamo alla capacità di lotta del 68», dice Capanna, che spiega: «Dialogo molto con i giovani, nelle scuole e nelle università. Da una parte, è vero, ci sono i bolliti, impregnati di un microconsumismo volgare, irrecuperabili, anche se non è colpa loro, ma dall´altra ci sono ragazzi inquieti, che s´interrogano. Movimenti come quello dei new global, che si batte per una globalizzazione democratica, sono l´emblema di questa reattività e dentro c´è tanto ´68». Ammette Piero Sansonetti, direttore di «Liberazione»: «Anche a me vien da dire: "Ragazzi, forza, sconfiggeteci!" La frase di D´Alema mi tenta ma, alla fine, sento un fondo di arroganza». Arroganza, «baldanza»: ecco il difetto, secondo Sansonetti, di una generazione «fortunatissima, nata fuori dalla barbarie di Auschwitz, Hiroshima, Stalin, generazione reattiva, sconvolta dalla storia dei nostri padri. Generazione che ha fatto piangere tutti, i preti, i banchieri, la polizia. Generazione che, però, pensa di essere perfetta, di aver concluso la storia e dunque se ne fotte del futuro dei giovani». «E´ proprio così - concorda Nicola Fratoianni, 32 anni, segretario regionale di Rifondazione in Puglia - Sono convinti che con loro sia più o meno finito tutto. E invece ogni generazione ha le sue modalità di protesta, fa la sua strada. I movimenti antiglobalizzazione sono una grande esplosione di vitalità».
«Non esistono generazioni migliori delle altre, pensarlo sarebbe razzismo», dice Sansonetti. Vinicio Peluffo, diessino, responsabile del Comitato romano per Veltroni leader del Pd, è nato tre anni dopo il ´68. «Non sono più giovane da un po´ - precisa - ma questi giovani li vedo. Fanno la loro battaglia, che è diversa. La generazione del ´68 si è affermata collettivamente. Erano in tanti, anche dal punto di vista demografico. Quelli dopo hanno fatto percorsi diversi, hanno spesso scavato il proprio spazio in solitudine». Lottano a sufficienza? «Lottano per far saltare una società a numero chiuso, dove si entra solo per cooptazione e, quando si entra, lo si fa uno alla volta. Vogliono nuove regole più giuste, più aperte. Anche se le regole non bastano, ci vuole il coraggio di far saltare il banco». Più o meno quel che suggerisce D´Alema.

Liberazione 9.8.07
99/99/9999 la data impossibile della vergogna dell'ergastolo
di Sandro Padula

In Italia, già qualche anno prima del 2000, il Ministero della Giustizia usava un determinato software per elaborare il modello del certificato di detenzione.
Per il fine pena dell'ergastolano fu trovata una soluzione numerica che potesse apparire equivalente alla parola mai usata prima dell'informatizzazione. Da qui nacque il fine pena 99/99/9999.
99/99/9999 presuppone che un mese sia composto di almeno 99 giorni e l'anno abbia almeno 99 mesi e quindi, come minimo, 9801 giorni.
Ma quando i presupposti sono falsi e sconcertanti, tutto diventa falso e sconcertante.
Di fronte al certificato di detenzione con il fine pena al 99/99/9999, immagino la faccia di quegli italiani condannati all'ergastolo in Germania che, dopo una decina di anni nelle carceri tedesche, hanno avuto la malaugurata idea di farsi trasferire in qualche carcere italiano.
Il fine pena dell'ergastolano in Italia, a differenza di quello relativo all'ergastolano in Germania che con la buona condotta finisce generalmente dopo 15 anni e costituisce una data vera e precisa, è una non-data, l'apoteosi della metafisica del diritto penale.
Nel nostro paese, con la buona condotta l'ergastolano potrebbe ottenere la libertà condizionale dopo 26 anni, ma solo a discrezione dei magistrati di sorveglianza. Per questo motivo fondamentale esiste il fine pena 99/99/9999 e ci sono tanti ergastolani che stanno in carcere da oltre 30 anni!
Perché l'Italia è sempre in ritardo politico e culturale sulle questioni del diritto rispetto alla stragrande maggioranza dei paesi dell'Unione europea?
Tempo fa ho ricevuto una lettera in cui mi veniva rivolta questa critica: tu dici che l'ergastolo andrebbe abolito, ma ci sono reati come il sequestro e l'uccisione di un bambino che fanno venire dubbi sulla necessità di abolire l'ergastolo.
Ebbene, diciamolo una volta per tutte. Come dimostra la sentenza del 18 giugno 2007 relativa al processo con "rito abbreviato" per il sequestro e l'uccisione del piccolo Tommaso Onofri, chi accetta le logiche mercantili del " do ut des " del diritto penale vigente viene condannato a pene detentive di circa 20 anni per i reati di sequestro e uccisione di un bambino. Non viene condannato all'ergastolo.
Se la pena detentiva per il sequestro e l'uccisione di Tommy è stata di 20 anni, per quale motivo esistono pene detentive superiori per chi non ha commesso il più crudele e cinico dei reati degli ultimi due decenni? Per quale motivo esiste ancora l'ergastolo?
Il fine pena 99/99/9999 ce l'hanno oltre 1200 persone.
Ce l'hanno anche persone effettivamente responsabili di omicidi, ma che agirono in stato di coscienza alterato o irritato e in circostanze molto particolari.
Ce l'hanno circa 55 prigionieri che, come me, fecero parte delle Brigate Rosse e che, mentre si assunsero le responsabilità politiche di ogni azione compiuta dalla propria organizzazione, furono condannati quasi sempre senza alcuna prova concreta che non fosse il sentito dire di qualche "pentito" dell'ultima ora.
Ce l'hanno pochissime persone condannate per stragi che (dal 12 dicembre 1969 al due agosto 1980) hanno costituito la "strategia della tensione" e i cui mandanti ed armieri, una volta scoperti, si mascheravano da "pentiti" perché facevano parte di (impunite) strutture armate clandestine anti-sinistra come Gladio ed avevano amicizie con ufficiali residenti nelle basi militari Usa e Nato in Italia come quella di Vicenza che oggi qualcuno vorrebbe far raddoppiare.
Ce l'hanno coloro che, come dimostrano quintali di pagine processuali, furono condannati senza prove sufficienti e sulla sola base delle accuse di "pentiti" responsabili di numerosi crimini e a volte perfino pluriomicidi.
Ce l'hanno persone che non hanno usufruito di processi con "rito abbreviato e patteggiamento" e hanno rifiutato di diventare "pentiti" o "dissociati".
Ce l'hanno persone che non avevano i soldi per pagare un buon avvocato.
Ce l'hanno coloro che non hanno potuto "patteggiare" (perché condannati prima del nuovo codice di procedura penale), che hanno deciso di non "patteggiare" o che hanno rifiutato ogni forma di abiura.
Il fine pena 99/99/9999 è una tortura psico-fisica di lunghissima durata. È il bollare un essere umano per tutta la sua esistenza e anche oltre di essa. È l'esatto contrario del diritto alla vita. È la violazione di ogni Costituzione esistente nell'Unione Europea. È la più infame delle ipocrisie prodotte dallo Stato italiano negli ultimi secoli. Perché, si badi bene, nell'Unione europea è monopolio esclusivo dell'Italia!! Una vergogna di cui si parlerà anche nei prossimi secoli!
Smettiamola di tirare sassolini negli stagni! Tiriamo macigni culturali per delineare nuovi orizzonti politici!

mercoledì 8 agosto 2007

l’Unità 8.8.07
«Via Rasella legittimo atto di guerra»:
il Giornale condannato
La Cassazione, sì al risarcimento del gappista Bentivegna
diffamato da un articolo: non ha colpe per le Ardeatine
di Anna Tarquini

NESSUNO CALPESTI PIÙ la storia. E nessuno osi equiparare i nazisti ai partigiani. L’attentato di via Rasella fu un legittimo atto di guerra contro un esercito straniero occupante. Ci sono volute quattro sentenze, ma ieri la Cassazione ha messo la parola fine a una vecchissima polemica che vede chiamato in causa - da diversi giornalisti ma soprattutto da Il Giornale di Vittorio Feltri - il gappista Bentivegna. La chiude per sempre perché condanna chi in questi anni ha scritto che Rosario Bentivegna era «il solo responsabile» dell’eccidio delle Fosse Ardeatine in quanto autore dell’attentato in via Rasella. L’attentato del 24 marzo ’44 - scrive la Cassazione - attuato dai partigiani romani guidati da Rosario Bentivegna contro i tedeschi del battaglione «Ss Bozen» era diretto a colpire unicamente dei militari e per questo condanna al risarcimento per diffamazione (45mila euro) nei confronti del quotidiano Il Giornale che aveva pubblicato articoli denigratori, con fatti non veri, sui gappisti e Bentivegna.
La vicenda è tutta in un lungo editoriale di Feltri in occasione del processo a Priebke nel lontano 1996. Scriveva Feltri: «Priebke non è peggiore di Carla Capponi o Rosario Bentivegna... C’è poco da meravigliarsi se metto sullo stesso piano nazisti e partigiani. In via Rasella morirono all’istante trentatré soldati altoatesini anziani e inermi...e sette civili italiani tra i quali un bambino... ». L’editoriale finiva con una triste conta dei morti e con la convinzione che in fondo, i nazisti, avevano risparmiato circa 90 persone alle Ardeatine. Ora, dopo quasi dieci anni, la Suprema Corte entra nel dettaglio di quelle parole e di quell’editoriale sostenendo che «non era vero che i poliziotti tedeschi, come sostenuto da Il Giornale, fossero vecchi militari disarmati». Al contrario «si trattava di soggetti pienamente atti alle armi, tra i 26 e i 43 anni, dotati di sei bombe e pistole». E «non era poi vero che il Bozen era formato interamente da cittadini italiani in quanto facendo parte dell’esercito tedesco, i suoi componenti erano sicuramente altoatesini che avevano optato per la cittadinanza germanica». E ancora «non era vero che subito dopo l’attentato erano stati affissi manifesti che invitavano gli attentatori a consegnarsi per evitare rappresaglie». L’asserzione trova puntuale smentita - spiega la Cassazione - nella circostanza che la rappresaglia delle Fosse Ardeatine (335 morti) era iniziata circa 21 ore dopo l’attentato, e soprattutto nella direttiva del Minculpop la quale disponeva che si sottacesse la notizia di Via Rasella, che venne effettivamente data a rappresaglia già avvenuta».
Per la Cassazione, in maniera «motivata» la Corte di Appello di Milano ha riconosciuto che si sarebbero potute esprimere «dure critiche sulla scelta dell’attentato, l’organizzazione, i suoi scopi». Tutti questi fatti «non rispondenti al vero» - dicono i giudici - non possono essere considerati «di carattere marginale» ed è legittimamente da ritenersi «lesiva dell’onorabilità politica e personale» di Bentivegna. Che ieri, soddisfatto, ha commentato: «È la quarta sentenza di un’alta corte italiana, militare penale o civile che ci dà ragione con le stesse motivazioni. Norimberga ha detto la stessa cosa, il processo Kappler ha detto la stessa cosa, i processi intentati dagli alleati contro Kesserling, Meltzer e Mackensen hanno detto la stesa cosa. Tutto il mondo lo sa, solo i faziosi e gli imbecilli si ostinano a dire il contrario».

Repubblica 8.8.07
La suprema corte dà torto al quotidiano che nel '96 pubblicò una serie di articoli revisionisti sull'episodio della resistenza romana
"Via Rasella legittimo atto di guerra"
La Cassazione condanna "Il Giornale", diffamò il partigiano Bentivegna
Il patriota: "la sentenza ci dà ragione e conferma quanto sono imbecilli i faziosi"
di Carlo Picozza

ROMA - L´attentato di via Rasella, messo a segno il 24 marzo 1944 a Roma dai partigiani contro i tedeschi del battaglione "Ss Bozen", fu un «legittimo atto di guerra, rivolto contro un esercito straniero occupante, e diretto a colpire unicamente dei militari». Lo afferma la Cassazione che conferma così la condanna per Il Giornale al risarcimento danni per diffamazione (45 mila euro) a favore del partigiano Rosario Bentivegna. Il quotidiano di proprietà della famiglia Berlusconi, nel 1996 pubblicò articoli denigratori, con «fatti non rispondenti al vero», sui gappisti (gruppi di azione patriottica) e su Bentivegna che, con altri tredici partigiani romani, ideò e realizzò l´azione, travestito da spazzino, con un carretto dov´erano nascosti 12 chili di tritolo, bulloni e altri ferri.
La suprema Corte - ma questo era stato già richiamato nel processo del 2003 in Corte di Appello a Milano - ricorda che non è vero che le Ss fossero «vecchi militari disarmati», come sostenuto dal Giornale: «si trattava di soggetti pienamente atti alle armi, tra i 26 e i 43 anni, dotati di sei bombe e pistole». E non è vero neppure che il battaglione "Bozen" fosse composto da cittadini italiani: «Facendo parte dell´esercito tedesco», sottolinea la Cassazione, «i suoi componenti erano sicuramente altoatesini che avevano optato per la cittadinanza germanica». Dalla sentenza esce destituita di fondamento anche la tesi del quotidiano milanese secondo la quale, subito dopo l´attentato - che lasciò in terra 33 Ss (uno morirà in seguito) - «erano stati affissi manifesti che invitavano gli attentatori a consegnarsi per evitare rappresaglie». Una tesi che, per la Cassazione, trova «puntuale smentita nella circostanza che la rappresaglia delle Fosse Ardeatine (335 morti) era cominciata circa 21 ore dopo l´attentato e, soprattutto, nella direttiva del Minculpop la quale disponeva che si sottacesse la notizia di via Rasella, che venne effettivamente data a rappresaglia già avvenuta». Così, va ritenuta «lesiva dell´onorabilità politica e personale» di Rosario Bentivegna «la non rispondenza a verità di circostanze non marginali come l´ulteriore parificazione tra partigiani e nazisti con riferimento all´attentato di via Rasella e l´assimilazione tra Erich Priebke e Bentivegna».
«Anche questa sentenza, dopo altre quattro», commenta il partigiano, «ci dà pienamente ragione e conferma solo - ora posso dirlo senza incorrere in nessun reato - quanto siano imbecilli i faziosi e faziosi gli imbecilli». Per Bentivegna, «Norimberga ha detto la stessa cosa, come il processo Kappler e quelli intentati dagli alleati contro Kesserling, Meltzer e Mackensen. Tutto il mondo lo sa, solo i faziosi e gli imbecilli si ostinano a dire il contrario».

Repubblica 8.8.07
Lo storico Massimo Salvadori: l'azione fu condotta nella logica della resistenza
"Sentenza giusta e scontata che sconfigge il revisionismo"
Secondo lo studioso l'onorabilità dei partigiani non è in discussione
di Susanna Nirenstein

ROMA - Massimo L. Salvadori, docente di Storia delle Dottrine politiche all´università di Torino, studioso del Novecento, non ha dubbi, la sentenza che definisce l´attentato di Via Rasella del 24 marzo 1944 messo in atto dai partigiani romani guidati da Rosario Bentivegna contro i tedeschi del battaglione Ss Bozen un «legittimo atto di guerra rivolto contro un esercito straniero occupante e diretto a colpire unicamente i militari» è assolutamente legittima e in un certo senso «scontata». Salvadori non ha i dubbi che alcuni storici hanno manifestato negli ultimi anni non tanto sulla definizione di «atto di guerra» quanto sulla sua opportunità, né fa riferimento a coloro che hanno visto nell´azione una forzatura dei comunisti, un modo per causare sì una reazione forte ma in seconda istanza una insurrezione popolare.
«Non si può mettere in discussione» ci dice al telefono commentando il verdetto della Cassazione, «che Via Rasella si sia trattato di un attacco contro forze regolari germaniche, che fossero altoatesini o meno non ha nessuna importanza: erano soldati della Wermacht. L´attentato viene compiuto nel quadro di azioni di guerra che furono condotte nella tragica logica della Resistenza, ovvero di forze armate in conflitto con l´occupante».
E continua: «L´argomento usato in chiave revisionistica secondo cui l´onorabilità di Bentivegna e degli altri partigiani viene messa in questione dal fatto che non si consegnarono ai tedeschi per evitare una rappresaglia, è un argomento capzioso: voglio dire che se chi compie azioni contro l´esercito di occupazione dovesse poi arrendersi e mettersi nelle mani del nemico negherebbe il senso dell´offensiva delle forze partigiane. Se si usa una logica del genere i partigiani non potrebbero mai compiere atti ostili. La sentenza ha ristabilito delle verità che potevano ritenersi scontate».
Alla domanda se abbia mai pensato che una forza resistente debba o meno porsi il problema dei civili coinvolti, Salvadori risponde: «Una questione del genere non riguarderebbe solo la guerra partigiana in Italia. Resistere pone dei drammatici interrogativi. La rappresaglia è un pericolo grave. Ma rinunciare ad agire contro gli occupanti per paura delle ripercussioni sui civili, vorrebbe dire togliere il fondamento stesso della resistenza. Il problema si pone da sempre, si presenta anche nel mondo antico, pensi alle rappresaglie dei romani contro gli zeloti. Quando c´è una resistenza contro gli occupanti, la spirale attentati/rappresaglia è una spirale oggettiva che appartiene alla dinamica della situazione storica».

Repubblica 8.8.07
In origine c’era una sola lingua
La parola distingue l'uomo da ogni altra specie
La genetica ci riporta alla prima tribù
di Luca e Francesco Cavalli-Sforza

In latino, verbum è la parola, quindi l´elemento fondante del linguaggio, o il linguaggio stesso. In italiano ha conservato il significato di termine grammaticale per designare la parte del discorso che indica il divenire, l´azione o lo stato del soggetto. Nell´uso cristiano, indica la parola di Dio che crea il mondo, la seconda persona della Trinità, come nel Vangelo di Giovanni ("In principio era il Verbo"). L´equivalente greco, lógos, sta per parola, discorso, l´idea espressa dalla parola, ma ha anche il significato di ragione, ragionamento. Queste estensioni del concetto non stupiscono, se consideriamo che la parola è l´unità basilare del linguaggio, la maggior differenza tra uomo e animali. Anche gli animali comunicano tra loro, alcuni, come le formiche, con messaggi chimici, altri, come le api, con danze elaborate, altri ancora con versi, suoni e canti, ma nessuno di questi sistemi di comunicazione ha raggiunto il grado di ricchezza e versatilità caratteristico del linguaggio umano.
L´analisi del linguaggio è forse la più astratta delle scienze, perché è del tutto autoreferenziale. Per spiegare il significato di una parola un dizionario impiega altre parole, impresa molto difficile, soprattutto quando si tratta di parole astratte. In realtà, la massima parte delle parole designa oggetti, azioni, fenomeni molto concreti, come è naturale per uno strumento nato per aiutare le persone a scambiarsi informazioni e ad operare insieme. Se confrontiamo la ricchezza e la precisione dei termini che descrivono la strumentazione e le attività di un´officina meccanica, ad esempio, con la relativa povertà e l´imprecisione dei termini che descrivono nozioni e operazioni astratte, per quanto universali (come "amore", "pensiero", "curiosità"), ci rendiamo conto di quanto il linguaggio sia sempre stato essenzialmente uno strumento pratico, volto a favorire lo sviluppo delle interazioni umane. Nell´antichità era diffusa la convinzione che la parola fosse in qualche modo compartecipe di ciò che essa designa, che ne condividesse la sostanza. Oggi si giudica che il significato delle parole sia arbitrario, cioè che una parola designi ciò che designa per semplice convenzione fra i parlanti.
Sempre per ragioni pratiche, di economia delle parole, il linguaggio è ambiguo: una parola può avere parecchi significati, di solito abbastanza distanti fra loro perché non sia troppo difficile intuire, in base al contesto, in che senso una parola polisemica (cioè che ha molti significati, come è vero di molte parole) viene impiegata in una precisa circostanza. Se però si vuole eliminare qualsiasi errore di comprensione è necessario ricorrere ad un glossario tecnico specializzato, più ricco del solito, oppure alla logica o alla matematica. Anche per questo la scienza ha bisogno della matematica.
Non sappiamo quando e come sia comparso il linguaggio, ma deve essere passato per vari stadi e deve essersi trattato di un lungo processo, perché ha richiesto importanti cambiamenti biologici, che non compaiono dall´oggi all´indomani: la formazione dell´organo che permette di produrre la voce, dei centri nervosi capaci di dirigerlo ed anche di quegli organi e centri nervosi che ci mettono in grado di ascoltare e capire quanto ci viene detto. Si è riusciti a farsi capire dalle scimmie più vicine a noi, ma non a farle parlare se non attraverso simboli visivi e giochi, anche elettronici, tramite i quali ci comunicano i loro desideri e altri semplici sentimenti e informazioni. I risultati però rimangono solo molto lontanamente paragonabili all´uso che facciamo del linguaggio per comunicare tra uomini.
In realtà il linguaggio è il tratto culturale umano che meglio dimostra l´unità della nostra specie. Esistono almeno seimila lingue diverse - molte altre sono estinte - ma la traduzione dall´una all´altra è sempre possibile, con limiti dovuti soprattutto alle grandi diversità dei rispettivi stili di vita, per cui i linguaggi dei popoli che fanno una vita più semplice possono accontentarsi di non molte migliaia di parole, mentre le culture tecnicamente più avanzate ne richiedono centinaia di migliaia. Soprattutto, non vi è limitazione che impedisca ad alcun essere umano, che non soffra di gravi menomazioni innate o acquisite, di imparare perfettamente qualsiasi lingua esistente. L´apprendimento può essere imperfetto se non avviene nei primi anni di vita, perché il nostro cervello è fatto in modo che il linguaggio deve essere appreso nei primi tre o quattro anni di vita, in cui siamo predisposti a impadronirci rapidamente di quella che rimarrà poi sempre la nostra lingua materna. Nello sviluppo vi sono molti periodi critici, diversi per le diverse acquisizioni: per il linguaggio, un primo periodo critico è questo. Ve ne è poi un altro più avanti, o meglio un altro limite di età oltre il quale l´apprendimento non può più essere perfetto, che riguarda le lingue straniere e in particolare la loro pronuncia: durante la pubertà, quasi tutti perdono la capacità di apprendere correttamente i suoni di una lingua diversa dalla madrelingua. Purtroppo si direbbe che in genere i ministri dell´istruzione ignorino questa regola, per cui l´insegnamento delle lingue straniere inizia troppo tardi. Dovrebbe cominciare nella scuola elementare.
Le lingue evolvono rapidamente. Nel De vulgari eloquentia, Dante si mostra consapevole del fatto che il linguaggio evolve e che lingua madre e lingua figlia possono diventare reciprocamente incomprensibili in poco più di mille anni. Gli era ben chiara la differenza tra il latino e l´italiano che lui stesso parlava. Ma il primo studio sistematico delle lingue è stato compiuto alla fine del Settecento da un giudice inglese che viveva in India, Sir William Jones, che ebbe occasione di accorgersi della somiglianza tra sanscrito, greco, latino (comprese le lingue da questo derivate) e le lingue germaniche e slave. Cominciò così a prendere forma la prima famiglia linguistica, oggi chiamata indoeuropea, o indoittita poiché l´ittita è la lingua più antica del gruppo europeo. Nel 1865 il linguista tedesco August Schleicher ne diede un albero evolutivo, poco diverso da quello su cui vi è oggi un discreto consenso.
L´estensione di questa analisi ad altre lingue ha visto formare parecchie altre famiglie, ma con poco accordo fra i linguisti. Nel 1866, la Società di Linguistica di Parigi promulgava un tabù, vietando ufficialmente di occuparsi di evoluzione del linguaggio. Il divieto evidentemente ha avuto successo, perché solo nella seconda metà del secolo scorso vi è stato un progresso importante, grazie a Joseph Greenberg, dell´Università di Stanford, che giunse molto vicino a ricostruire un albero evolutivo completo delle lingue dell´umanità, ma disgraziatamente morì prima di avere completato il suo lavoro. Sfidando l´approccio più tradizionalista, il metodo sviluppato da Greenberg mette a confronto alcune centinaia di parole di uso molto comune in lingue diverse: termini che indicano parti del corpo, sostanze e fenomeni naturali universalmente presenti, pronomi personali, i numeri un due tre e così via: si tratta di parole che sono fra le prime che il bambino impara, e che meglio si conservano nel corso del tempo.
Il numero delle principali famiglie varia, a seconda dei tassonomi, da dodici a molte di più. Con il minor numero di famiglie formulate dai linguisti più avanzati, dodici, l´albero evolutivo delle lingue corrisponde molto bene all´albero genealogico delle popolazioni umane costruito in base ai dati genetici, con alcune eccezioni che hanno una chiara spiegazione storica.
In genere il problema dell´origine del linguaggio riscuote poco interesse fra i linguisti, molti dei quali lo considerano un problema insolubile, e ritengono che la ricostruzione della storia evolutiva delle lingue possa difficilmente risalire più indietro dei seimila anni ritenuti data d´origine della famiglia indoeuropea (che probabilmente è coeva all´origine dell´agricoltura, intorno ai 10.000 anni fa, e quindi ha un´età quasi doppia).
La genetica ha dato un importante contributo a comprendere l´evoluzione delle lingue. Un gene chiamato FOXP2, responsabile di un difetto ereditario complesso, che riduce le capacità di articolazione e determina carenze grammaticali, fa pensare che vi siano stati cambiamenti recentissimi che hanno permesso di raggiungere il grado attuale di sviluppo delle capacità linguistiche. L´uomo anatomicamente moderno ha non più di 150.000 anni di vita, secondo gli archeologi, ma le prime modifiche del cervello che hanno portato a sviluppare i centri motori del linguaggio, ben noti agli anatomisti e ai patologi, che occupano le circonvoluzioni nella parte media sinistra del cervello umano, potrebbero avere una antichità assai maggiore, di due milioni di anni.
Come detto sopra, qualunque uomo vivente oggi può imparare qualunque lingua esistente, e i dati archeologici e genetici concordano nel mostrare che tutti gli uomini oggi viventi discendono da una piccola popolazione che viveva in Africa orientale, delle dimensioni di una tribù. Gli antropologi sanno bene che tribù e lingua sono quasi la stessa cosa, e questa tribù da cui tutti discendiamo doveva parlare una lingua sola, da cui devono essere derivate tutte quelle esistenti oggi.
Già un famoso linguista italiano, Alfredo Trombetti, cento anni fa aveva proposto l´idea che tutte le lingue umane esistenti abbiano avuto origine da un´unica lingua. Il suo libro era stato ridicolizzato dai contemporanei, ma la genetica lo conferma in pieno. Vale la pena di ricordare che questa conclusione è in accordo con una profezia di Darwin (L´origine delle specie, seconda edizione, cap. XIV): "se possedessimo un albero genealogico perfetto dell´umanità, un ordinamento genealogico delle razze dell´uomo permetterebbe la miglior classificazione delle lingue che oggi si parlano nel mondo."

(7 - continua)

Liberazione 8.8.07
Atei e credenti innoviamo la laicità
di Domenico Jervolino

Confesso che non mi capitava da un pò di tempo di leggere con soddisfazione e consenso un editoriale di Eugenio Scalfari su Repubblica . E' accaduto domenica 5 agosto con quello che prende il suo titolo da una citazione dal più grande poeta: "Oh Costantin di quanto mal fu madre...". Le parole di Dante introducono un ragionamento articolato che mostra come sia stata e resti fondamentale per la nostra storia politica la questione cattolica, che potremmo anche chiamare con Gramsci la questione vaticana, che dipende appunto dal fatto che il nostro paese ospita la sede del successore di Pietro e che questa sede ha assunto nel corso dei secoli un potere politico consistente (appunto nel periodo che fu chiamato "epoca costantiniana", anche se - come è noto a partire dai tempi dell'umanista Lorenzo Valla - la cosiddetta donazione di Costantino a papa Silvestro è un falso storico cosa che non poteva quindi essere nota a Dante, il quale comunque la depreca, anche come credente). Il potere politico del papato è sopravvissuto in Italia, in forme nuove, grazie tra l'altro al regime concordatario che non dobbiamo solo a Mussolini ma anche, per il suo aggiornamento, a Craxi, con buona pace dei suoi epigoni. Scalfari illustra persuasivamente la specificità italiana della questione cattolica e la sua nuova attualità dopo la scomparsa della Dc, e mostra come essa anzi oggi viene rinverdita dalle persistenti tendenze temporaliste dei vertici ecclesiastici, dai privilegi di cui godono, e dal progetto di fare della specificità italiana la base di partenza di una riconquista di peso politico in altri paesi dalla Spagna al Portogallo, dall'Austria alla Baviera, ad alcuni paesi latino-americani.... Si potrebbe aggiungere che la questione cattolica è importante a livello del mondo globalizzato per l'organizzazione fortemente centralizzata del cattolicesimo romano, oggi persino più dei secoli scorsi, e per la tentazione di giocare questa influenza nel conflitto delle civiltà come appena ieri in chiave anticomunista. Ma, restando all'Italia, credo che si possa condividere il giudizio che la cultura e la politica laica siano inadeguate di fronte a questa tematica, e che non offrano soluzioni efficaci, né l´anticlericalismo di alcuni settori né l'acquiescenza e la subalternità dei più. Temo di dover essere d'accordo con Scalfari anche quando rileva lo scarso interesse della sinistra radicale per queste tematiche: nonostante il fatto, aggiungo io, che su questo punto essa potrebbe richiamarsi alla lezione di Gramsci (ma quest'aspetto dell'eredità gramsciana è coltivato solo da pochi studiosi, pur nell'attuale rinascita gramsciana, nel mondo, che ormai tocca anche l'Italia) e potrebbe rifarsi inoltre all'opera di grandi marxisti come Lelio Basso e alla militanza di tanti credenti nella sinistra politica, sociale e sindacale, in modo numericamente significativo proprio a partire dagli anni del post-Concilio. Anche Rifondazione ha un pò sprecato il fatto che nei suoi primi congressi essa abbia ripetutamente iscritto nelle sue tesi una opzione esplicitamente anticoncordataria, innovando in ciò la tradizione del Pci. Ma tutti, democratici, sinistra, intellettuali laici, dovrebbero imparare a conoscere meglio la complessità e l'articolazione del mondo cattolico (e di quello cristiano, in senso più generale, nonché della questione religiosa, in termini ancora più ampi), a non lasciare la rappresentanza del cattolicesimo ai vertici clericali (regalo enorme che fanno loro stranamente non solo gli obbedienti e gli ossequienti, ma anche gli anticlericali più accaniti) e a declinare un concetto di laicità comune a credenti, non credenti, diversamente credenti come elemento essenziale di un'autentica democrazia. Riusciremo a inserire questi temi nell'agenda della sinistra da unificare e da rinnovare?

Liberazione 8.8.07
Il nuovo libro di Lorenzo Del Boca stigmatizza il comportamento del generale durante la Prima guerra mondiale.
Mandò i soldati allo sbaraglio e quando non erano i fucili nemici ad uccidere ci pensava la corte marziale
Nome Luigi, cognome Cadorna, professione stragista
di Maria R. Calderoni

«La giustizia del senno di poi avrebbe suggerito di fucilare direttamente Cadorna e di mettere al muro anche Badoglio. Forse, era l'unica opportunità che l'Italia poteva giocarsi per evitare l'8 settembre 1943». Attenuanti, nessuna: non concede sconti di sorta questo nuovo libro di Lorenzo Del Boca - Grande guerra piccoli generali, (Utet, pp. 223, euro 14,00) - che non per nulla reca come sottotitolo "Una cronaca feroce della Prima guerra mondiale". Una cronaca feroce ma purtroppo vera; e che resta tale anche se il "lavoro" di occultamento e di rimozione è stato lungo e tutt'altro che vinto. Quasi cinquantamila libri, tanti ne sono stati scritti sul tema, non sono valsi a svelare fino in fondo, a far diventare senso comune, tutto l'orrore, dentro e fuori l'immenso fronte, della Prima guerra mondiale. Vale anche per quanto riguarda il solo versante taliano.
Delitti e misfatti di casa nostra, il macello arriva per ordini dall'alto. Il lavoro di Del Boca ne fa intravvedere un bello squarcio e lo spettacolo è del genere raccapricciante, color rosso sangue, sia pure ammantato di tricolore. Sotto accusa gli stati maggiori, i capi, i generali che hanno guidato - absit iniuria verbis - l'esercito italiano durante l'immane conflitto 15-18.
Cadorna appunto. «Al momento dell'entrata in guerra, l'esercito italiano venne affidato a Luigi Cadorna che, se avesse ottenuto risultati proporzionali alla sua presunzione, avrebbe conquistato il globo terracqueo. In realtà riusci soltanto a trasformare le sue prime linee in un lager dove gli uomini ai suoi ordini furono sottoposti a ogni genere di prevarcazioni anche psicologiche. Gli uomini potevano solo soffrire, dannarsi e morire». Gli uomini, sotto Cadorna, si tenevano col terrore. «Le corti marziali lavorarono a pieno ritmo e i magistrati spedirono davanti al plotone d'esecuzione una quantità di poveracci analfabeti che il fango delle trincee aveva mutilato».
"Muti passavan, quella notte, i fanti". Già, avevano poco da ridere. «I generali valgono poco». Parola di Giovanni Giolitti che, «in uno slancio di onestà intellettuale, fotografò lo Stato Maggiore per quel nulla che era capace di fare»: «Hanno il comando di un'armata il Brusati che basterebbe appena per un reggimento. Il Frugoni, abbiamo dovuto richiamarlo dalla Libia, di tante bestialità era responsabile. Lo Zuccari non è che un elegantone».
Molte pagine del libro sono un'esposizione cruenta delle operazioni-massacro condotte sotto l'illuminata guida di cui sopra. L'8 giugno 1915 è lanciato il tentativo di prendere il Podgora «e fu la prima carneficina dei nostri soldati falciati dalle mitragliatrici e lasciati ad agonizzare nella terra di nessuno».
Nemmeno quindici giorni dopo, il 21 giugno, comincia quella che nei testi di storia passa come "la prima battaglia dell'Isonzo". Nèssun obiettivo raggiunto, né sul Podgora né sul Kuk, e questo al prezzo di 2.000 morti, 11.500 feriti e 1.500 dispersi. La "tattica" usata per esempio sul Kuk venne così descritta da Ugo Oietti: «Ci gettammo a testa bassa, per i ripidi pendii scoperti. Quattro brigate tentarono di sfondare in un triangolo di poco più di un chilometro di base. Immaginarsi il carnaio davanti ai reticolati austriaci pressoché intatti»
Meno di un mese dopo, il 18 luglio, si lancia la "seconda battaglia dell'Isonzo": nonostante il valore dei soldati che per tre volte tentano di conquistare il San Michele, si risolve in un altro disastro, causa mancati aiuti: 42 mila uomini fuori combattimento.
«Rinforzi non ne arrivavano mai e, qualche volta, mancavano le munizioni per resistere». Nondimeno il Comando non vuol chudere il 1915 senza avere colto qualche bel risultato. All'uopo è pronta la "terza battaglia dell'Isonzo", questa volta si punta su Gorizia. Per tre giorni, dal 19 al 22 ottobre, le artigliere italiane martellano i reticolati austriaci senza riuscire ad aprire dei varchi. Non importa: il piano degli strateghi cadorniani prevedeva che il terzo giorno sarebbe dovuta intervenire la fanteria e così fu. «I comandanti diedero ai soldati l'ordine di attaccare. In poche decine di metri quadrati, "i nostri" furono maciullati. Impregnarono col sangue le zolle e coprirono la terra coi loro corpi. Letteralmente». Lì sacrificati 67 mila ragazzi.
Beh pazienza. Si può sempre lanciare la "quarta battaglia dell'Isonzo", ciò che avvenne puntualmente dal 4 al 12 novembre, teatro la zona di San Floriano e Oslavia, ancora una volta, i fanti mandati all'attacco sotto la pioggia di fuoco austriaco, giusto come voleva la tattica di Cadorna: vennero perduti altri 49 mila soldati.
Cadorna, lui. Del Boca gli riserba pagine spietate. «Il generalissimo Luigi Cadorna? Da poche ore era stato nominato capo di Stato Maggiore ma, prima di verificare i piani militari, si preoccupò di acquistare un buon pacchetto di azioni dell'Ansaldo», cioé l'azienda-leader nel campo dei rifornimenti bellici, cannoni e simili: pacchetto sicuramente ad alta remunerazione, dato il macello in corso.
Del resto, nel 1914, al momento di nominare il capo di stato maggiore, gli era stato preferito il gen. Alberto Pollio, «soprattutto per l'intervento di Giolitti, che si giustificò: "Ho scelto Pollio che non conosco perchè Cadorna lo conosco"» (Pollio morì poco dopo) .
Generalissimo? «Non conosceva il valore della fatica (degli altri). Riteneva che il sacrificio non fosse mai sufficiente (quello degli altri). Di fronte al martirio di interi reparti che si lasciarono massacrare per obbedire a degli odini strampalati, mostrò un apatico cinismo. Il 28 agosto 1916 lasciò che un'offensiva terminasse per sfinimento. Era costata 36 mila morti, 96 mila feriti e 25 mila dispersi». Tutto «per avanzare di quattro chilometri e conquistare qualche ettaro di pietraia».
Generalissimo? «E quando i fiaschi non bastarono più, entrarono in azione i plotoni di esecuzione che, in fretta e spesso senza processo, mandavano al muro chi si mostrava titubante nel correre a farsi ammazzare». E «dovevano essere esecuzioni "esemplari", in modo che servissero da esempio e da deterrente».
Generalissmo? Caporetto, «fu una sconfitta da far vergogna». Anche allora, Cadorna venne informato per tempo, «ma ritenne improbabile una offensiva austriaca. Provocò crisi di comando, diede ordini sbagliati, confusi e contradditori che non consentirono alle truppe di schierarsi razionalmente. Sbagliò nel valutare le nostra forze e quelle dell'avversario...».
Caporetto, «la ritirata stava diventando una fuga e la fuga stava assomigliando a una rotta. I più alti in grado si segnalarono per l'agilità con cui abbandonarono il loro posto». Furono perduti centomila uomini. Caporetto, Italia.

Redattore Sociale 8.8.07
India: 700 donne all’anno uccise dalla "caccia alle streghe"

Oltre 700 le donne uccise l’anno scorso, ma meno del 2% dei responsabili viene condannato per omicidio. La testimonianza di Tara Ahluwalia, assistente sociale: "Manca una legge nazionale".
In India sono numerosi i casi di caccia alle streghe nelle aree rurali di circa dodici stati, principalmente nel nord e nel centro del paese. Oltre 700 donne sono state uccise lo scorso anno perché sospettate di essere streghe, secondo quanto riportano i media nazionali. Swati Safena, giornalista indiana indipendente, dedica a questo problema un articolo pubblicato da "La nonviolenza è in cammino", quotidiano telematico del Centro di ricerca per la pace. "Sono zone in cui la povertà è estrema, e in cui le persone hanno scarso o nessun accesso ai servizi sanitari di base e all’istruzione", racconta alla giornalista Tara Ahluwalia, un’assistente sociale della città di Bhilwara, che aiuta le vittime della caccia alle streghe.
"In queste circostanze, la superstizione acquista forza. I problemi sono tanti: cattivi raccolti, morti in famiglia, la perdita di un bimbo, malattie croniche o il prosciugarsi dei pozzi, ma la soluzione resta identica: identificare la strega responsabile e punirla". Etichettare una donna come strega è il modo comune di avere più terra, cancellare le dispute o vendicarsi se lei ha rifiutato una proposta sessuale.
Ci sono anche casi documentati in cui una donna viene presa di mira perché ha un carattere forte ed è perciò vista come una minaccia. Nella maggioranza dei casi è difficile per le donne accusate ottenere aiuto dall’esterno, ed esse sono forzate a lasciare la casa e la famiglia o a suicidarsi, oppure vengono brutalmente assassinate.
"Molte vicende non sono documentate perché è difficile per le donne viaggiare da regioni isolate sino ai luoghi in cui possono fare denunce", spiega ancora Ahluwalia. "E poiché la violenza è diretta largamente contro le donne, la polizia spesso omette di prenderla sul serio. Nel migliore dei casi, la rubricano come un disagio sociale che deve essere risolto all’interno della comunità. Quando una donna ce la fa a raggiungere la stazione di polizia, l’atteggiamento apatico dei funzionari le rende ancor più difficoltoso il processo di sporgere una denuncia".
Una soluzione adottata da Ahluwalia è quella di non condurre le vittime alla polizia, ma di sollecitare la riunione del "jaati panchayat", e cioè del gruppo di persone più rispettate in seno ai villaggi a cui è demandata la risoluzione delle dispute. La pressione sociale assicura che le decisioni prese in questo modo verranno rispettate. L’assistente sociale usa questo sistema da venticinque anni. Solo pochi tra i 28 stati indiani, come Jharkhand e Bihar, hanno una legge contro la caccia alle streghe.
"È l’handicap maggiore", dice ancora Ahluwalia. "Nella maggioranza degli stati non c’è legge sotto cui la polizia possa rubricare il reato. Si tratta di tentato omicidio, ma in assenza di una legge specifica, la polizia registra la denuncia sotto la più mite Sezione 323. Che consiste in questo: diciamo che io ti dia uno schiaffo oggi, e il reato cade sotto la 323. Se dico che sei una strega, e quindi ti costringo a mangiare escrementi, ti faccio sfilare nuda in pubblico e ti picchio sino a che muori, questo va ancora sotto la 323". La pena massima che questa legge prevede è un anno di prigione o una multa di mille rupie (circa 25 dollari).
Nel Rajasthan, la Commissione statale per le donne ha presentato una proposta di legge che inasprisce le pene, chiedendo dieci anni di prigione per chi ferisce una donna durante una caccia alla strega. "Un notevole numero di casi avviene nel Rajasthan, eppure il progetto di legge sta aspettando da un anno, e ancora non è passato all’esame del governo", nota Kavita Srivastava, segretaria nazionale della più antica organizzazione per i diritti umani indiana, l’Unione del popolo per le libertà civili. Meno del 2% di coloro che vengono accusati di aver effettuato cacce alle streghe sono effettivamente condannati, secondo uno studio compiuto dal "Free Legal Aid Committee", un gruppo che lavora a favore delle vittime nello stato di Jharkhand.
"Le punizioni per questa orrenda violenza devono essere severe", dice la dottoressa Girija Vyas, presidente della Commissione nazionale per le donne. "Ed è di uguale importanza pubblicizzare l’esistenza delle leggi. Voglio dire, negli stati in cui abbiamo una legge contro la caccia alle streghe, quante sono le donne che ne sono a conoscenza?". La Commissione ha raccomandato la formazione per le forze di polizia, affinché i funzionari diventino più ricettivi nel considerare i casi di caccia alle streghe, e sta pensando a una legislazione a livello nazionale. Ma l’educazione e la consapevolezza sociale sono le vere chiavi. In numerose comunità rurali l’ohja, o medico-stregone/strega, è una figura potente, soprattutto in assenza di ambulatori e servizi sanitari di base. Nei casi riportati dai media, l’investigazione della polizia ha spesso rivelato che gli "ohja" accettano prebende per accusare una donna di essere una strega.
"Etichettare una donna come strega non solo la depriva economicamente, ma erode il suo senso di fiducia e autostima", dice ancora la dottoressa Vyas. "Anche se ottiene di salvarsi la vita, porta il peso del sospetto e dell’odio della sua comunità, e a volte persino della sua stessa famiglia. È un problema sociale a più dimensioni e richiede un piano d’azione complesso e a più livelli".

domenica 5 agosto 2007

Repubblica 5.8.07
Oh Costantin di quanto mal fu madre
di Eugenio Scalfari

Tra le tante questioni che affliggono il nostro paese, insolute da molti anni e alcune risalenti addirittura alla fondazione dello Stato unitario, c´è anche quella cattolica. Probabilmente la più difficile da risolvere.
Personalmente penso anzi che resterà per lungo tempo aperta, almeno per l´arco di anni che riguardano le tre o quattro generazioni a venire. Roma e l´Italia sono luoghi di residenza millenaria della Sede apostolica e perciò si trovano in una situazione anomala rispetto a tutte le altre democrazie occidentali. Se guardiamo agli spazi mediatici che la Santa Sede, il Papa, la Conferenza episcopale hanno nelle televisioni e nei giornali ci rendiamo conto a prima vista che niente di simile accade in Francia, in Germania, in Gran Bretagna, in Olanda, in Scandinavia e neppure nelle cattolicissime Spagna e Portogallo per non parlare degli Usa, del Canada e dell´America Latina dove pure la popolazione cattolica ha raggiunto il livello di maggiore densità.
Da noi le reti ammiraglie di Rai e di Mediaset trasmettono sistematicamente ogni intervento del Papa e dei Vescovi. L´"Angelus" è un appuntamento fisso. Le iniziative e le dichiarazioni dei cattolici politicamente impegnati ingombrano i giornali, il presidente della Repubblica, appena nominato, sente il bisogno di inviare un messaggio di «presentazione» al Pontefice, cui segue a breve distanza la visita ufficiale.
Tutto ciò va evidentemente al di là d´una normale regola di rispetto e dipende dal fatto che in Italia il Vaticano è una potenza politica oltre che religiosa. Ciò spiega anche la dimensione dei finanziamenti e dei privilegi fiscali dei quali gode il Vaticano, la Santa Sede e gli enti ecclesiastici; anche questi senza riscontro alcuno negli altri paesi.
Infine il rapporto di magistero che la gerarchia ecclesiastica esercita sulle istituzioni ovunque vi sia una rappresentanza di cattolici militanti e la funzione di guida politica che di fatto orienta i partiti di ispirazione cattolica e quindi cospicui settori del Parlamento.
La questione cattolica è dunque quella che spiega più d´ogni altra la diversità italiana. Spiega perché noi non saremo mai un «paese normale». Perché una parte rilevante dell´opinione pubblica, della classe politica, dei mezzi di comunicazione, delle stesse istituzioni rappresentative, sono etero-diretti, fanno capo cioè e sono profondamente influenzati da un potere "altro". Quello è il vero potere forte che perdura anche in tempi in cui la secolarizzazione dei costumi ha ridotto i cattolici praticanti ad una minoranza.
«Ahi Costantin, di quanto mal fu madre...».
La questione cattolica ha attraversato varie fasi che non è questa la sede per ripercorrere. Basti dire che si sono alternate fasi di latenza durante le quali sembrava sopita, e di vivace ed aspra riacutizzazione.
Il mezzo secolo della Prima Repubblica, politicamente dominato dalla Democrazia cristiana, fu paradossalmente una fase di latenza. La maggioranza era etero-diretta dal Vaticano e dagli Stati Uniti, il Pci era etero-diretto dall´Unione Sovietica. Entrambi i protagonisti accettavano questo stato di cose, insultandosi sulle piazze e dai pulpiti, ma assicurando, ciascuno per la sua parte, un sostanziale equilibrio. Quando qualcuno sgarrava, veniva prontamente corretto.
Ma la fase attuale non è affatto tranquilla, la questione cattolica si è riacutizzata per varie ragioni, la prima delle quali è l´emergere sulla scena politica dei temi bioetici con tutto ciò che comportano.
La seconda ragione deriva dalla linea assunta da Benedetto XVI che ritiene di spingere il più avanti possibile le forme di protettorato politico-religioso che il Vaticano esercita in Italia, per farne la base di una "reconquista" in altri paesi a cominciare dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Baviera, dall´Austria e da alcuni paesi cattolici dell´America meridionale. Le capacità finanziarie dell´episcopato italiano forniscono munizioni non trascurabili per sostenere questo disegno che ha come obiettivo l´esportazione del modello italiano laddove ne esistano le condizioni di partenza.
A fronte di quest´offensiva le "difese laiche" appaiono deboli e soprattutto scoordinate. Si va da forme d´intransigenza che sfiorano l´anticlericalismo ad aperture dialoganti ma a volte eccessivamente permissive verso i diritti accampati dalla "gerarchia". Infine permane il sostanziale disinteresse della sinistra radicale, che conserva verso il laicismo l´antica diffidenza di togliattiana memoria.
Si direbbe che il solo dato positivo, dal punto di vista laico, sia una più acuta sensibilità autonomistica che ha conquistato una parte dei cattolici impegnati nel centrosinistra. Ma si tratta di autonomia a corrente variabile, oggi rimesso in discussione dalla nascita del Partito democratico e dai vari posizionamenti che essa comporta per i cattolici che ne fanno parte. Con un´avvertenza di non trascurabile peso: secondo recenti sondaggi nell´ultimo decennio i cattolici schierati nel centrosinistra sarebbero discesi dal 42 al 26 per cento. Fenomeno spiegabile poiché gran parte dell´elettorato ex Dc si trasferì fin dal 1994 su Forza Italia; ma che certamente negli ultimi tempi ha accelerato la sua tendenza.

* * *
Un fenomeno degno di interesse è quello del recente associazionismo delle famiglie. Non nuovo, ma fortemente rilanciato e unificato dal "forum" che scelse come organizzatore politico e portavoce Savino Pezzotta, da poco reduce dalla lunga leadership della Cisl e riportato alla ribalta nazionale dal "Family Day" che promosse qualche mese fa in piazza San Giovanni il raduno delle famiglie cattoliche.
Da allora Pezzotta sta lavorando per trasformare il "forum" in un movimento politico. «Non un partito» ha precisato in una recente intervista «ma un quasi-partito; insomma un movimento autonomo che potrà eventualmente appoggiare qualche partito di ispirazione cristiana che si batta per realizzare gli obiettivi delle famiglie. Sia nei valori che sono ad esse intrinseci sia per i concreti sostegni necessari a realizzare quei valori».
L´obiettivo è ambizioso e fa gola ai partiti di impronta cattolica, ma Pezzotta amministra con molta prudenza la sigla di cui è diventato titolare. Dico sigla perché al momento non sappiamo quale sia la sua realtà organizzativa e la sua effettiva spendibilità politica.
Sembra difficile che il nascituro movimento delle famiglie possa praticare una sorta di collateralismo rispetto ai settori cattolici militanti nel Partito democratico: la piazza di San Giovanni non sembrava molto riformista, le voci che l´hanno interpretata battevano soprattutto su rivendicazioni economiche ma non basterà riconoscergliele per acquistarne il consenso e il voto. A torto o a ragione le famiglie e le sigle che le rappresentano ritengono che quanto chiedono sia loro dovuto. Il voto elettorale è un´altra cosa e non sarà Pezzotta a guidarlo. Ancor meno i vari Bindi, Binetti, Bobba nelle loro differenze. Voteranno come a loro piacerà, seguendo altre motivazioni e inclinazioni, influenzate soprattutto dai luoghi in cui vivono e dai ceti sociali e professionali ai quali appartengono.
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Un elemento decisivo della questione cattolica e dell´anomalia che essa rappresenta è costituito dalla dimensione degli interessi economici della Santa Sede e degli enti ecclesiastici, del loro "status" giuridico e addirittura costituzionale (il Trattato del Laterano è stato recepito in blocco con l´articolo 7 della nostra Costituzione) e dei privilegi fiscali, sovvenzioni, immunità che fanno nel loro insieme un sistema di fatto inattaccabile. Basti pensare che la Santa Sede rappresenta il vertice di un´organizzazione religiosa mondiale e fruisce ovviamente d´un insediamento altrettanto mondiale attraverso la presenza dei Vescovi, delle parrocchie, degli Ordini religiosi, delle Missioni. Ma, intrecciata ad essa c´è uno Stato - sia pure in miniatura - che gode d´un tipo di immunità e di poteri propri di uno Stato e quindi di una soggettività diplomatica gestita attraverso i "nunzi" regolarmente accreditati presso tutti gli altri Stati e presso le organizzazioni internazionali.
Questa doppia elica non esiste in nessun´altra delle Chiese cristiane ed è la conseguenza della struttura piramidale di quella cattolica e della base territoriale da cui trasse origine lo Stato vaticano e il potere temporale dei Papi. Non scomoderemo Machiavelli e Guicciardini, Paolo Sarpi e Pietro Giannone per ricordare quali problemi ha sempre creato il potere temporale nella storia della nazione italiana, nell´impossibilità di realizzare l´unità nazionale quando gli altri paesi europei avevano già da secoli raggiunto la loro ed infine lo scarso senso dello Stato che gli italiani hanno avuto da sempre e continuano abbondantemente a dimostrare. Sarebbe storicamente scorretto attribuire unicamente al potere temporale dei Papi questo deficit di maturità civile degli italiani, ma certo esso ne costituisce uno dei principali elementi.
Purtroppo il temporalismo è una tentazione sempre risorgente all´interno della Chiesa; sotto forme diverse assistiamo oggi ad un tentativo di resuscitarlo che si esprime attraverso la presenza politica diretta dell´episcopato nelle materie "sensibili" il cui ventaglio si sta progressivamente ampliando.
Negli scorsi giorni l´atmosfera si è ulteriormente riscaldata a causa di una frase di Prodi che esortava i sacerdoti a sostenere la campagna del governo contro le evasioni fiscali e lamentava lo scarso contributo della Chiesa ad un tema così rilevante.
Credo che Prodi, da buon cattolico, abbia pronunciato quella frase in perfetta buonafede ma, mi permetto di dire, con una dose di sprovveduta ingenuità. Lo Stato non rappresenta un tema importante per i sacerdoti e per la Chiesa. Ancorché i preti e i Vescovi siano cittadini italiani a tutti gli effetti e con tutti i diritti e i doveri dei cittadini italiani, essi sentono di far parte di quel sistema politico-religioso che a causa della sua struttura è totalizzante. La cittadinanza diventa così un fatto marginale e puramente anagrafico; salvo eccezioni individuali, il clero si sente e di fatto risulta una comunità extraterritoriale. Pensare che una delle preoccupazioni di una siffatta comunità sia quella di esortare gli italiani a pagare le tasse è un pensiero peregrino. Li esorta - questo sì - a mettere la barra nella casella che destina l´otto per mille del reddito alla Chiesa. Un miliardo di euro ha fruttato all´episcopato italiano quell´otto per mille nel 2006. Ma esso, come sappiamo, è solo una parte del sostegno dello Stato alla gerarchia, alle diocesi, alle scuole, alle opere di assistenza.
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Come si vede la pressione cattolica sullo Stato "laico" italiano è crescente, si vale di molti mezzi, si manifesta in una pluralità di modi assai difficili da controllare e da arginare.
Le difese laiche - si è già detto - sono deboli e poco efficaci: affidate a posizioni individuali o di gruppi minoritari ed elitari contro i quali si ergono "lobbies" agguerrite e perfettamente coordinate da una strategia pensata altrove e capillarmente ramificata.
Quanto al grosso dell´opinione pubblica, essa è sostanzialmente indifferente. La questione cattolica non fa parte delle sue priorità. La gente ne ha altre, di priorità. È genericamente religiosa per tradizione battesimale; la grande maggioranza non pratica o pratica distrattamente; i precetti morali della predicazione vengono seguiti se non entrano in conflitto con i propri interessi e con la propria "felicità". In quel caso vengono deposti senza traumi particolari.
Perciò sperare che la democrazia possa diventare l´"habitus" degli italiani è arduo. Gli italiani non sono cristiani, sono cattolici anche se irreligiosi. Questo fa la differenza.